Blog Archives

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La sincerità (cap. 7)

Questa pāramī è una qualità che include due aspetti. Il primo è la sincerità in termini di intenzioni e comportamenti, come la determinazione ad astenersi dal dire bugie o dal riferire pettegolezzi, che è un aspetto della moralità. Il secondo è nel campo della percezione, cioè alla capacità di vedere o comprendere le cose in un maniera non distorta.

Liberare la mente dalla distorsione richiede più di una generica sensibilità morale. Per questo abbiamo bisogno di controllare la natura dei nostri pensieri, atteggiamenti e pregiudizi attraverso l’introspezione e la meditazione. Con tali pratiche, cominciamo ad acquisire una sensibilità verso la pressione creata dalle nostre preferenze e aspettative; e vediamo anche come liberarcene. Spesso si tratta di distinguere i nostri presupposti e desideri dal modo in cui le cose sono in realtà o da quello che è già avvenuto – una verifica che gli esseri umani regolarmente non riescono a fare quando sono già “presi” da una qualche cosa. È mediante la chiara comprensione sviluppata nella meditazione che queste pressioni sono eliminate e, quando la mente esce dai pregiudizi e dallo stress, la consapevolezza lo sente. Quando la consapevolezza è sperimentata come un equilibrio interiore ed arriva ad ottenere chiarezza, questa è la sincerità nel senso di “essere ricolmi di verità”, inerente al campo delle percezioni. Questo stato è molto raro, il Buddha generalmente si riferiva a se stesso nei termini di questa consapevolezza ricolma di verità usando l’appellativo di Tathāgata, che significa “Colui che è andato in ciò che è così com’è”. Questo termine racchiude sia la comprensione che il comportamento.

Coltivare la sincerità

Se consideriamo la coltivazione delle pāramī come fosse una sequenza, otteniamo il senso di ciò che è necessario per sperimentare la sincerità in termini sia di comportamento che di percezione.

Le prime due perfezioni, la generosità e la moralità, risvegliano il cuore e creano un senso di empatia con gli altri esseri. Siamo disposti a condividere, siamo interessati al bene altrui e non vogliamo danneggiare o ferire nessuno. Attraverso queste pāramī entriamo in contatto con la nostra mente/cuore affettiva, con ciò che la ferisce e con quello che la mette a suo agio e la rende salda. Il chiarire e il rinsaldare le nostre intenzioni mediante la generosità e la moralità è un punto di partenza essenziale e un sostegno continuo per la sincerità.

La rinuncia porta avanti il processo permettendo di acquisire la consapevolezza della mente che è in grado di distinguere gli impulsi dalle sensazioni che essa sperimenta riguardo agli oggetti dei sensi. Questa è la capacità di fare un passo indietro, al fine di acquisire una visuale prospettica sul modo in cui la mente viene influenzata, e una maggiore chiarezza su quali sono gli oggetti visivi, uditivi ecc. di cui vogliamo occuparci e con quale intenzione. Questo non significa non possedere oggetti o limitarsi a respingerli, bensì sapere che l’importante è essere guidati dalla chiara comprensione. Qui interviene la rinuncia (il lasciare andare) riempirà la mente con chiarezza, fermezza e comprensione. Mano a mano che sviluppiamo questa abilità, essa cresce fino a includere un distacco ancora più vitale verso le convinzioni e le inclinazioni psicologiche, come per esempio i nostri punti di vista o i nostri atteggiamenti. Cercare di rafforzare o seppellire la nostra personalità crea pressione e stress snaturando la verità. Ma, con l’equilibrio della sincerità, siamo consapevoli delle sensazioni, dei pensieri e degli atteggiamenti. Non ne siamo dominati, ma non li stiamo nemmeno rifiutando. Li cogliamo in una visione prospettica e agiamo in maniera meno compulsiva.

Poi c’è la saggezza, la capacità di discernere. Questa pāramī discrimina il salutare dal non salutare e imposta la consapevolezza come un monitor. Con la consapevolezza notiamo le spinte e le pulsioni che distraggono la mente da ciò che dovrebbe tenere presente, e con la saggezza, riconosciamo qualsiasi stress (o stato insoddisfacente) nei nostri stati d’animo e nel comportamento mentale. Trascorriamo cinque minuti al giorno, tutti i giorni, seduti quieti a sentire le emozioni e le energie. Non è una perdita di tempo; persino una riunione di lavoro si svolgerà più agevolmente se ci si siede quieti cinque minuti all’inizio. Il discernimento basato sulla consapevolezza stabilisce quindi un punto di riferimento dal quale possiamo essere presenti alle nostre azioni mentali – i nostri impulsi di premura così come le nostre reazioni e difese ansiose. Sappiamo cosa le causa e quali sono i loro risultati.

Questa comprensione ci aiuta a capire come funziona la nostra mente e dove ha bisogno di essere guidata con l’energia equilibrata che sostiene e potenzia la saggezza. Invece di essere esitanti o avventati, invece di tirarci indietro confusi o fare ciecamente balzi in avanti, cominciamo a vedere secondo un maggiore accordo con la verità: “Questo è vero, questo è giusto, questo deve essere fatto. Questo è falso, infondato e da accantonare”. Così ci impegniamo maggiormente in ciò che è salutare. Mano a mano che la mente si libera dai contenuti e dai comportamenti che consumano la sua energia, riconosciamo che la consapevolezza si contrae quando è stressata, gira a vuoto e si disperde quando è confusa, e si calma e si stabilizza quando riceve apporti salutari. L’energia della consapevolezza quindi non è qualcosa di “fisico” è mentale, è l’essere raccolti, integri ed equilibrati. Pertanto, coltivando la verità, assaporiamo la piacevole verità della consapevolezza quando è a riposo.

La pāramī successiva è la pazienza, la capacità di sopportare qualcosa. È di estrema importanza quando dobbiamo tollerare contrasti spiacevoli, insuccessi, abusi, biasimo e malattie. Questa sopportazione, sostenuta dalle precedenti perfezioni, ci dà la forza di mantenere e sostenere la nostra presenza consapevole, piuttosto che essere trasportati via dal biasimo, dal dubbio, dal dolore, dalla preoccupazione, dalla paura, dalle passioni, dalle convinzioni e dalle credenze.

Quando riusciamo a trovare un punto stabile e durevole nella consapevolezza, possiamo essere presenti al mutare degli stati d’animo, emozioni e impulsi. Questa è la verità di tutte le condizioni. Se siamo in contatto con questa verità, sperimentiamo il dubbio o l’irritazione come superficiali. Possono accadere, ma non devono essere adottati, respinti, biasimati, né devono suscitare reazioni. Essi non sono l’io, né il mio, né il sé. Sorgono e passano nella consapevolezza, e sono ciò che sono. Di conseguenza, le nostre azioni possono essere fondate sulla consapevolezza del pensiero, dello stato d’animo o dell’impulso: noi non siamo in loro dominio. Possiamo agire sopra di essi o lasciarli passare, con una chiara comprensione delle conseguenze. Perciò, grazie all’essere ricolmi della verità della consapevolezza, agiamo nei termini di un comportamento sincero. Questa sincerità completa è ciò che si intende con termini come “realizzazione”, “vedere le cose come sono” e “Risveglio”. L’Illuminazione riguarda l’essere autentici.

La chiara comprensione è un’onestà profonda

La sincerità come comportamento e la sincerità come comprensione e realizzazione sono correlate. Così pure lo sono la disonestà e la confusione. Ci ritroviamo a essere disonesti perché è più conveniente, o vogliamo un risultato che ci favorirà. Dunque, di nuovo, non siamo sempre consapevoli di come le nostre parole e azioni toccano gli altri. Questa è ignoranza: non essere direttamente in contatto con la verità. Possiamo usare strategie ben collaudate per difenderci dai mostri che presumiamo siano sulle nostre tracce. Sempre meglio che affrontarli! Ma che succede se i mostri non ci sono? Il vero mostro è quello che ci fa dire una bugia oppure offre una verità parziale, perché noi temiamo il contraccolpo emotivo che potrebbe verificarsi quando diciamo come stanno le cose. Finché non usiamo la verità, permettiamo all’ignoranza di renderci insicuri e paurosi.

Quante volte abbiamo detto: “Sai, questo è assai interessante, ma ora ho molto da fare”, piuttosto che pronunciare parole più sincere: “Non mi interessa affatto”. Perché lo facciamo? La nostra giustificazione in questo caso è quella di non volere ferire i sentimenti dell’altro. Tuttavia noi sappiamo già che cosa può ferire i sentimenti altrui, perciò la nostra giustificazione non regge. Il vero motivo per cui non siamo sinceri è di avere timore che se feriamo i sentimenti altrui costoro potrebbero infuriarsi e noi in un modo o in un altro andremo a stare male (sperimenteremo una sofferenza).

La tendenza a non essere completamente sinceri è connesso con l’evitare il dolore perché ci vergogniamo di rivelare come si comporta la nostra mente. Quante volte diciamo: “ne ho bisogno” invece che “lo desidero”. Oppure, quando le cose non vanno a modo nostro, diciamo: “Non è giusto”’. Esprimiamo il desiderio o il dolore con una forma impersonale, riferendoci a un soggetto sottinteso e anche incolpandolo. Potrebbe essere più onesto dire: “Lo desidero”, che sia un azione corretta oppure no”. Ma non lo diciamo perché ci mette in cattiva luce.

In altre occasioni, “nascondiamo” la nostra vera sensazione proiettandola su qualcun altro: “L’hai fatto tu, è colpa tua”, piuttosto che limitarsi a dire: “Sono arrabbiato”. Quando diciamo: “Tu mi fai questo” può esserci una parte di verità, ma non è la verità fondata sulla nostra esperienza diretta (che fatica a emergere o che nascondiamo non consapevolmente). Sarebbe onesto dire: “Mi sento così, e per questo motivo inveisco”. È più vicino a una presa di coscienza di quanto sta succedendo, sebbene non sia ancora completamente vero.

Nell’adempimento della verità, c’è la comprensione che l’agente degli eventi, della virtù e del vizio, è l’intenzione (o impulso), non il sé. Le intenzioni sorgono da presupposti e percezioni su ciò che è gradevole o sgradevole. Possiamo tuttavia esaminare le nostre percezioni, presupposti e impulsi e indagare la sensazione di attrazione, di repulsione, di difesa e così via. Essi non sono stati fondamentali e sopratutto non sono un sé; sono come sono. Dal punto di vista morale non c’è niente o nessuno dietro di loro da difendere, da approvare, da sostenere o da far cadere.

Per fare un esempio: come molti monaci casti, ho dovuto incontrare il desiderio sessuale e lottare con esso. Una parte di me ha riconosciuto che l’energia sessuale attira l’attenzione verso l’esterno in modi che consumano molta energia e non creano tanti benefici a lungo termine. Ho quindi accettato di non farmi guidare da quell’energia. Tutto abbastanza giusto: ma una parte del mio complesso non ha sottoscritto questo accordo ed è collegata al programma biologico della sessualità. C’è perciò una lotta, in particolare quando le donne indossano abiti eleganti, ideati per accentuare l’avvenenza delle forme femminili. Così, in presenza di donne, si nota un’increspatura nella consapevolezza, talvolta corrispondente a una prima onda. E dietro quell’onda giunge un’altra onda di confusione o di colpa, perché il copione nella testa dice che “non si deve sperimentare il desiderio sessuale”. La prima onda si trasforma in una turbolenza emotiva che persiste per ore. Ma, d’altra parte, neppure aggiungere il senso di colpa e l’avversione (la seconda onda) è una risposta serena. Riconoscere il desiderio (sessuale) e fermarsi a quello che è la sua verità, senza dargli importanza, senza costrutti mentali che arrivano come onde è il comportamento mentale corretto da tenere.

Anche per gli uomini laici vedere una bella donna causa increspature nella consapevolezza, ma anziché scattare il senso di colpa come nel mio caso, potrebbe nascere il desiderio di avere una relazione sessuale. Questo è normale, la nostra coscienza sta solo facendo esattamente quello per cui è programmata: rispondere ai segnali sessuali. Ma quell’increspatura della percezione non deve implicare necessariamente qualche comportamento o inclinazione, o collegarsi con essi. Occorre solo essere accurati su ciò che sta succedendo e riconoscerlo in quanto programma. La sincerità di vedere esattamente un’increspatura, (il sapere dov’è e che cosa è) come un sorgere condizionato le consente di ricadere nella consapevolezza senza lasciare traccia. Quando possiamo farlo, non ci lasciamo trasportare dall’onda, e ciò che rimane è una attenzione luminosa che, nelle relazioni con altri esseri, tende a entrare in risonanza con il calore e la felicità.

Il vero problema pertanto non è il coinvolgimento, ma le tendenze proliferanti e i presupposti della lussuria (o paura, irritazione, senso di colpa ecc.) che saltano sopra quel coinvolgimento. Ci sono cioè tendenze latenti nel modo in cui la mente programmata forma la nostra esperienza. Queste tendenze evocano una sensazione vaga di piacere, apprensione o irritazione. Con quella sensazione indistinta, la mente crede che il piacere durevole, la soddisfazione, l’annientamento o la dannazione siano solo a un passo. Questo è il presupposto chiamato ignoranza.

Molti dei nostri presupposti e impulsi sono biologicamente o socialmente condizionati: noi non scegliamo di averli. Eppure quella voce nel cervello o quell’impulso nel cuore è così familiare e abituale che può sembrare il “vero me”. Ma cos’è ciò che ne è cosciente? Chi è il “vero me”, il pensiero o la consapevolezza? Forse nessuno dei due. Non ci capita di ricordarci una canzone perché ci viene in mente all’improvviso quando siamo in un certo stato d’animo? E di avere un pensiero che nasce dall’intenzione di elaborare qualcosa? E di dimenticare a volte le cose che conosciamo? Nessun pensiero o stato mentale è sempre presente in noi; come può quindi ciascuno di essi costituire un aspetto o un possesso permanente? E se nessuno di essi può essere da noi posseduto o stare sotto il nostro controllo, che tipo di possessore o soggetto del controllo vive nella nostra mente? In realtà non c’è alcun sé che abbia la responsabilità di tutto questo; né sembriamo in grado di essere separati da questo spettacolo cangiante. Tutto ciò sorge per cause e condizioni.

L’eredità del kamma

Che cosa manda avanti tutto questo? C’è qualcosa al di là di questo spettacolo fugace? Se si, come potrebbe essere? Questi sono i tipi di domande che stimolano le persone a una ricerca della verità spirituale. E al cuore di una tale ricerca c’è la necessità di riconoscere e accantonare i falsi presupposti, che sono generati dai flutti della sensualità, del divenire, dei punti di vista e dell’ignoranza. Ciò significa prestare attenzione in modo appropriato, informato e approfondito. È l’intenzione fondata sulla sincerità – non per avere particolari esperienze o per diventare qualcosa, ma per uscire dai falsi presupposti.

Un presupposto di base è che le cose hanno una natura fissa o prevedibile. I nostri riflessi emozionali vengono confusi da cambiamenti del tempo atmosferico o della nostra salute, dai ritardi dei mezzi di trasporto e dai mutamenti delle altre persone. Il presupposto della nostra reazione automatica è che gli oggetti dei sensi forniscano una sensazione vera e durevole, cioè che l’impressione piacevole o spiacevole di un sapore, di un suono o di un oggetto visivo sia vera (indipendente da cause e condizioni, solida, dotata di un sé intrinseco). E questo provoca il “devo averlo” o il “non lo sopporto”. Ma, allorché noi contempliamo l’esperienza da una prospettiva più ampia e a lungo termine, notiamo che la sensazione dipende tanto dal nostro stato d’animo quanto dall’oggetto dei sensi. Quando abbiamo fame, qualsiasi cibo ha un buon sapore, ma, se ci saziamo, quella sensazione svanisce e l’interesse si sposta su qualcos’altro. In altre parole, l’intenzione, la tendenza o l’inclinazione della mente ha cambiato il modo in cui sperimentiamo il cibo. E, in altre occasioni, possiamo a malapena notarne il sapore, perché stiamo parlando con un amico. In quel caso il cambiamento è avvenuto attraverso uno spostamento dell’attenzione. Oppure possiamo pensare che il sapore sgradevole del cibo abbia rovinato tutta la serata. In questo esempio, la questione fondamentale è il contatto; vale a dire, l’impressione “sgradevole” ha ricoperto la mente in modo da trasferirvi la spiacevolezza, così tutto ciò che sperimentiamo durante la serata è percepito attraverso il filtro di questa impressione relativa al contatto.

Questo trasferimento è molto comune. Per esempio, la persona A è di cattivo umore perché è bloccata in un ingorgo del traffico ed è in ritardo a un appuntamento. Sentendosi irritata, lei o lui trova irritante il contatto umano. Così parla in modo sprezzante alla persona B, che sente di non piacere ad A, o che ha fatto qualcosa di sbagliato; pertanto la persona B si sente confusa. Ecco come viene trasferita la sofferenza. Oppure abbiamo la sensazione che qualcun altro sia molto divertente perché tutto va bene – il tempo atmosferico, il cibo, la musica – è una serata magica. Così forse pensiamo che domani faremo la stessa cosa. Tuttavia, non succede proprio così, perché le circostanze sono cambiate. C’è un umore diverso o una differente energia da entrambe le parti. A dire il vero, gli stessi fattori non tornano mai a incontrarsi. Perciò ci sentiamo delusi. Forse pensiamo che qualcuno sia venuto meno alle nostre aspettative, o che in noi ci sia qualcosa che non va. La verità è che le impressioni dei contatti sensoriali dipendono da fattori variabili e non sono quindi affidabili. Chiediamo troppo al mondo dei sensi, pretendiamo che siano sempre veri e costanti in tutte le occasioni. Non sarebbe più saggio e più onesto porsi in relazione con i dati sensoriali così come essi sono nella realtà?

Lo stesso avviene con l’impressione dell’identità. Vogliamo che lui o lei sia sempre in un certo modo, o dovrebbe esserlo, solidifichiamo una mente sensibile, mutevole e affettiva in un oggetto stereotipato chiamato “persona”. “Lui è un idiota. Lei è sempre amorevole. Lui è egocentrico. Lei dovrebbe prendersi cura di me”. Attraverso questi punti di vista noi proiettiamo l’irritazione, l’adorazione o il bisogno e trasformiamo gli altri negli eroi e nei personaggi negativi della nostra vita. Ora, queste proiezioni possono contenere una parte di verità, ma sarebbe più vero, se in maniera più specifica pensassimo che: “Lui è un idiota” potrebbe significare qualcosa come “Ho notato che il suo modo di presiedere l’incontro di ieri non ha portato i risultati che desideravo”. La falsità consiste nel fatto che un frammento di comportamento è stato trasformato in una persona tridimensionale e scolpito nella pietra. Ecco che cosa fa il “divenire”: estende un evento in un’entità. Se crediamo in questa creazione, influenzerà il modo in cui abbiamo una relazione con quelle persone contribuendo alla creazione di queste caricature, demoni e angeli. E agire così limita la nostra sensibilità e libertà.

Questa attività mentale è il kamma: in base quello che la nostra mente presuppone e proietta e a come essa reagisce, noi creiamo un database di esperienze e comportamenti correlati, una sorta di eredità. Questa crea uno “spazio” limitato in cui rischiamo di rimanere bloccati dalle stesse opinioni e modalità di azione, andando incontro alla confusione che crea delusione e sofferenza. Kamma significa “azione”; si basa sull’intenzione, sull’attenzione e sul contatto. Ogni azione ha dei risultati, ed questa dinamica di azione e reazione che domina le nostre vite. Il primo passo verso il dimorare nella verità è essere chiari circa il kamma positivo e negativo: riconoscere il male e astenersene, e scegliere il bene. Così è meglio comprendere lo stato emozionale del momento presente, sapere che proviamo irritazione, ammirazione o gelosia ed esaminarle, piuttosto che continuare a forgiare automaticamente le nostre risposte usando l’eredità del Kamma.

Quando guardiamo le cose sotto l’aspetto della verità, possiamo riconoscere le impressioni del contatto nei termini di sensazioni piacevoli e spiacevoli e possiamo essere presenti alle intenzioni e agli stati mentali salutari, non salutari. Il contatto, l’intenzione, l’attenzione e tutto questo materiale kammico sono mutevoli. Non ci sono cose, entità o persone permanenti. Grazie alla paramì della verità cominciamo a prendere misure per generare impressioni chiare, fondate sulla gentilezza, sulla compassione e sulla comprensione saggia. E mentre sviluppiamo anche la nostra attenzione diviene chiara e ben focalizzata.

La relazione: un campo vitale di apprendimento

L’ignoranza è qualcosa su cui non abbiamo chiarezza: non possiamo vedere i nostri punti ciechi. Dobbiamo quindi esplorare le nostre reazioni e i nostri presupposti mentre si sviluppano come comportamenti. Qui gli altri possono essere di grande aiuto. Quando riconosciamo la natura dipendente del tu, dell’io, degli essi e dell’esso, la sfera della relazione diventa un campo vitale di apprendimento.

Di nuovo, l’intenzione è importante: aspirare al vero, e farlo con gentilezza e rispetto. Di solito, il nostro comportamento è orientato all’ottenimento di risultati positivi. Ma se il comportamento dell’altro non fa sorgere queste impressioni positive ci diamo da fare ancora di più, o ci difendiamo, oppure ne traiamo un senso di inadeguatezza e ci allontaniamo mentre ci sentiamo ancora ansiosi e incerti. La relazione si impregna con il bisogno di divenire, e la sua sofferenza. Attraverso il processo del trasferimento, diamo la colpa di questa sofferenza all’altra persona, dalla quale nel contempo cerchiamo di ottenere lodi o attenzione. Sperimentare ansia e risentimento mentre si cerca di ottenere approvazione è un processo che confonde! La confusione è intensificata dalla mancanza di un’attenzione profonda: non ammettiamo ciò che sta accadendo, e probabilmente non verifichiamo se il nostro presupposto iniziale è corretto. Non siamo entrati nella verità, e così non abbiamo lasciato andare la fonte della nostra sofferenza.

Riconosciamo pure che per comunicare ci è necessario stabilire alcune pāramī e mantenerle in funzione. Abbiamo sviluppato una mente paziente e benevolente? Rinunciamo a desiderare che le cose siano in accordo con le nostre preferenze personali? Stiamo parlando di fatti che possono essere verificati o di presupposti? Abbiamo bisogno di stabilire uno spazio sicuro per la comunicazione e possiamo anche provare ad essere specifici. Per esempio, invece di dire: “Perché tu sei così prepotente?”, possiamo dire: “Ci sono rimasto veramente male”. Possiamo dire: “Questo, per me, è quanto succede”. Cerchiamo di non dir cose del tipo: “L’hai fatto perché sei sempre così”. Non mettiamo un “sempre”, un “tu” o “io” fisso. Pariamo solo di un particolare episodio e di un comportamento isolato.

La sincerità è rifugio a se stessa

Uno dei benefici di sintonizzarsi con le verità correlate del non-sé e del kamma è che siamo meno attaccati al nostro comportamento e alla nostra immagine. Queste verità sottolineano inoltre che ogni azione ha un effetto, e che le azioni influenzano sia l’altrui mente che la nostra. Così noi vogliamo realmente sapere quando le nostre azioni causano problemi, perché questo ci aiuta a capire e a lavorare con le abitudini karmiche che tutti abbiamo. L’interesse per la verità ci rende imperturbabili: non diamo importanza all’essere perfetti. La verità ci fornisce anche un punto di riferimento stabile, come l’ammissione che possiamo commettere errori. Cominciamo a vedere l’inter-dipendenza dei fenomeni, il principio di causa e l’effetto, e come le cose vengono prese e sentite. Ci riesce un po’ meglio capire la condizione umana e la compassione cresce. Siamo anche molto più attenti e interessati al tipo di cause che sottoscriviamo. Riconosciamo che qualsiasi cosa facciamo ha un effetto e che una nostra azione individuale influenza gli altri. Non possiamo evitarlo. Non possiamo dire: “Non voglio che abbia un effetto su di te”, perché ce l’ha.

Il terreno della verità

Nella vita quotidiana siamo avvantaggiati dall’avere qualche punto fermo. Lo sviluppo della verità ci rende stabili in tre modi. Il primo modo è che lo sviluppo di questa perfezione va ad influire sulla moralità, permettendo di potere affermare: “Io non ho ucciso, non ho rubato, ecc.”. Così, con la certezza che la nostra sofferenza non derivi da nulla di ciò che sappiamo di non avere commesso ci possiamo creare uno “spazio” dove stare, ad esempio: “Posso essere stato sciocco, forse non ho avuto molta consapevolezza, ma non sono stato cattivo”. Oppure, se si è agito male: “La passione mi ha sopraffatto e io mi sono comportato in modo non salutare. Ora ne prendo atto e desidero fare ammenda”. Capita a tutti di perdere la testa, non è vero? Possiamo ammetterlo e confidare che gli altri lo accetteranno. Perciò, quando si ha questo luogo di verità, si sta meno sulla difensiva e ci sono meno conflitti. Il potere della verità è che ci dà un luogo solido e stabile dove sia possibile riconoscere un errore e di esaminare la sofferenza, la confusione o il dolore.

Il secondo modo in cui lo sviluppo della sincerità rende stabilità riguarda la qualità della consapevolezza. Ciò ha a che fare con il liberare la mente dall’avidità, dalla rabbia e da altri impedimenti per mezzo della meditazione (= consapevolezza e concentrazione). La consapevolezza ci dà la possibilità di comprendere quale emozione è presente nella mente e analizzarla (misurarla). Per esempio: “Nella mia mente c’è avidità; essa è sorta alla vista di questo”. Il riconoscimento sincero del sentimento fa emergere ciò che l’ha originato. Nell’esempio è l’avidità; misureremo quanto dura il piacere dell’oggetto desiderato, e quanto è disagevole l’esperienza dell’avidità. Dopo questo esame sincero, possiamo spostare l’attenzione, ritornare al respiro cercando di sviluppare l’intenzione di lasciare andare. Questo processo libera la mente dagli impedimenti, come l’agitazione, la confusione, il dubbio o l’avidità. Allora la consapevolezza della mente si sposta verso la stabilità della concentrazione meditativa.

In terzo luogo, la sincerità fornisce la stabilità per lo sviluppo della saggezza trascendente. Quando la mente sa di essere consapevole, si allontana dai flutti e può osservarli, con le loro cause ed effetti, nei termini delle Quattro Nobili Verità. Cominciamo a vedere le cose in modo sincero, piuttosto che pensare: “Loro sono sempre così. Io dovrei essere così”. Questa è proliferazione – il meccanismo che trasforma l’onda di un’impressione piacevole o spiacevole in una cosa solida. E questa è l’origine della sofferenza della negatività, del desiderio, della perdita, della cupidigia e dello squilibrio. Ma quando la mente è chiara e abbastanza stabile da poter contemplare tutto ciò – con sincerità – come un processo, può anche lasciare andare. C’è la realizzazione che “Questo è la sofferenza; questa è la sua origine; questo è come cessa; e questo è il modo per produrre tale cessazione”. E questa è la saggezza.

Il segno distintivo della verità è che ci si sente chiari, aperti e radicati nella realtà. Non ci sono recriminazioni, sospiri di rassegnazione o trionfi; la mente riposa nella consapevolezza. Solo la sincerità restituisce la mente alla casa della consapevolezza da cui sorge. Allora ci sentiamo chiari ed equilibrati. I presupposti, le strategie, le difese ragionevoli, le argomentazioni e le accuse di responsabilità possono farci sentire retti, giustificati o superiori, ma non ci porteranno alla pace del Nibbāna. Questo è il motivo per cui seguiamo il movimento verso la verità. Spostandoci dall’ignoranza alla sincerità, possiamo aprirci a una consapevolezza stabile e trascendente.

Suggerimenti sulla sincerità

Parlare con sincerità ha sulla mente un effetto purificante e corroborante. È anche un sostegno per l’empatia, perché rispettiamo la nostra chiarezza e quella degli altri. Senza il contributo altrui, in quale altro modo possiamo comprendere profondamente la nostra illusione e le nostre abitudini subdole? Sebbene possiamo provare ansietà per l’esprimere cose che riteniamo possano portare disagio agli altri, i benefici del parlare in modo diretto sono rilevanti per tutti gli interessati. Certo, bisogna conoscere il tempo e il luogo adatti, e sviluppare le capacità della retta parola. Questa è una qualità della parola finalizzata al benessere a lungo termine di noi stessi, degli altri e delle nostre relazioni.

Riflessione

Considerate le vostre azioni e atteggiamenti quotidiani. C’è qualcosa che non potreste rivelare a un amico o a qualcuno che rispettate?

Quando vi trovate a cercare di comprendere un emozione, un comportamento e un pensiero, sia che riguardi voi stessi o gli altri, fatelo senza usare direttamente le forme verbali “esse sono”, o “io sono”, o “egli è”. Ad esempio, invece di “Io sono depresso”, provate “In questo momento sperimento depressione”. Invece di “Sei meraviglioso o pigro” ecc., provate “Ti vedo, ti considero meraviglioso o pigro”. Questo aprirà le possibilità del cambiamento e del non attaccamento.

Riconoscete come è la vostra mente quando dite o pensate “sempre”, “mai”, “tutti”, “nessuno”. Esaminate che effetto fa, che cosa predispone come base per l’azione o la passività, e per il modo in cui vedete voi stessi e gli altri. Riconoscete qualsiasi stereotipo come “Le donne sono…”, “Non si sa mai con i gay…”, “Tipico messicano!” ecc. ecc. Esaminate la sincerità dei presupposti, delle esperienze o di singoli aspetti dei dati su cui la mente fonda questi stereotipi.

Quando dovete dire qualcosa a qualcuno prendete pienamente coscienza che questo è un pensiero sorto nella vostra mente, non necessariamente una verità assoluta. Se avete un ricordo, riconoscetelo come ciò che è, piuttosto che come una testimonianza infallibile.

Azione

Esercitatevi a trovare il momento e il luogo adatto per dire cose che le persone potrebbero trovare sgradevoli. Poi accennate a ciò che sapete: “Mi sembra che…”, “Ho notato che…”, e aggiungete pure qualche dettaglio personale significativo: “Mi sono davvero infastidito quando ho sentito…”. Evitate di definire le intenzioni altrui. (Come fate a saperlo?). Se quello che avete da dire può essere scomodo, allora esprimetelo insieme alle vostre preoccupazioni – per esempio: “Non mi è facile dirlo, ma, dato che rispetto la tua onestà, ho pensato che vorresti saperlo…”.

Restate in contatto con ciò che accade nel vostro corpo mentre parlate. Notate l’effetto della confusione o dell’eccitazione, dell’ansia o della rabbia, e come in quello stato caotico sia facile perdere il contatto con la verità.

Notate quando in una conversazione, nel pensiero o nel ricordo di qualcosa, diventate irrequieti, vi stringete nelle spalle, guardate da una altra parte o eseguite un movimento diversivo. Provate invece ad ammorbidire quel riflesso, entrare nel vostro corpo e rilassarvi. Questo vi aiuterà a permettere che una verità scomoda (uno stato emozionale) che ci ha raggiunto così come è arrivato così se ne va. Non riguarda direttamente cosa state pensando o dicendo, solo come vi sentite. Se ne rimanete consapevoli, e rinsaldate la mente nella consapevolezza della sensazione, sarete capaci di arrivare a dire o pensare la vostra verità.

Meditazione

Fondate la vostra meditazione su una postura corporea equilibrata e salda, sia che siate seduti, che camminiate, che siate in piedi fermi o che siate sdraiati. Quando coltivate la consapevolezza del respiro, siate consapevoli di “tutto il corpo”, cioè il corpo così come lo sentite – il vostro sistema nervoso. Questo vi mette in sintonia con le ondate e i flussi di energia che accompagnano le sensazioni – fisiche o mentali. Se vi sedete con le mani leggermente unite a coppa, in modo che le punte dei pollici si tocchino, o con i palmi rivolti verso il basso, uno su ogni coscia, potete rimanere sensibilmente in contatto con questo “corpo senziente” affettivo. Questo vi darà la possibilità di cogliere il saldo e quieto equilibrio di una consapevolezza equanime; allora diverranno più evidenti le occasioni in cui la vostra mente è sotto pressione, irrequieta o sognante. Questo stato di consapevolezza è una base ottimale per l’attenzione saggia, per indagare la verità e per dare risposte chiare alla vita.