TNH-Live-Happily-in-the-Present-Moment

May 13, 2004 – Dharma Talk given by Thich Nhat Hanh.- New Hamlet, Plum Village

Time Stamped Transcript in lingua inglese e tratto dalla serie di podcast su google podcast del Ven. Tich Nhat Hanh

link al file PDF. Evidenziate le parti secondo me più rilevanti

Un fiammifero: Essere, non Essere e Interdipendenza

È evidente che la permanenza è una visione sbagliata, perché secondo la nostra osservazione tutto è impermanente, perennemente cangiante; nulla può rimanere immutabile in eterno. Quindi l’immortalità è una visione erronea. E anche l’annientamento – sostenere che quando moriamo non rimane nulla – è una visione erronea. Permanenza e annientamento sono una coppia di opposti. Tutte le coppie di opposti sono visioni errate: essere e non-essere, nascita e morte e così via.
Prendiamo una scatola di fiammiferi: sappiamo che, per aiutare la fiamma a manifestarsi, bisogna sfregare il fiammifero contro un oggetto. Sappiamo che la fiamma è in parte nascosta dentro la scatola di fiammiferi e in parte fuori. Fuori dalla scatola di fiammiferi c’è l’ossigeno, una condizione essenziale per la manifestazione della fiamma. Prima che la fiamma si manifesti dovremmo definirla non esistente? Con la nostra pratica di visione profonda vediamo che tutto si manifesta in base a varie condizioni. Quando le condizioni sono sufficienti, la fiamma si manifesta. A quel punto siamo inclini ad affermare che esiste e si trova nel regno dell’essere. E siamo inclini ad affermare che, prima di manifestarsi, apparteneva al regno del non-essere. Ma la realtà trascende entrambe le nozioni, essere e non-essere.

Hanh, Thich Nhat. Le quattro verità dell’esistenza (Italian Edition) (pp.69-70). Garzanti. Edizione del Kindle.

Commento personale

La retta visione o saggezza, in questo esempio, è comprendere che:
1) quando non è manifesta a livello di apparenza non esiste, ma a livello di sostanza esiste perché se fossimo in presenza delle condizioni (ossigeno e sfregamento) per la sua esistenza la vedremmo scaturire.
2) quando si manifesta a livello di apparenza esiste ma potrebbe anche non esistere se le condizioni per il suo spegnersi si verificherebbero (assenza di ossigeno o esaurimento combustibile).
A livello fenomenologico sembra che per la fiamma sia possibile o l’essere (accesa) o il non essere (spento), ma a livello ontologico (significa ciò che concerne gli aspetti essenziali dell’essere), non si può applicare alla realtà; quando il fiammifero è nella scatola la fiamma c’è ma è ancora spenta.
La parola chiave qui è “condizioni”, caratteristiche presenti intorno all’oggetto, che pur non essendo proprietà intrinseche della fiamma ne determinano il suo essere o non essere. Queste condizioni oggettive esterne interagiscono con il soggetto fiamma, e sono la dimostrazione del fenomeno dell’interdipendenza, che sta alla base del concetto dell’inter-essere: noi esseri umani siamo o non siamo in relazione agli altri esseri o meglio noi inter-siamo.
Riprendendo infine il concetto degli opposti e il principio dualistico possiamo dire che giusto-sbagliato, nascita-morte, buono e cattivo, ecc. sono visioni erronee:

Tutto si evolve in base al principio dell’interdipendenza. Ma esistono il libero arbitrio e la possibilità di trasformare. Esiste la probabilità. L’uno influisce sul tutto. E il tutto influisce sull’uno. Interessere significa anche impermanenza, non-sé, vuoto, karma e innumerevoli mondi. La retta visione consente la retta azione, portando alla riduzione della sofferenza e all’aumento della felicità. Felicità e sofferenza inter-sono. La realtà assoluta trascende gli opposti.

Hanh, Thich Nhat. Le quattro verità dell’esistenza (Italian Edition) (p.66). Garzanti. Edizione del Kindle.

La Felicità Relativa

Ciao a tutti, è da un pò di tempo che non pubblico qualcosa quindi eccoci qui con il primo Post del 2022. Sto leggendo un libro di Tich Nhath Han: Le quattro verità dell’esistenza (Italian Edition), Garzanti, Edizione del Kindle e volevo riproporvi un concetto che mi ha incuriosito e che poi ho trovato interessante in merito alla ‘Felicità Relativa’. Mi sono detto: “Ma relativa a cosa?”. Partirei subito con un esempio, un fatto che mi è successo qualche mattina fa e che ho ritrovato nel testo. Ve lo ripropongo ri-elaborato con riferimento a quanto da me vissuto.

Siamo in pieno inverno, ci siamo appena alzati dal letto e fuori fa un freddo cane. Apriamo il rubinetto dell’acqua calda ma chiaramente all’inizio è gelida: subito un brivido e la ritrazione istintiva delle mani dal flusso d’acqua in uscita. Poi desideriamo che l’acqua calda arrivi subitissimo immediatamente ma ci tocca aspettare e mentre aspettiamo subito ci viene in mente quella volta qualche anno fa alle terme immersi in un bagno di acqua termale a 37°C. Quello che accade è: sensazione spiacevole e fuga nel passato. Consapevolezza uguale a zero.

Ora cambiamo approccio, sempre nella medesima situazione proviamo invece a pensare alla meraviglia del genio umano che ha permesso la magia dell’apertura del rubinetto per portare l’acqua a casa comodamente, da dove viene quell’acqua, magari viene da una falda sotterranea a 2 km di distanza o da un ruscello di montagna, pensiamo a quanto tempo fa si è formata, magari scioltasi da un ghiacciaio millenario e ora giunta fino a noi solo per permetterci di lavarci. E quando ce la buttiamo subito in faccia (senza aspettare l’acqua calda) sentite come è rinfrescante! Ci risveglia (come l’ insegnamento di un Buddha, una parabola del vangelo o il canto di muezzin) e riporta al mondo reale nel qui ed ora. Cerchiamo di rimanere sempre nel momento presente, pacificamente a contatto con le meraviglie del mondo disponibili come questa acqua gelida, sarebbe un peccato lasciarla scorrere nello scarico mentre la guardiamo con disprezzo scivolare via.


Ecco il concetto di felicità relativa: relativa a che cosa? al grado di consapevolezza che riusciamo a portare nel momento presente. Se sviluppi una maggiore consapevolezza, la tua felicità aumenta. Visto che sei consapevole degli elementi positivi nella tua vita, sei più felice. Se invece non sei consapevole, se ti lasci trascinare dalle preoccupazioni, dall’irritazione o dalla paura, in quel momento non sarai felice.


Alcuni dicono: «Oh, conosco il momento presente, è molto noioso». Sono abituati a essere prigionieri del passato e a vivere nel mondo della memoria. Questo perché non sono abituati a vivere nel momento presente. Sono soliti vivere nel passato e lo considerano la loro casa. Sono abituati al passato, quindi vi si sentono a casa. Oppure sognano il futuro, anticipando cose che potrebbero succedere. Quando affermano che il momento presente è noioso, ciò significa che non vi sono mai stati davvero, ma Il tuo corpo è qui nel momento presente, la tua vita è qui nel momento presente, e il mondo è qui nel momento presente. Ecco perché è così importante che torniamo al momento presente, allo scopo di vivere davvero la nostra vita.

L’albero e il lenzuolo

Domanda: “Come definiresti un albero?”.

Risposta: “Guarda, l’albero è questo: ci sono delle foglie attaccate a dei rami che originano dal tronco e dal quale spuntano delle radici sottoterra. Le prime catturano la luce del sole dandogli energia, i rami e il tronco gli fanno da sostegno e le radici estraggono l’acqua dal terreno per dargli nutrimento. Tutto questo per catturare anidride carbonica di giorno producendo più ossigeno di quanto ne consumi di notte”.

Commento: La risposta è ben articolata, dentro di se ha tutto ciò che serve per descriverlo ma anche per arrivare a concludere che senza il sole e l’acqua l’albero morirebbe, anzi non esisterebbe nemmeno… E nemmeno noi perché non potremmo respirare!

Quindi perché dobbiamo limitarci a definire l’albero come un oggetto che è solo fusto, foglie e radici quando in realtà è anche sole, acqua, anidride carbonica e ossigeno? Non è solo un insieme di oggetti gli uni separati dagli altri, ma è un flusso continuo dell’interazione tra gli stessi oggetti che lo compongono. La parola “albero” è solo un etichetta che noi attribuiamo a tutto l’insieme e la cui utilità si ferma solo a un livello “convenzionale”, è solo un nome, come Pietro, Marco o Isabella. Ma il nome da solo non è mai sufficiente a comprendere l’insieme di ciò che rappresenta. Per fare un altro esempio: cosa è l’amore? Si potrebbe descrivere un elenco di sensazioni che lo caratterizzano, ma in realtà è molto di più, va oltre le sensazioni, ed anche vissuto diversamente da persona da a persona. Ciò che vale per l’albero, questo concetto di “etichettatura”, è applicabile a tutto ciò che c’è intorno a noi, all’intero l’universo conosciuto (e sconosciuto).

Definire il mondo che ci circonda come un mero elenco di oggetti e cose è come renderlo “piatto e statico” come una tovaglia apparecchiata, con i suoi bicchieri, piatti e tovaglioli disposti sempre in un certo modo. Mi piace invece pensare che il mondo sia meglio rappresentato da un enorme lenzuolo bianco steso al sole su un filo in una giornata ventosa. Proviamo ad immaginarlo ondeggiare mentre forma mille pieghe e ondulazioni per effetto del vento. E’ sempre lo stesso lenzuolo, ma in ogni momento cambia aspetto: la forma per via del vento e il colore per via del gioco di ombre che si viene a creare negli avvallamenti e nelle cime delle ondulazioni. E a volte ci parla, è possibile sentirlo anche da dentro casa se non lo vediamo direttamente, quando produce rumore in caso di vento molto forte.

Davide

Riflessione: Cosa vogliamo farne della nostra vita? Che progetti abbiamo? Quali sono i nostri obbiettivi? Tutti ne abbiamo di diversi e di ogni tipo, e siamo sempre tutti alla ricerca della risposta giusta, di cosa è giusto fare per ottenere quello che desideriamo. C’è una cosa da considerare comunque: che nessuno di noi sa in anticipo quello che potrebbe accadere domani o fra un ora addirittura. Per potere prevedere cosa succederà dovremmo tenere conto di infinite variabili che si intrecciano tra di loro e che si modificano mentre le cose accadono, è molto dispendioso e non riusciremmo mai ad avere la certezza di cosa accadrà in futuro e basare su questo una scelta da prendere nel momento presente. Quindi abbracciamo l’incertezza, seguiamo il flusso, lasciamo fluire, scopriamo che le cose funzionano lo stesso, che la vita è più semplice e meno stressante, che non abbiamo bisogno di valutare in ogni istante milioni di opzioni e conoscere l’elenco di tutte le possibili variabili. Lasciamo andare tutto questo e vediamo come ogni tensione si allenta. Non dobbiamo per forza tenere tutto sotto controllo.

Lasciamo semplicemente che il lenzuolo che abbiamo steso sul filo si asciughi.

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Introduzione al Tao

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La Saggezza di un Albero – Davide

Oggi passeggiavo in montagna lungo un sentiero boscoso e, grazie allo spunto di alcuni cartelli posti lungo il sentiero, ho fatto alcune riflessioni che volevo condividere. Non mi ero mai reso conto se non in maniera molto marginale delle qualità di un albero e di come queste possono essere ricondotte alle qualità degli esseri viventi.

L’albero è saggio perché indirizza le sue radici nel terreno e evitando ostacoli o zone di terreno che possono essere nocive alla sua salute, ad esempio rocce oppure agglomerati di funghi parassiti. Gli alberi sanno come riuscire a non compiere azioni dannose per se stessi. Questo è saggio discernimento.

L’albero è ospitale perché permette ai muschi e licheni di stabilirsi sul suo tronco. Essi hanno bisogno solo di aria e di un pò di umidità per sopravvivere e non sono nocivi per l’albero stesso. Questa è la virtù della generosità.

L’albero è caparbio perché anche se colpito da un fulmine rimane vivo e cerca in tutti i modi di produrre nuovi rami e fogliame per continuare a vivere. Non si lascia abbattere dalle difficoltà della vita. Questo è lo sforzo entusiastico.

Il ceppo di un albero tagliato ci mostra i suoi anelli che ci raccontano la storia del tempo atmosferico e il susseguirsi delle stagioni del posto in cui ha vissuto attraverso lo studio delle loro caratteristiche (larghezza, colore, numero). Gli alberi centenari ci insegnano tante cose… e questa è la virtù della saggezza

L’albero è utile perché la sua presenza e quella delle sue radici stabilizzano e rinsaldano il terreno assorbendone l’acqua e rinforzando strutturalmente la terra stessa. Questo è altruismo

I rami più bassi di un abete o un pino spesso sono secchi: queste piante sono caratterizzate dall’avere una folta chioma e un tronco lunghissimo. L’albero è in grado di capire che i rami più bassi e le loro foglie ad un certo punto non sono più utili perché ricevendo poca luce non riescono più a compiere la fotosintesi e cessano di dare il loro contributo energetico all’intera pianta, anzi la sottraggono inutilmente. Allora l’albero li fa seccare e poi cadere. Questa è la pratica del lasciare andare

Vi siete mai fermati a sentire il profumo del legno di un albero appena tagliato?

Davide

Nascita e Morte inseparabili – Tich Nhat Hanh

Tre sono le tappe fondamentali generalmente assegnate agli esseri viventi: nascita, vita e morte; e l’unità di misura è la nostra età: quanti anni abbiamo? Noi sappiamo che siamo nati, siamo abituati a pensare che ora viviamo e che la morte arriverà più in là nel futuro. Questa abitudine di pensiero crea inconsapevolmente in noi una sorta di separazione tra le tappe fondamentali descritte sopra. 

Il seme e la pianta, il buio e la luce, il dentro e il fuori non possono essere considerati separatamente: non c’è pianta senza seme, non possiamo dire che siamo alla luce se fino a poco prima non ci trovavamo al buio e che siamo fuori perché veniamo da dentro. Allo stesso modo non siamo vivi se prima non nasciamo e non moriamo se prima non siamo vissuti. Le tre cose non sono separate.

Supponiamo di potere vedere il nostro corpo e riuscire ad osservare che ci sono milioni di cellule che stanno morendo proprio in questo momento e altre che sono appena nate, capirete che il processo di nascita, vita e morte è presente nel Qui ed Ora. Andando un pò oltre, dal momento che il nostro corpo più o meno è sempre formato dallo stesso numero di cellule, è possibile arrivare a capire che c’è bisogno di spazio alle cellule appena nate per potere vivere e quindi le più vecchie devono morire per crearne lo spazio necessario: la nascita non è possibile senza morte e la morte non è possibile senza la nascita

Addirittura è possibile dire che stiamo nascendo e stiamo morendo contemporaneamente in ogni istante. La morte non è quindi più tardi, più in la nel futuro, come abbiamo detto all’inizio di essere abituati a pensare. Anche la nascita può avvenire nel futuro. Quindi adesso sappiamo che nascita e morte sono inseparabili: dove c’è l’una c’è anche l’atra.

Osserviamo le due immagini sopra: dove c’è la destra del foglietto c’è anche la sinistra, dove c’è il sopra c’è anche il sotto. Non possiamo togliere niente, altrimenti l’altro non esiste.

Questa è la piena comprensione del processo di nascita e morte, la piena consapevolezza della realtà del processo di nascita e morte.

Come stare nel momento presente anche quando esso è spiacevole – Tich Nhat Hanh

Chiunque conosca la pratica della mindflulness sa che si deve tornare a casa nel momento presente. Quando si torna a casa si possono trovare due situazioni: 

La prima situazione è che ci sono condizioni di felicità nel qui e ora. Quando inspiriamo e portiamo la mente a casa nel nostro corpo ci si stabilisce nel momento presente e notiamo che ci sono tanti elementi rinfrescanti, curativi e condizioni di felicità a portata di mano nel presnte; è chiaro che con questa consapevolezza è molto facile generare un sentimento di gioia e felicità. Questo è ciò che possiamo fare per nutrire noi stessi di gioia e felicità.

La seconda situazione che possiamo incontrare quando inspiriamo e portatiamo la mente a casa nel qui ed ora è una emozione dolorosa che si manifesta di tanto in tanto, e che quando inizia a manifestarsi è spiacevole. Così scappiamo per fare in modo che il dolore non sia lì, perchè se lì non c’è nessuno viene a mancare anche colui che lo patisce. Accade che in questo modo nessuno è nemmeno lì per prendersi cura di quel dolore. In questo secondo caso, il tornare al momento presente non è riconoscere gli elementi di gioia e felicità, ma è avere l’opprtunità di riuscire a prendersi cura del dolore presente in noi stessi e cercare di trasformarlo. Anche se il momento presente è insopportabile, tornare a casa, tornare in noi stessi, è la sola possibilità che abbiamo di fare qualcosa per riuscire a trasformarlo in maniera che esso si calmi e che non sia più così insopportabile.

La maggior parte delle persone non agisce in questo modo perchè teme che giungendo a casa in se stessi e venire a contatto con il dolore ivi presnte sarà sopraffatta dalla soffrenza conseguente al dolore. Questo spiega perchè spesso fuggiamo immaginando qualcosa nel futuro per fantasticare o andando nel passato per dimenticare. Ma il passato e il futuro sono delle immagini, non è la realtà, solo il momento presente è reale. Ecco perchè al Plum village diciamo sempre: “Non lasciamoci catturare dal passato o dal futuro, torniamo al presente”. 

Molte persone cercano di nascondere il dolore dentro se stesse non solo tornando al passato o correndo nel futuro immmaginado che forse almeno lì ci sara una qualche speranza di fine della sofferenza. Ma questo processo mentale allevia forse un pò il dolore ma non lo elimina e inoltre non dura nemmeno a lungo, perchè appena si torna al qui e ora ecco che il dolore è sempre lì. Molte altre persone cercano di nascondere il dolore consumando esperenzie emotive forti (es. sesso), bevendo alcoolici o consumando droghe, ma quando l’effetto (non duraturo) termina ecco ripresentarsi lo stesso dolore da cui sono fuggiti, forse amplificato anche dall’eccesso emotivo e di stordimento. Altri ancora cercano di fuggire lasciandosi andare all’apatia che si prova guardando continuamente la televisione o leggendo riviste di pettegolezzi. Il fattore comune di tutte queste esperienze e che esse sono tutte caratterizzate dall’evitare il confronto con la sofferenza, ed in questo modo accade che il dolore si accresce.

La pratica della consapevolezza ci aiuta a tornare a casa, nel presente, anche se il momento non è piacevole. Ma è proprio in quel momento che possiamo comprendere la sofferenza, e trovare una via per trasformarla, per farla cessare o almeno per calmarla. Così quando accade di nuovo che ci troviamo in un momento presente non piacevole, non pensiamo più che scappare da esso sia la via migliore; al contrario pensiamo che può essere una opportunità. Stiamo nel presente, guardiamo in profondità la natura della nostra sofferenza.

Se sappiamo come praticare il respiro (o il cammino, il mangiare) consapevole siamo in grado di generare l’energia della consapevolezza e questa energia, che deriva dalla pratica ci aiuta ad essere forti abbastanza per riconoscere (com-prendere = prendere con sé) e contrastare il dolore, abbracciandolo con tenerezza (com-passione = prendere con sé il sentimento). E’ proprio questo abbraccio che in pochi minuti ci permette di calmare il dolore. Entrare in contatto con la sofferenza porta alla comprensione della sofferenza stessa, l’energia della comprensione e della compassione ha il potere di curare. Curare noi stessi ma anche le persone che ci stanno vicino in quel momento, perchè quando noi riusciamo a calmare il nostro dolore possiamo aiutare gli altri a fare altrettanto.

C’è un uomo, un Bodhisattva, il cui voto è di andare nei luoghi dove c’è molta sofferenza per avere l’opporunità di servire o di aiutare. Ci sono molti infermieri, dottori ed operatori sociali che già lo fanno prestando servizio nei luoghi più disastrati della terra ( guerre, carestie, pendemie). Quell’uomo (e gli altri menzionati) sono tutti esseri che non temono la sofferenza. Il Bodhisattva sa che venendo a contatto con essa è possibile alleviarla (o farla cesssare). Egli ha una potente e forte fonte di energia che è l’aspirazione al volere fare qualcosa nella tua vita che sia utile, per avere una vita piena di senso. Ecco perchè va nei posti pieni di sofferenza, per aiutare coloro che soffrono. Non ha più paura di andare in situazioni di sofferenza. Anche noi non dobbiamo più avere paura della nostra sofferenza

Se abbiamo compassione non ci preoccupiamo più di essere in una situazione dolorosa e difficile, siamo protetti, non saremo più sovrastati dalla situazione di dolore e dalla sua energia negativa che emette tutto intorno ad essa, perchè la contrastiamo con la nostra energia positiva emessa dalla nostra comprensione e compassione.

Adesso saliamo di livello ed espandiamo la nostra pratica. Torniamo a coloro che si spendono e si sacrificano nelle zone più difficili della terra e cerchiamo di capire che la nostra non deve essere solo una pratica a livello individuale, utile solo per la nostra personale sofferenza. Come comunità di esseri compassionevoli siamo in grado di emettere energia positiva sufficiente anche per aiutare coloro che sono direttamente sul campo a lavorare. Attraverso la nostra pratica li proteggiamo quando sono lontani e anche quando ogni tanto tornano a casa si ricaricano di nuova energia che trovano pronta anche grazie a noi, utilizzandola per avere la forza di ripartire e tornare nuovamente in azione in quei posti dolorosi del mondo per aiutare direttamente gli altri. La pratica deve essere colletiva.

Anche all’interno della nostra ristretta cerchia di familiari ed amici operiamo per aitarci a fare pratica colletiva. Il modo migliore per farlo è quello di diventare sempre più gentili, sorridenti e dolci giorno dopo giorno. Solo così crederanno che la nostra pratica funzionerà anche per loro. Quando la tua famiglie e i tuoi amici, colleghi godono di maggior armonia, fratellanza, la tua aspirazione ad aiutare gli altri, ad essere compasionevole con tutti gli esseri, si realizzerà più facilmente. 

Abbiamo bisogno degli altri (così come gli operatori di pace hanno bisogno di noi) per realizzare la nostra aspirazione, senza gli altri il nostro sogno difficilmente potrà diventare realtà. Dunque non solo noi dobbiamo agire come singola persona, con gli altri è molto meglio.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – Equanimità (cap. 10)

Equanimità o equilibrio mentale è la mente che si astiene dal diletto e dalla sofferenza, dagli alti e dai bassi. Come pratica è profonda, attenta e piena. Va considerata alla luce di quello che la mente fa di solito, e di come è motivata a ottenere il piacevole e l’eccitante, e ad allontanarsi dal dolore, dal biasimo e dalla perdita.

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato la gentilezza e la compassione, e queste sono le primi due delle quattro dimore divine, che sono quegli stati mentali nobili, abbondanti e spaziosi nei quali includiamo gli altri come noi stessi. Il terzo è la gioia empatica, l’intenzione di apprezzare la buona fortuna e la felicità degli altri. Ma il più profondo dei è l’equanimità. In questo contesto, è un atteggiamento mentale equilibrato di accettazione di se stessi e degli altri. Con l’equanimità possiamo entrare in sintonia con gli altri, siano essi allegri o depressi, e questo non cambia la nostra empatia verso di loro. Inoltre, ciò si accompagna alla comprensione che qualsiasi cosa essi ora vivano cambierà, e noi confidiamo nella loro capacità di superare quella fase. In questo senso è un’immensa offerta di rispetto. Con l’equanimità possiamo permettere a noi stessi e agli altri di andare oltre qualunque punto di vista o prospettiva. Inoltre non c’è panico, difesa, pretesa, rifiuto, deplorazione, preoccupazione, dubbio o tesaurizzazione; l’equanimità permette a tutto questo di svuotarsi.

Inclusione, non indifferenza

Equanimità in termini di sensazione, può significare “neutralità”; può dare l’impressione che si è indifferenti e non ci si preoccupa (atteggiamento noncurante, che lascia fare). Ma questa è un’equanimità scorretta: in essa non c’è nessun incoraggiamento a migliorare. La noncuranza è una illusione che non riconosce pienamente le sensazioni o le conseguenze degli stati mentali. È una fuga che ci rende incerti e confusi; è una difesa, un non voler sentire. Così la gente, invece di essere solidale ed empatica, commenta, filosofeggia o parla della sofferenza come se fosse una statistica.

Normalmente, quando c’è un contatto sgradevole, noi lo blocchiamo, guardiamo da un’altra parte, prendiamo una pillola, oppure lo filtriamo in modo che non ci getti in uno stato che non siamo in grado di gestire. Ad esempio con la malattia, all’inizio pensiamo che la nostra mente possa essere ragionevole e stoica. Ma se la malattia perdura settimana dopo settimana e non mostra alcun segno di miglioramento, o addirittura peggiora, pone fine alla nostra imperturbabilità e al nostro equilibrio e possiamo diventare depressi e disperati. Anche senza una malattia fisica, se la mente diventa ansiosa o stressata fino al punto in cui non possiamo dormire, allora cominciano a manifestarsi stati d’animo alterati o istinti suicidi. Le persone che sono moribonde o che sono affette da demenza senile, smarriscono gli aspetti a noi noti della loro mente, perdono la capacità di formulare frasi o provano panico e rabbia; questo è il disfacimento di altri esseri umani, è crudo ma è questo che accade. In contesti come questi, sentendo le sensazioni e lasciandole muoversi attraverso di noi, abbiamo la possibilità di sviluppare e conoscere il valore dell’equanimità.

Questa pāramī è realmente utile in ogni momento, perché, anche quando viviamo in un ambiente tutelato dove possiamo essere puliti e adeguatamente nutriti e ospitati, le cose non rimangono a lungo comode o interessanti. Non solo perché le situazioni cambiano sempre in modo radicale, ma anche per la natura mutevole delle nostre sensazioni e percezioni – per le quali l’“interessante” o il “confortevole” diventa “noioso”. In una situazione abbastanza gradevole, diamo le cose per scontate, ci annoiamo, sentiamo di perdere tempo, e così via. Stare semplicemente con le cose così come sono, in un contesto relativamente
neutro, è una pratica importante del Dhamma. L’ho visto io stesso nei monasteri dove gli oggetti necessari sono forniti gratuitamente e viviamo con persone che osservano i precetti e sono dedite al Risveglio – ma “Come canta questo qui è insopportabile… e il discorso di Dhamma è così noioso…se soltanto gli altri fossero d’accordo con me…”, sono solo alcuni dei pensieri che emergono.

La mente trova sempre qualcosa da cui essere irritata o affascinata; scopre sempre qualcosa di cui ha bisogno, di cui preoccuparsi o addolorarsi. Questo perché la mente riceve dati in termini di percezioni e sensazioni che registrano l’esperienza come piacevole o sgradevole – il che è abbastanza naturale. Ma poi una mente non coltivata sovrappone a tutto ciò attività mentali e programmi di desiderio, avversione e interesse personale. Questi sono le tendenze latenti proliferanti che sono radicate nella consapevolezza della mente e prendono forma quando la mente “sorge” nelle sue attività. Con queste tendenze, la spaziosità e la visione del nostro cuore si contraggono. Perdiamo il contatto con la nostra buona fortuna e con la nozione di come potrebbe andar peggio; dimentichiamo e perdiamo l’empatia per la sfortuna degli altri.

Pertanto la situazione che ci dà sicurezza è solo una percentuale di quello che accade realmente. Il resto si trova dall’altra parte del confine, dove, non appena entriamo in contatto con esso, c’è un riflesso inquieto, perché la mente non è in grado di restare con quella paura, quel dolore o quella inadeguatezza. E tale debolezza viene ignorata. Tendiamo invece a una mentalità che si immagina il meglio, vuole la cosa migliore e desidera essere vincente. Questo è il messaggio della società. E tutto ciò che non riesce a soddisfare questi criteri è inferiore e da escludere. La società in generale tende a emarginare i poveri, gli analfabeti e gli incapaci. Così noi li respingiamo; poi li temiamo; e finiamo per respingerli ancor di più. Questo tipo di mentalità che esclude è rivolta anche verso noi stessi. Visti attraverso queste lenti, noi non possiamo mai essere abbastanza bravi, forti, intelligenti, calmi; ed è colpa nostra. Così respingiamo noi stessi, ci togliamo il sostegno del calore del cuore e continuiamo a pretendere di raggiungere la vetta.

La stabilità mentale empatica

L’unica via d’uscita passa da un approccio diverso: sviluppare l’equanimità come auto-accettazione. La sua coltivazione è uno dei temi sempre presenti nella pratica del Dhamma. Per esempio in meditazione: quando sorgono ricordi dolorosi o stati mentali sgradevoli, facciamo una pausa, accantoniamo l’opinione su come le cose dovrebbero essere e lasciamo andare il tentativo di analizzare o fissare la mente. Nel controllare queste reazioni (senza giudicarle), nella mente si diffonde un’empatia equanime. Non c’è bisogno di lottare: “Posso stare con questo”.

Mi piace descrivere questo processo in quanto composto da tre fasi: dapprima facciamo attenzione; poi incontriamo ciò che sorge; infine includiamo tutto. Vale a dire, sentiamo i pensieri, le sensazioni e le emozioni così come sono; ampliamo la focalizzazione per sentire l’effetto che essi hanno sul corpo; e lasciamo che l’attenzione empatica si riposi sull’insieme. Non ci diamo da fare, né ci aspettiamo che le cose finiscano, altrimenti non sarebbe un’inclusione completa: al contrario ammorbidiamo questi atteggiamenti e includiamo tutto. E lasciamo che questo processo continui con qualsiasi cosa sorga in seguito. Ci sarà una liberazione – che potrebbe non essere quella che ci aspettavamo. Tuttavia, seguendo questo processo, cominciamo a fidarci dell’effetto della consapevolezza equanime. E questo è il vero punto di svolta. Perché quando abbiamo gli strumenti, diventiamo impazienti di includere tutta la nostra vita nella pratica del Dhamma. Vogliamo vedere dove diventiamo smaniosi e difensivi, e badiamo ai segni che rivelano agitazione e contrazione – dato che, se facciamo attenzione, ampliamo, ammorbidiamo e includiamo tutto, il movimento verso il Risveglio continua.

Come perfezione, allora, l’equanimità è un’intenzione o un “muscolo mentale” piuttosto che una sensazione. È il grande Cuore che può mantenere saldamente le emozioni e le percezioni nella piena consapevolezza senza farsi scuotere da esse. Ed essa si rafforza in uno stato mentale quando è sostenuta dalle altre pāramī. L’equanimità consente a una sensazione di entrare, di essere sentita pienamente e di passare oltre. Questo è quanto la rende estremamente utile: noi non rifiutiamo il mondo, ma acquisiamo un cuore abbastanza grande da abbracciarlo. E con ciò perveniamo anche alla realizzazione che il mondo – le forme, le sensazioni, le percezioni, le attività mentali e persino la coscienza – è qualcosa che passa e che non ci possiede. Perciò non c’è alcun bisogno di correre, e non c’è niente da bloccare. L’equanimità è allora il tagliafuoco che accompagna tutte le pāramī nel momento in cui il fuoco divampa. Ad esempio la mente protesta quando si tratta di essere pazienti, “Perché dovrei?”; quando si tratta di essere generosi, “Forse non se lo meritano”; quando si tratta di rinunciare a qualcosa, “Ma si, cosa vuoi che sia, da domani però basta”. Con l’equanimità, non siamo colpiti e trascinati via quando incontriamo questi flutti, essa è come un bravo timoniere.

Le tre conoscenze (realizzazioni)

Come introduzione alle riflessioni sulle pāramī, ho menzionato la storia del futuro Buddha seduto sotto l’albero della bodhi, che incontra, e poi respinge, l’esercito di Māra, chiamando la Terra a testimone dell’enorme pratica di perfezioni accumulata nelle vite passate. Un altro passo canonico spiega il ruolo dell’equanimità in questo evento. In questa narrazione (Majjhimanikāya, I, 249-250), il Buddha dice di aver avuto tre realizzazioni successive: quella delle sue vite precedenti, quella della natura del bene, del male e delle loro conseguenze, e quella della fine dei preconcetti e dei flutti che causano la sofferenza.

Prima realizzazione: il panorama delle sue numerose vite. Ora, limitiamoci a immaginare di focalizzare mentalmente l’intera e unica vita che possiamo ricordarci (quella attuale), o applichiamola a un periodo più limitato, a un progetto o a una relazione, e contempliamo le svolte, le curve a gomito, le salite, le discese, insomma tutte e le contorsioni del suo dramma: ora si eccita, ora lotta, ora perde tempo, ora persevera, fa delle scelte, si sente male per un colpo di sfortuna, poi si sente bene per una pausa favorevole… e così via. Possiamo farlo senza reagire, sussultare o diventare nostalgici? Possiamo fermare i tribunali giudiziari e andare oltre l’identità di vittima o di protagonismo? Se riusciamo ad andare avanti e a essere presenti a tutto ciò con equanimità, possiamo dire che questa vita è positiva o negativa? Oppure è semplicemente quella che stata, così com’è. Ecco la prima fase dell’equanimità saggia. Con l’assenza di un giudizio finale, la mente rimane aperta e l’apprendimento si approfondisce.

La seconda realizzazione avvenne con un ulteriore ampliamento e approfondimento: estendendosi oltre la riflessione su se stesso, egli contemplò tutti gli esseri che avevano sperimentato gli alti e bassi della vita come aveva fatto lui, mietendo il risultato delle azioni. Questa fu la realizzazione del kamma: ogni azione, anche se mentale, ha delle conseguenze. È la legge di causa ed effetto. È impersonale e non attribuisce nessuna colpa. La legge dice che le azioni, i pensieri e la parola ci sollevano in uno stato luminoso o ci precipitano in uno stato buio, secondo la qualità etica dell’intenzione che li genera. L’intenzione sceglie il paradiso, l’inferno o qualche luogo nel mezzo – un momento per volta. E se superiamo le reazioni e le spiegazioni, entriamo in contatto con l’intenzione della mente. Allora possiamo indagare e impostare la rotta corretta.

Così l’intenzione dell’equanimità crea una forza imparziale che ci dà la possibilità di vedere più chiaramente. Anche che gli altri traggano beneficio attraverso la inter-relazione con un essere equanime: ad esempio tempo fa un mio amico sfruttava con l’inganno una prescrizione medica per acquistare droghe che generavano dipendenza. Sua moglie lo sapeva e naturalmente era molto preoccupata. Ma, invece di limitarsi a criticarlo, aspettò il momento opportuno per fargli notare con calma e in modo premuroso che le sue azioni gli avrebbero procurato grossi problemi: avrebbe perso il rispetto di se stesso e il suo benessere psicologico, e avrebbe avuto guai legali. Tuttavia, ella affermò che la decisione spettava a lui. Il tono non veemente della moglie, il suo non drammatizzare e l’assenza di biasimo ebbero un effetto profondo. Questo incoraggiamento a considerare attentamente le cause e gli effetti lo indusse a cambiare subito il suo comportamento.

L’equanimità non è un invito a essere passivi e a non valutare le azioni. L’applicazione dell’equanimità ci fa sentire invece meno colpevoli, meno sulla difensiva e meno reattivi. Può sorgere una naturale sensibilità della coscienza per guidarci verso quello che, nel profondo del cuore, sappiamo essere giusto e significativo. Un approccio oppressivo semplicemente chiude la mente in difesa o scatena una reazione contraria. D’altra parte un approccio totalmente passivo, in cui accettiamo tutto e non teniamo conto di saggi consigli e riscontri, ci lascia in preda ai nostri impulsi e a cieche abitudini. La via di mezzo del Buddha esamina la conoscenza della causa e dell’effetto e riconosce come proprietaria dell’azione l’intenzione, piuttosto che il sé. L’insegnamento del Buddha ci offre quindi linee-guida chiare e serene che rispettano il nostro senso morale innato, piuttosto che virtuosi sproloqui, i quali ci rappresentano come minorenni irrimediabilmente corrotti.

La terza realizzazione: per essere presenti a tutte le nostre azioni, è necessaria l’attenzione irremovibile e stabile di un’equanimità continua. Così è questione di un’auto-accettazione incondizionata: questo è ciò che siamo stati, e quello che abbiamo fatto nel bene e nel male. Nessuna censura, nessuna giustificazione, semplicemente rimaniamo sintonizzati. Allora la mente può operare al di fuori dei tribunali e delle rassegne dei punti di vista del sé. C’è un approfondimento nel vedere che quanto ognuno di noi sperimenta come “me stesso” è in realtà, nel bene e nel male, la corrente di causa ed effetto. È il kamma, non il destino cieco o un “Io” imperfetto, che porta avanti la mente e crea una storia “personale”. Il futuro Buddha non si fermò a quella realizzazione, ma penetrò più in profondità. Rinunciando alla sofferenza o all’esultanza per quello che aveva compreso, la sua mente si immerse nel profondo per riesaminare i presupposti che sostengono il kamma sono: 1) la ricerca della felicità mediante l’acquisizione o l’eliminazione; 2) l’andare in cerca della sicurezza con l’ottenimento di un punto di vista filosofico o religioso; 3) la stretta che tiene avvinta la mente come se fosse un sé immutabile; 4) il non ammettere giorno dopo giorno l’insoddisfazione generata da questo comportamento. Come abbiamo visto, questi sono i flutti della passione, dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza. L’andare oltre questi pregiudizi e vederli per quello che sono è l’essenza della terza realizzazione.

Non c’è bisogno di difendere o di sostenere una persona: tale sforzo incoraggia i punti di vista, l’identificazione e il conflitto. Tuttavia è sicuramente possibile dare un giudizio e avere una reazione. Ma la risposta viene da una mente che è equanime circa l’identità e consente al discernimento di parlare chiaramente di azioni e comportamenti, non di personalità. Le cose sono viste essere “così”, “semplicemente così”. Il Buddha (il risvegliato), o il Tathagata (colui che è “Così andato”), vede anche la verità essere “così” senza attaccamento.

Perciò l’equanimità è un’umiltà profonda che consente alla mente di evitare di adottare qualsiasi identità, punto di vista o giudizio. Con l’imparzialità della mente le intenzioni della saggezza e della rinuncia compiono la scelta di abbandonare la causa della sofferenza, e la gentilezza e la compassione incoraggiano gli altri a fare lo stesso.

Sviluppare l’imparzialità nella meditazione

Come per le altre perfezioni, la pratica dell’equanimità inizia da se stessi ed acquistano il loro pieno potere solo quando sono radicate nell’intima attenzione della meditazione. In parole semplici, la pratica della meditazione sviluppa l’equanimità in due modi. Il primo si avvale della stabilizzazione dell’energia mentale che avviene con la mente calma che si focalizza su un tema; in questo processo essa leviga e rafforza la sua energia. Inoltre, quando la mente accantona il contatto sensoriale esterno, e l’agitazione, l’avversione, la speculazione, la preoccupazione, l’inquietudine e la fascinazione che l’accompagnano, l’energia della mente si assesta e si unifica con l’energia del corpo. Una tale mente può quindi gioire della propria vitalità e ampliare maggiormente la consapevolezza senza perdere di vista il centro. Questo è il samādhi; e, a mano a mano che si approfondisce, la compostezza e l’agio della mente si raffinano e si stabilizzano, donando chiarezza ed equanimità. Questa è una sorta di “mente saggia”, che non è più in balia dei flutti dell’energia che trema o si irrigidisce, aumenta o si irradia, secondo le percezioni e le sensazioni.

Pertanto, nella meditazione, noi impariamo a conoscere l’aspetto energetico della mente, ed espandendolo e purificandolo possiamo rimanere in quell’elemento, piuttosto che in tutti i viavai. Allora la nostra mente resta equanime: non è tirata fuori, spinta dentro o scossa dagli eventi. E, di conseguenza, la mente si assesta su questa base elementare; in mezzo al mondo, si sente ancora bene, integra e sana.

Il secondo modo in cui la pratica meditativa sviluppa l’equanimità è tramite la capacità intelligente e intuitiva della mente. Questo è un aspetto della saggezza che consiste in una conoscenza penetrante che può sapere: “Questo è un pensiero, questa è una sensazione, questo è uno stato d’animo. Questa è attrazione, questa è repulsione. Questo è il ricordo, questa è la dimenticanza”. Tale discernimento può essere addestrato
all’equanimità e all’imparzialità; benché sia toccato dai pensieri, dalle sensazioni e dagli stati mentali, può essere allenato a non desistere, non millantare, non congratularsi o biasimare.

Più abbiamo la capacità di ricevere l’esperienza e riflettere su di essa, più la vediamo come causata (e quindi soggetta alla dissoluzione), mutevole e non appartenente a nessuno. Questa focalizzazione intuitiva (questa è vipassanā) vede l’esperienza che è caratterizzata da: l’assenza di desiderio, l’assenza di segni e l’assenza di un sé. In un certo senso, tutte pervengono allo stesso risultato, una visione corretta di come normalmente caratterizziamo le cose o le percepiamo. Senza questa visione corretta, noi etichettiamo inconsciamente le cose nei termini della loro desiderabilità, cioè del loro carattere piacevole o spiacevole. E così cerchiamo di ottenere il piacevole e di allontanarci dallo spiacevole. Ma in meditazione scopriamo che non possiamo possedere ciò che sorge o fuggirlo. Più vogliamo avere la pace e la tranquillità, più diventiamo tesi e agitati. Più cerchiamo di liberarci dei momenti mentali brutti e stupidi, più quelli ci assalgono con insistenza. Dopo un po’ scopriamo che l’unica vera opzione è prestare attenzione in modo diligente e adottare un’equanimità che osserva. Poi la materia bollente comincia a raffreddarsi e, mentre l’intenzione pacifica dell’equanimità si diffonde nella mente, è possibile realizzare una tranquillità interiore naturale.

La mente “etichettatrice” creatrice dei segni

L’intuizione penetra nel processo percettivo che etichetta o “segna” ogni cosa. La percezione è l’attività di riconoscere un oggetto come qualcosa di conosciuto. È il manager dei minuscoli promemoria mentali che etichettano le cose: “Questo è terribile, quest’altro è divertente, quello è una minaccia, quell’altro è fantastico” e così via. Ma quando noi riconosciamo che quanto sperimentiamo è impermanente e mutevole, allora vediamo che tutte le etichette della memoria non sono vere in modo definitivo e duraturo. In altre parole, il segnare le cose come se fossero sempre in questo modo o in quello, cambia con i nostri stati d’animo, le prospettive e il contesto in cui le sperimentiamo. Perciò le cose sono desiderabili secondo il nostro desiderio, non in maniera innata, in se stesse. Per esempio, la musica briosa è magnifica quando si balla, ma è terribile quando cerchiamo di dormire. La focalizzazione accompagnata dall’equanimità sulla natura impermanente dell’esperienza, un momento alla volta mette a tacere l’irrequietezza e l’irritazione, così l’intuizione sposta i segni verso la realizzazione dell’assenza di segni.

Talvolta la percezione (l’etichettatrice), ad esempio in una situazione in cui c’è conflitto, diventa frenetica nel definire il giusto e lo sbagliato, il che fa sorgere la necessità di schierarsi. Questo a sua volta ci conduce a formulare punti di vista netti: approviamo o condanniamo le persone come buone o cattive (ci comportiamo in questo modo anche verso noi stessi). In ogni situazione e in qualsiasi periodo, c’è sempre qualcuno che può essere schernito o denigrato, come il tiranno del momento o il ministro corrotto di quel dato periodo. E poi ci sono i cavalieri senza macchia, ma in seguito si scopre che i cavalieri senza macchia sono imbrattati dai propri interessi.Questa è la storia della politica, non è vero? Di come le potenze occidentali sembrino liberare altri paesi dai loro regimi tirannici – e poi si rivelino motivate dai propri interessi economici. E di come i nostri alleati vengano scoperti mentre indulgono nello stesso tipo di corruzione dei nostri nemici. Ci focalizziamo sul segno del bene e ignoriamo gli altri segni, o facciamo lo stesso con il segno del male. Ma quando il discernimento è equanime, noi riconosciamo che la percezione è influenzata dall’interesse personale: “Il mio popolo, la mia religione contrapposti a quelli degli altri”. L’intuizione rivela il pregiudizio del sé.

Ricevetti una lezione di assenza di segni e assenza di sé mentre assistevo a un “funerale celeste” in Tibet. Nel funerale celeste, il cadavere è disteso a terra e squarciato per attirare gli avvoltoi che scendono in stormi a divorarne la carne. Le ossa sono poi ridotte in polvere e disperse. All’inizio la mente “segna” questi corpi come “persone addormentate”. Poi, quando i macellai cominciano a tagliarli e quando, dopo pochi minuti, uno stormo di uccelli affamati li copre completamente in una massa ondeggiante… e dopo breve tempo se ne va, lasciando solo un mucchio di ossa sparpagliate… le etichette assegnate ai corpi delle “persone” (il padre e/o la madre di qualcuno), balenano nella mente con intensità emotiva e poi scompaiono. Tutto ciò che rimane è una chiarezza sobria e vuota. Allora guardiamo il nostro corpo e quello delle persone intorno a noi: vecchi, giovani, maschi, femmine, grassi, magri. E diciamo: “Chi sono questi?”. Di per sé, all’improvviso ci accorgiamo che un corpo non è qualcosa né un nulla. Ma certamente non è “io”, “mio”.,”tuo”, “suo”, sua madre o tuo fratello… qui c’è un doppio segno, “tuo” e “fratello”… E quando riconosciamo che un oggetto non è come lo etichettiamo, l’etichettatura si interrompe; c’è l’assenza di segni e la non identificazione con l’oggetto.

Questo ha anche un profondo effetto sull’agente mentale (l’intuizione?) che costruisce i segni, quel frettoloso segretario interiore che ci porge sempre il nome, l’opinione, il segno. Si dà da fare, non è vero? Ma quando tutti i segni sono visti come relativi, e quando l’interesse personale compulsivo è accantonato, il segretario può fare una pausa. Con l’etichettatrice in vacanza, possiamo avere un assaggio della pace profonda. Questa è chiamata “condizione del non-creare-quello” (atammayatā), la realizzazione della sorgente della mente. Non c’è identificazione, nemmeno con il conoscere, che è l’ultimo nascondiglio del punto di vista del sé. Non c’è il bisogno interiore di conoscere e descrivere alcunché, eppure c’è una chiara consapevolezza. Questo è il cessare del “nome”, che è sinonimo di completo Risveglio.

L’equanimità, incorniciata dalle altre perfezioni e applicata alla mente in meditazione, continua ad abbandonare le preferenze che formano il nostro mondo fino a giungere allo stato più profondo della consapevolezza dove non c’è l’etichettare né alcuna intenzione. In questo stato la mente è priva di turbamenti, e il suo discernimento è chiaro, ma non crea alcun segno. La liberazione della mente e la liberazione della saggezza si sono unite. Non c’è alcuna vibrazione a cui reagire o da scacciare, e non ci sono idee a cui aggrapparsi. Si realizza uno stato più profondo, l’“elemento del Nibbāna”.

Suggerimenti sull’equanimità

Lo sviluppo della equanimità è basato sulla comprensione e sull’allentamento delle reazioni e delle proiezioni mentali circa le sensazioni piacevoli o spiacevoli. In esse si devono affrontare il disappunto o l’eccitazione che giungono insieme alla frustrazione o alla realizzazione di un obiettivo. In tali scenari, è bene riflettere sul fatto che molti fattori diversi dalla propria abilità o intenzione influiscono sul risultato. Persino un ottimo atleta può essere sconfitto da una malattia o battuto dal cattivo tempo. Quanto può essere “soltanto nostro” un fallimento o un successo? Aggrapparci a essi crea solo stress e agitazione inutili.

Delle due basi della sensazione (fisica e psicologica) quella che ci tocca di più è quella psicologica. La sensazione piacevole o spiacevole è il fattore che attiverà le reazioni mentali del “sentirsi inadeguati”, “dilemma insopportabile”, “impulso irresistibile”, “annoiato a morte” ecc. La sensazione, si riferisce a un’esperienza di piacere, dispiacere o neutralità, che, se è seguita, innesca le energie emotive (saṅkhāra) chiamate in italiano “le mie sensazioni”. Considerando che solo un terzo delle sensazioni sarà piacevole, e che anche quel terzo è incline a evocare il desiderio per averne di più, è saggio considerare le diverse basi da cui una sensazione potrebbe dipendere prima di seguirla. Ci sono cioè sensazioni gradevoli basate su strutture mentali e punti di vista salutari (come la generosità, la compassione, la sincerità e la calma). E, benché alcune sensazioni spiacevoli debbano essere sopportate (come per esempio nella malattia), e altre siano un avvertimento di pericolo, ci sono sensazioni aspre, basate sul desiderio o su rancori, che dovrebbero essere abbandonate – con una diligente coltivazione.

Prendere questa comprensione e applicarla nella meditazione condurrà alla equanimità sublime, piuttosto che alla indifferenza o alla noia. Questa è l’equanimità basata su uno stato mentale unificato. Il culmine della pratica “non fare” è una completa non identificazione persino con una mente piena di pace; è sinonimo di abbandono dell’intenzione, e di realizzazione del Nibbāna.

Riflessione

Immaginate uno scenario spiacevole: siete in ritardo al lavoro; perdete il lavoro; vi ammalate; ecc. Mantenete attentamente lo spazio e lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’agitazione lo attraversino. Notate lo stato mentale dove l’agitazione cessa. Eccovi qui. Ora fate lo stesso con uno scenario molto positivo: ricevete una ricompensa; incontrate il partner perfetto; ecc. Come prima, lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’eccitazione passino oltre; e notate gli stati mentali quando cessano. Eccovi qui. Familiarizzatevi con il territorio mentale in cui sentite: “Be’, dopo tutto, eccomi qui”.

Poi applicatelo alla situazione di un’altra persona: potete offrirle la ferma fiducia che anche questo passerà?

Azione

L’equanimità nei termini dell’azione può essere sviluppata applicando l’attenzione e lo sforzo in modo uniforme a tutte le fasi di un’azione, dalla preparazione al completamento. In questo modo, la mente non è solo predisposta a “fare” le cose al momento necessario, ma rifletterci prima durante e anche dopo l’esecuzione. Questo è particolarmente utile quando non si raggiungono i propri obiettivi! Possiamo fermarci, mettere ordine, riflettere e provare un altro approccio. È anche utile riflettere sull’esito di “ottenere risultati”: quanto dura la soddisfazione? Se l’importante per noi è quanto applichiamo la mente in modo uniforme, e la serenità che ne deriva, allora, sia che noi vinciamo, perdiamo o pareggiamo, possiamo dimorare nel risultato dell’equanimità.

Meditazione

La coltivazione dell’equanimità nella meditazione dipende da due principi: 1) inerente alla saggezza: la mente può fare un passo indietro rispetto a ciò che sperimenta; 2) inerente all’empatia: il crescente grado di calma fornisce una fonte più profonda di soddisfazione rispetto a quella procurata dai piaceri dei sensi. E’ come rispondere alla domanda: “Cosa mi farà sentire soddisfatto?”. Questi esercizi di saggezza e di empatia richiedono costanza per continuare a eseguirli, ma il risultato è un profondo senso di equanimità e pace.

Nella pratica:

  • stabilizzate la sensazione, rivolgendo l’attenzione a un oggetto calmante, come il respiro
  • con la saggezza passate in rassegna il processo della sensazione per imparare a non restarne catturati
  • lasciando che il respiro si dispieghi completamente e venga percepito in tutto il corpo, cominciate con il “conoscere” pienamente l’oggetto della meditazione
  • sintonizzatevi sul piacere salutare che nasce dal non essere circoscritti e dalla calma. Quando questa sensazione diviene il tema dominante,
  • valutate il piacere che proviene dalla calma come più sostenibile e soddisfacente dell’attrazione più grossolana e vacillante per il piacere dei sensi.

Ciò conduce alla comprensione del beneficio della quiete, e a una solida base nel piacere salutare interiore per contrastare l’attrazione dei sensi. Quando contemplate questa calma costante attraverso la facoltà della saggezza, la mente fa un passo indietro dalla sensazione. La calma crescente si fonde quindi con il distacco della consapevolezza che conosce in un’equanimità non basata sull’indifferenza, ma sull’unità dello scopo, dell’oggetto e dell’attenzione. Restando con ciò, la mente si libera dalla sua fascinazione per la sensazione e gli stati mentali in generale.

Conclusione: Cosa portare a casa?

Nella particolare serie di riflessioni in questo libro, il ritornello costante è quello di entrare in contatto con le correnti sotterranee e i pregiudizi che inondano la mente, e di usare le pāramī per attraversarli. Le pāramī sono insegnamenti che si possono usare nella vita quotidiana, ma che renderanno più profonda anche la meditazione. Tramite la pratica delle perfezioni, possiamo riesaminare qualsiasi esperienza che abbiamo vissuto – sia che ci muova o che ci mantenga fermi – con questa domanda: “Ciò che trema o incalza è davvero il mio sé? Ciò che si sente solido, che vuole mantenere la presa, sono davvero io?”. Con una riflessione saggia e profonda probabilmente riconosceremo che “Io non sono sempre così. Dipende da… un contatto piacevole / dall’essere minacciato / dal sentirmi in buona salute / dai commenti degli altri… ecc. ecc.”. Così, tenendolo a mente, e contemplando con un’equanimità consapevole, possiamo realizzare: “Oh, questa è solo presunzione, quest’altra è solo identificazione, quello è solo dubbio, quell’altro è solo stress”. Per quanto possa essere momentanea questa realizzazione, possiamo sperimentare un terreno che non si manifesta come uno stato o una sensazione. È un luogo che non è uno stato mentale, ma una pace interiore che gli stati mentali non possono influenzare.

Però, quando proviamo a trattenerlo, rivendicarlo o capirlo, i flutti dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza prendono il sopravvento. Riconoscerlo ci rende personalmente più modesti e rispettosi della Via. Chiunque sembriamo essere, e in qualsiasi modo lo sembriamo, un Sentiero si evolve con la saggezza, influenzata dalla consapevolezza, fortificata dal raccoglimento e mantenuta costante dall’equanimità. Perciò, ogni volta che sorge una vecchia abitudine, o quando un programma di “Cosa veramente sono e cosa dovrei essere” si rimette in moto, dobbiamo prestare attenzione, incontrare ciò che emerge e includerlo nella nostra pratica.

Questo “lavoro interiore” può anche essere il nostro contributo al bene del mondo. Da questa chiarezza e apertura, l’impegno e la compassione sorgeranno e guideranno le nostre vite. Si può reagire all’ignoranza, all’avidità e alla distruzione disperandosi di tutto – ma questo spegne la consapevolezza e limita una risposta più saggia. Potremmo anche adottare una posizione colpevolizzante o punitiva; oppure sentirci inadeguati; o ancora potremmo congetturare che tutto sia parte di un piano divino. La responsabilità personale consiste invece nel sintonizzarsi sulle pāramī e manifestarle nel modo in cui viviamo le nostre vite.

Così ciò che la Via del Buddha presenta è una cultura – non una tecnica, un’ideologia o un’affermazione metafisica su noi stessi, il mondo o il significato del tutto. Essenzialmente, è una Via che deve essere vissuta – indubbiamente con molte linee guida utili – ma vissuta nell’incertezza e nell’unicità della vita di ogni persona. Accompagnando noi stessi totalmente e con compassione nella lente della nostra consapevolezza troviamo la Via, e le pāramī ci forniscono gli esercizi per farlo.

Allora, anche in un mondo dominato dall’avidità, dall’odio e dall’illusione, noi possiamo vedere il bene in noi stessi e negli altri, sintonizzarci su di esso e farlo crescere. Qui non c’è spazio per il compiacimento, la disperazione o il rimpianto. Questo Sentiero è già una liberazione tramite la virtù, il discernimento, la pazienza e l’equanimità. Non possiamo prevedere i dettagli di quello che ci farà sperimentare. Ma ogni intuizione dello spessore e della chiarezza del Sentiero ci mostra che non c’è nient’altro che valga la pena di fare e ci indica ogni strumento per rimanerci.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La gentilezza olistica (cap. 9)

Il termine olistico deriva da olismo, che è una posizione teorica matematica secondo la quale le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue singole componenti, poiché la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. In questo contesto che cosa vogliamo dire? Quando tutti e tre i tipi di gentilezza inter-agiscono tra di loro, contemporaneamente e sostenendosi reciprocamente, il risultato è la gentilezza olistica, che è maggiore del risultato delle tre prese singolarmente e poi sommate.

Chi non è commosso dall’intenzione di “pervadere il mondo intero, gli altri e me stesso, con una mente imbevuta di una gentilezza copiosa, sublime, senza confini e libera dall’odio e dall’avversione”? L’ideale della gentilezza o benevolenza, chiamata mettā nella tradizione buddhista, è espresso in questa frase, ed è condiviso da tutti i percorsi spirituali. La gentilezza costituisce una parte essenziale della spiritualità e della vera umanità.

Tutti noi possiamo sperimentare la benevolenza verso alcuni esseri in determinate circostanze, e ciascuno di noi è stato in alcune occasioni il destinatario di una benevolenza donata liberamente. È una delle riflessioni, o delle “meditazioni da cinque minuti”, che si possono utilmente effettuare nel corso di tutta la giornata. Si compie richiamando alla mente specifici atti di gentilezza compiuti e ricevuti nella giornata, e dimorando nella loro risonanza emotiva.

Quando ci sentiamo amareggiati, ansiosi o soli ricordiamo: talvolta siamo stati visti con un occhio amorevole e simpatetico. Inoltre rammentiamo: per quanto pensiamo di essere ignobili, noi sperimentiamo benevolenza verso qualcosa. Tutti lo fanno, tuttavia, alla maggior parte degli esseri accade che questo canale di benevolenza di tanto in tanto sia bloccato da un flutto di avversione. Perciò abbiamo bisogno di un mezzo per portare il cuore oltre i flutti che sommergono il nostro sentimento di solidarietà. Il mezzo è formulare un impegno di gentilezza, sempre (verso chiunque e in ogni istante); non solo in una bella giornata, verso dei teneri gattini, ma anche in una giornata grigia e piovosa, verso degli scarafaggi. E quando riusciremo ad includere anche i dittatori e i maniaci, come pure ogni aspetto di noi stessi, allora trasformiamo la mettā in una perfezione, un modo di vivere spazioso che nobilita. Il risultato è una mente che ha le radici nella saggezza e nella compassione.

Ciò che è più importante è l’ampiezza del raggio di azione piuttosto che l’intensità dell’affetto. Così, se includiamo tutti gli esseri per tutto il tempo, riconosceremo che il non permettere alla mente di volgersi all’odio e all’avversione è il livello cui aspirare (e questo è certamente uno standard molto elevato). Quanto è cruciale il suo orientamento! Da una parte, la mente può essere intrappolata dalla paura, dall’avidità, odio e illusione; dall’altra, può estendersi nella generosità e nelle altre perfezioni.

La mente del sé e dell’altro, la dualità

Per la mente, la cosa più importante è la relazione che stabilisce con quanto avviene. La relazione è fondamentale, perché noi non siamo mai realmente esseri indipendenti, ma sempre “esseri con” o “esseri in”. La coscienza si limita a essere questa consapevolezza di “essere con” nei vari campi del vedere, udire, gustare, odorare, toccare e pensare. E in questo processo di “essere con”, la coscienza stabilisce automaticamente il senso di un soggetto e di un oggetto. Da questa dualità sorge il senso del sé e dell’altro. Questo è il modo in cui la coscienza è programmata. Notiamo che il sé e l’altro sono posizioni relative dipendenti l’una dall’altra. Non possiamo avere un’esperienza del sé senza un altro (animato o inanimato) che gli sia contrapposto.

Nella nostra mente il sé appare in due modi: 1) il sé come soggetto che osserva e l’altro (l’oggetto) come pensieri ed emozioni; 2) il sé come noi concepiamo noi stessi e l’altro come ciò che pensiamo dovremmo essere, o potremmo essere o eravamo. Questo è il punto di vista del sé: si basa sul presupposto che queste polarità sorte in maniera dipendente siano effettivamente separate e autonome. Esso inferisce un sé, malgrado l’incapacità di tale sé di possedere (o controllare) il corpo o la mente; lo presuppone a dispetto della sua incapacità di sussistere quando non è “innescato” da oggetti cognitivi o attività significative, ognuno dei quali è esterno al suo dominio.

Il punto di vista del sé è cieco alla inter-dipendenza. Questa ignoranza ci trascina in una sensazione di separazione che causa il nostro senso di insoddisfazione. Questa sensazione non è attribuita tanto alla disconnessione tra il sé e l’altro, ma quanto all’ignoranza di credere che c’è qualcosa di sbagliato nell’altro oppure nel divenire(il divenire della mente con cui dovremo avere a che fare). Così noi selezioniamo l’uno, l’altro (o entrambi) e li consideriamo i veri colpevoli della nostra insoddisfazione, instaurando nel contempo una avversione per la linea di demarcazione tra il sé e l’altro (perché crediamo che al di là della linea ci sia il colpevole). Ad esempio possiamo dire: “Dovrei essere così”, “Io sono quello che deve farlo”, “Ho bisogno di aiutare gli altri a essere maggiormente come dovrebbero essere”. In ciascuno di questi casi, la relazione è caratterizzata da un senso di inadeguatezza di se stessi o degli altri. Il flutto del divenire rende questi presupposti ragionevoli: è ovvio che devo migliorare! Ed è ovvio che voi e il mondo potete migliorare! Quando il presupposto di aver bisogno di divenire qualcos’altro precede i nostri atteggiamenti, e ne costituisce la configurazione fondamentale che dobbiamo a tutti costi raggiungere e senza la quale crediamo di non potere essere felici, non c’è gioia. Del resto, in un mondo di esseri umani imperfetti, dov’è la base della benevolenza? Dov’è la risorsa e la pāramī che può rendere il mondo un posto migliore? Ecco l’origine della nostra insoddisfazione.

Accettare l’alterità

Alterità, come sinonimo di diversità, indica la differenza tra due entità. Derivato dal latino alter, diverso, il termine in ambito filosofico significa l’opposto di identità.

Nella pratica della gentilezza, noi osserviamo quello che succede nella mente mentre sta accadendo qualcosa, con l’intenzione di renderla docile senza farci prendere dalla morsa dell’avversione, della depressione e dell’ansia. Anche se il senso di un sé separato da altro (la dualità) sorge di default, noi possiamo avere voce in capitolo in merito a quale tipo di energia emozionale sviluppare e che andrà a costituire la formazione mentale. Il senso del sé separato da altro, nell’ambito della pratica della gentilezza in un certo senso, può catalizzare l’intenzione di offrire sostegno all’altro (un sé che è gentile con altro) e dargli un’occasione. Quindi non c’è bisogno che la nostra intenzione sia tesa, inadeguata e critica; può essere elevata e spaziosa. Questa intenzione è essenziale per una vita felice, perché, se non usiamo l’esperienza relazionale in modo gentile e generoso, allora l’atteggiamento difensivo, l’ansia, la tendenza al biasimo e l’animosità assilleranno la nostra vita e danneggeranno la vita degli altri.

La mettā è non-avversione, ma è anche non-seduzione e non-proiezione. Libera gli altri dall’essere gli oggetti delle nostre proiezioni, lussuria e idealismo. Ci aiuta a comprendere che gli altri non necessariamente devono essere nel modo in cui noi vogliamo che essi siano. Il vero amore per qualcuno significa che non ce ne appropriamo o proiettiamo su di lei o lui i nostri desideri o bisogni inappagati. La mettā significa invece riconoscerne l’alterità (diversità) e sentire che va bene così. Noi non dobbiamo rendere le persone uguali a noi, sentire che è necessario conquistarli, o che dovrebbero soddisfare la nostra fame emozionale: quando la mettā è pienamente sviluppata, può permetterci di stare serenamente con ciò che è diverso non permettendo che pensieri come irritante, ingiusto e caotico, abbiano presa su di noi.

Lo stesso vale anche per noi: quando manteniamo la mente in uno stato di benevolenza, non ci sentiamo intimoriti e obbligati a dare prova del nostro valore. Siamo tutti stati piccoli, deboli e stupidi. Siamo tutti stati bambini totalmente irresponsabili e adolescenti goffi; abbiamo fatto pasticci, mentito, ingannato e forse persino ucciso. Eppure siamo cambiati. Erano forze che avevano invaso la nostra mente. Ora non neghiamo di aver permesso che la mente si coinvolgesse in queste cose, ma la nostra responsabilità attuale riguarda il coltivare la virtù, il discernimento e la gentilezza, anziché essere ossessionati e portare il fardello della colpa e del diniego. E uno dei principali strumenti di guarigione per questo processo è la mettā Cerchiamo di essere gentili con noi stessi. Possiamo accettare la presenza della grettezza, della colpa e dell’ansia come visitatori condizionati nella mente, e lavorare con esse. Allora non c’è più niente da cui nascondersi o essere intimoriti. Questo è un approccio più utile dell’attraversare un’altra fase di angoscia, odio per se stessi e diffidenza. Placando queste reazioni, la mettā ci lascia penetrare nella causa principale dell’avversione che crea i nostri complessi e la elimina.

Cominciare con l’empatia

L’essenza dell’avversione consiste nell’essere incapaci di provare empatia e benevolenza. Questa mancanza di empatia impregna la coscienza ed è la fonte di molti problemi. A volte siamo accecati dalla pulsione istintiva, la quale presuppone che l’avidità e l’ambizione siano la via alla felicità; altre siamo guidati dalla spinta egoistica del divenire, che ci richiede di essere migliori, più attraenti o più affermati degli altri; altre ancora sentiamo avversione a causa di una differenza di opinioni e punti di vista. Quanto va riconosciuto è che questa è solo la mente che agisce secondo il condizionamento di base del punto di vista del sé.

Nota personalizzata: la verità è che non c’è niente di permanente (sopratutto il sé) e tutto è in continuo cambiamento, quindi anche la mente non è sempre la stessa e non agisce sempre allo stesso modo. Non è chi siamo o chi è l’altro, non è che una volta che ci siamo fatti l’idea di qualcuno (o di qualcosa o di noi stessi) questo debba rimanere sempre lo stesso. E’ quello che sorge nella mente in quella occasione, sulla base dell’espressione di un opinione frutto di una serie di condizionamenti (passati e presenti, esterni o interni, sia a noi che agli altri) che si generano i diversi tipi di reazioni o di risposte, aggressive, difensive, riflessive, desiderose, premurose, inquiete…

Se riusciamo a considerare questa mente così com’è realmente, diventiamo compassionevoli. La mente della gente è condizionata e plasmata dalle circostanze, ed alcune persone potrebbero non sapere gran che sulla gentilezza, semplicemente perché non ne hanno ricevuta molta o perché sono state loro dette o fatte cose offensive e ingiuriose. Di conseguenza, le loro menti possono avere aromi acidi, che si attaccano al loro senso del sé e degli altri, e generano risposte di avversione o diffidenti. Queste persone hanno un senso relazionale distorto in cui il piacere e la sicurezza personale derivano dal sentirsi migliori degli altri, anche mediante il prenderli in giro o farli diventare capri espiatori. Si crea una barriera che blocca l’empatia e che non provoca neppure malessere: ottenere più degli altri, mortificarli o vendicarsi dà la stessa dolce botta della droga. Questo è il motivo per cui prende il sopravvento.

Per esempio, alcuni anni fa, un mio amico monaco guidò il suo furgone per le consegne fino a una stazione di rifornimento. L’uomo che gestiva le pompe si sporse nel furgone e notò la foto di un monaco buddista attaccata al cruscotto. Cominciò a ridere e chiese perché il mio amico avesse messo sul cruscotto un personaggio così strambo. Il mio amico fu preso alla sprovvista nell’essere deriso, ma si mantenne calmo e spiegò al giovane bullo che, prima di diventare monaco si era sentito depresso perché la vita gli era sembrata senza senso e a volte aveva persino voglia di farla finita. L’altro, sempre ridendo lo interruppe, dicendo: “Vuoi dire che anche tu ti senti così?!”. Ecco. Qualcuno parla di sofferenza, e la nota di empatia colpisce nel segno. All’improvviso il conflitto quando il mio amico disse: “Eh si… tu sei così diverso da me…”. Il benzinaio crollò e si allontanò con aria pensierosa. Nessuno ha cambiato nulla tranne lo schieramento sé-altro, in quel momento di empatia c’è una sensazione in comune. La via d’uscita dall’avversione non passa per il giudizio su chi ha ragione, ma attraverso il reperimento di una base comune. La gentilezza o non-avversione comincia con l’empatia, con il senso che siamo tutti insieme nello stesso oceano di sofferenze, in lotta con i flutti.

Ammorbidire i giudizi comparativi

Tutti gli esseri ricercano il proprio bene. La sofferenza e l’urgenza di liberarcene sono la nostra comune preoccupazione, perciò sicuramente possiamo accordarci per sostenerci l’un l’altro. Eppure spesso ci focalizziamo su come dividerci. Questa focalizzazione porta ancora più sofferenza, in termini di giudizi comparativi che provocano competizione e conflitto. Per contro, quando c’è l’empatia – anche nei momenti in cui sperimentiamo il lutto, il dolore e la paura – la sofferenza diminuisce. Non c’è nulla quanto una lotta
condivisa che favorisca la fiducia, la forza e il sollievo
. Quando, per qualcosa di importante, il confine della preoccupazione si allarga per includere gli altri – anche coloro con cui siamo in conflitto – la sofferenza cessa.

Pertanto c’è un’importante saggezza pratica nel comprendere come la mente crei confini di sollecitudine e interesse, e come noi possiamo lavorare con essi. È ovvio che esistano dei confini: ci sono altri esseri sulla
terra, ma ciò che conta è come questi confini siano mantenuti, aperti e chiusi
. Quando consideriamo l’alterità – il modo in cui gli esseri sono diversi da noi – possiamo percepire l’insicurezza: “Come può lei paragonarsi a me?”; o il disprezzo: “Non sei buono quanto me”; oppure la paura e l’intimidazione: “Tu sei migliore o più forte di me”. O ancora, possiamo sentire adorazione/attrazione: “Voglio legarmi a te”. Questi presupposti immediati sono chiamati “giudizi”: noi concepiamo le persone come peggiori, migliori o uguali a noi. L’effetto è che la sensibilità della mente si blocca. Catturato dal giudizio del punto di vista del sé, il cuore non estende i suoi confini di apprezzamento e sollecitudine; il giudizio congela la nostra sensibilità. In questo stato, il cuore si lascia facilmente andare alle lamentele: gli altri non sono come “dovrebbero essere” (o meglio come io voglio che siano), e così il cuore diventa un terreno fertile per l’avversione.

Riflettiamoci: se pensiamo che gli altri siano uguali a noi, ci sentiamo confusi e frustrati quando la loro opinione è diversa dalla nostra. E prima o poi succede, non è vero? Perciò c’è un conflitto non solo quando riteniamo che gli altri siano diversi da noi, ma anche quando pensiamo che siano uguali. Cercare di rendere gli altri cloni di noi stessi ci rende intolleranti. Oppure facciamo pressioni sugli altri affinché abbiano i nostri stessi punti di vista; e questa è una tirannia conformista. All’opposto il riconoscimento e l’accettare le differenze è un dimorare armonioso. L’unica via d’uscita è la mettā: ampliare il confine della solidarietà per includere tutti. Ovviamente, anche quelli con cui siamo a disagio.

Per esempio, dato che un monastero buddhista è un sistema aperto, vengono molti visitatori e non tutti sono equilibrati. Alcuni anni fa, un uomo che chiamerò Dennis era solito frequentare il nostro monastero in cerca di compagnia, ma in generale si rendeva fastidioso finché non partiva, prendendo tutti a male parole – fino all’occasione successiva. Così, quando un giorno si presentò nella sala delle riunioni, ci furono alcuni mormorii inudibili; allorché cominciò ad agitare le braccia e a chiedere attenzione, la maggior parte delle persone se ne andò. Uno dei monaci rimase fermo e informò Dennis che il suo comportamento era inappropriato per un monastero – il che irritò Dennis ancor di più. Osservai quest’uomo e la lente della mia mente sembrò ampliarsi. ‘Poveretto’, pensai, ‘deve infastidire così tanta gente. Eppure ovviamente viene al monastero per stare in compagnia’. Così mi ritrovai ad andare verso di lui, a chiamarlo gentilmente per nome, a prenderlo per un braccio e a camminare per la sala con lui, parlandogli mentre lo facevo. Non avevo aspettative; era solo una reazione, ma l’effetto mi sorprese. La sua natura selvaggia si calmò, come pure la sua tensione corporea. Mentre gli dicevo che non era una persona cattiva, ma che il suo comportamento spaventava la gente, si fermò. Gli misi un braccio intorno alle spalle, e lui scivolò silenziosamente lungo il muro per sedersi sul pavimento. In pochi istanti si aggomitolò e si addormentò come un bambino. Lo coprii con una coperta. Dopo un breve pisolino, si svegliò calmo e coerente, rimase per un tè e poi andò a casa. Aveva ottenuto ciò per cui era venuto in tutti quegli anni.

Coltivare una mente illimitata

Chi è più importante? Chi riceve la prima fetta di gentilezza? Io o tu? Be’, è una domanda a trabocchetto, perché la pratica è olistica: è verso gli altri come verso noi stessi. Il modo in cui funziona è guardare dove la coltivazione può avvenire e ampliare la mettā da quel punto. Continuiamo a espandere e ad approfondire la sfera della gentilezza in tutte le direzioni.

Ci sono alcuni atteggiamenti che possono essere scambiati per gentilezza perché hanno alcune similitudini sia per come vengono messe in atto che per i risultati che possono essere ottenuti dalla loro pratica. Ad esempio c’è l’altruismo che è mescolato alla necessità di sentirsi amati e utili agli altri. C’è una specie di “gentilezza missionaria” che impone agli altri il bisogno di trarre beneficio dal nostro amore. Esiste anche “la gentilezza che converte” come quando noi vogliamo per forza convertire gli sgarbati in amorevoli che quindi non consente alla gente di essere così com’è. Come pratica di Dhamma la gentilezza è focalizzata sull’intenzione piuttosto che sul raggiungere un obbiettivo o uno stato particolare. Così non pratichiamo la gentilezza al fine di trasformare gli altri in quelle che, dal nostro punto di vista, sono persone gradevoli (secondo il nostro punto di vista… del sé?). La pratica consiste invece nel coltivare un campo cosciente (che sorge nella nostra consapevolezza di comprendere i diversi aspetti di noi stessi e degli altri ) di gentilezza in cui questi non siano accolti con paura o negatività, ma con la benevolenza. che deriva dall’eliminazione dell’avversione e del punto di vista del sé.

Non possiamo limitarci a offrire la gentilezza ad altri senza averla sentita in noi stessi, il che significa che dobbiamo essere gentili con le nostre limitazioni, paure, dubbi e dolori. Perciò è utile controllare se abbiamo mettā per noi stessi, ponendoci alcune domande: 1) Ci sentiamo colpevoli quando commettiamo un errore, allorché ritardiamo, o non siamo all’altezza delle aspettative altrui? 2) Esistono impressioni oscure che si aggirano intorno a noi su cose che abbiamo o non abbiamo fatto? 3) La nostra mente fantasiosa crea forse un’immagine di quanto sia grande qualcun altro e pertanto di quanto noi siamo inferiori? Il punto da cogliere è che, finché noi scegliamo particolari caratteristiche e ci attacchiamo a esse come “sé” o “altro”, “buono” o “cattivo”, non giungeremo mai a una benevolenza olistica. Con il punto di vista del sé, esiste il forte rischio di giudicare qualcuno inferiore e qualcun altro superiore. Dobbiamo collegare la benevolenza all’esperienza di noi stessi con gli altri mentre questa avviene; il che significa capire come noi ci sentiamo verso un’altra persona nel momento presente. Se sentiamo l’incertezza, la paura o l’irritazione, allora portiamo l’intenzione della benevolenza verso queste sensazioni, inoltre rimaniamo aperti a quanto succede a noi stessi e agli altri, senza avere una risposta su chi ha ragione e chi ha torto.

Così, ciò che è necessario fare è andare in profondità nella mente contemplando direttamente ciò che sorge sulla linea di demarcazione tra ciò con cui siamo a nostro agio e ciò con cui non lo siamo; notiamo semplicemente l’aroma della coscienza. È contratta, riluttante, ansiosa, esigente? Ascoltiamo le energie dietro i contenuti che la mente porta in superficie; irritazione, paura, colpa, e così via; ed estendiamo empatia e non-avversione. Si tratta di non combattere, non bloccare, non correre. Mantenendo il nostro centro, possiamo ammorbidire il nervosismo della mente. Possiamo aprirci includendo nella nostra consapevolezza l’esperienza che stiamo facendo: cosa è sorto in noi? E negli altri? Come sono? Come stanno reagendo di fronte alla stessa situazione che stanno vivendo con noi? Questa è la coltivazione della mente illimitata; con il tempo, si amplia fino a includere tutto.

La capacità di costruire

L’abilità nel generare la mettā dipende sia dalla nostra buona volontà che dalla capacità. Coloro che hanno subìto abusi prolungati possono trovare molto difficile sperimentare la gentilezza verso se stessi o gli altri; chi non ha avuto la presenza sicura della benevolenza può essere soggetto all’insicurezza che porta all’attaccamento ai punti di vista e al divenire. È anche possibile che la nostra capacità sia limitata dal modo in cui siamo coinvolti nel presente. Sebbene le condizioni cambino sempre, quando la mente è condizionata dalla paura, la preoccupazione, il senso di colpa e la passione, si fissa facilmente in quegli stati. Se il visitatore è la rabbia, la mente diventa aggressiva e vulcanica. Se è il rimorso o il senso di colpa, la mente diventa un vortice che insegue se stesso e affonda. Abbiamo quindi bisogno di sviluppare punti di forza e abilità per smettere di essere sopraffatti da queste forze che generano fissazioni.

Di qui la necessità di sviluppare le pāramī. La generosità e la moralità sono le basi per la solidarietà. E, con la rinuncia, pratichiamo il lasciare andare il senso di cupidigia e di egoismo, l’atteggiamento dell’“io, io, io”. Anch’esso svolge la funzione di base per la gentilezza. Con la rinuncia, cominciamo a lasciare andare il bisogno di avere successo o una posizione sociale, e riesaminiamo i sostegni che usiamo per sostenere l’immagine di noi stessi e il benessere emozionale (beni materiali, stimoli, lavoro, posizione sociale). Quando cominciamo a lasciare andare alcuni di questi appoggi, notiamo gli spazi vuoti nella mente, dove c’è un vivo bisogno di essere stimolati, e vediamo la conseguente irrequietezza. Questi spazi vuoti indicano i punti del nostro corpo emozionale che dobbiamo cominciare a riempire di contenuti positivi maggiormente rivolti a coltivare il nostro benessere, quello degli altri e del mondo in cui viviamo.

Le prime tre perfezioni, la generosità, la moralità e la rinuncia, rendono il bene possibile, perché quando si è generosi e virtuosi c’è il rispetto per se stessi. A causa di quel buon kamma, abbiamo una luminosità emozionale in cui la mente può estendersi verso gli altri esseri in modo empatico, piuttosto che cercando di afferrare qualcosa. Diventiamo quindi più completi e ricchi dentro noi stessi e possiamo lasciare andare qualche altro sostegno. Quando la paura e il bisogno scompaiono, il discernimento diventa più chiaro, e possiamo vedere dove occorre lavorare. Cominciamo a riconoscere quali sono e dove si manifestano i confini pavidi e auto-difensivi del nostro senso del se. Al di là di questi confini, collassiamo, mentre nel mantenerli ci contraiamo. Ma, con le pāramī che stiamo sviluppando, vediamo meglio ciò che ci coinvolge ai margini del nostro senso del sé, e allora troviamo l’energia per lavorare sopratutto su quei punti sensibili.

Estendere la mente in qui luoghi sensibili ci porta nella turbolenza per contenere la quale il confine è stato creato. Cosa vuol dire questo? Che ci sono emozioni ed energie represse, che finché siamo indaffarati o possiamo controllare cosa sta succedendo, giacciono dormienti nel campo della coscienza. Ma quando le cose vanno male, se qualcuno o qualcosa ci punge sul vivo, oppure quando meditiamo – le antiche sensazioni, le cause che hanno instaurato il confine (il subire intrusioni, essere tiranneggiati o respinti) possono riattivarsi. Allora ciò che sorge consiste generalmente in forme di paura, afflizione o rabbia. Ognuno ha le sue versioni personali di queste storie, ma questa è la turbolenza che fa ribollire il desiderio e la depressione, l’ansia e il risentimento. E’ proprio questo il momento in cui generare in primis la pazienza, poi la sincerità, oltre alla gentilezza. Manteniamo il centro, ammorbidiamo, ampliamo, includiamo tutto. Il sostenere queste intenzioni, non importa cosa si presenti, conduce al superamento.

La pazienza è essenziale, perché a volte bisogna trascorrere molto tempo rimanendo ai margini prima che le cose si muovano. La sincerità è necessaria per riconoscere che: “Questa turbolenza, questo senso di intimidazione, non è me (Io). In realtà è quella che è, è una formazione mentale; piuttosto è come ne sono coinvolto, e come reagisco a causare la sofferenza”. È così: spesso nella nostra vita ci imbattiamo negli stessi scenari emozionali e nelle stesse esperienze dolorose, che ci vengono “rovesciate addosso” – solo con personaggi diversi che scaricano il pattume su di noi o ci irritano. Dapprima supponiamo: ‘È lui o lei’. Poi possiamo pensare: ‘Sono io, è la mia debolezza’. Ma è veramente così? Possiamo trascorrere anni attribuendo responsabilità ovunque, lungo il confine tra il sé e l’altro, ma questo non elimina il dolore. Abbiamo bisogno dell’impegno per starci insieme (all’emozione disturbante), per cogliere la verità dietro il punto di vista del sé. Quando lasciamo andare tutte le discriminazioni e le posizioni, la nostra mente si espande per includere tutto. È qui che si scioglie la tendenza latente che mantiene il confine tra il sé e l’altro.

Il grande Cuore

Nella pratica del Dhamma, sosteniamo e approfondiamo l’intento della gentilezza, indipendentemente dalle varie identità e forme d’ombra che sorgono nella consapevolezza. Stabiliamo una chiara comprensione e sosteniamo la gentilezza nel momento in cui compaiono impressioni e sorgono reazioni. Non si tratta di evocare una forte emozione di affetto, la pratica della gentilezza è un processo in cui si rimane in contatto con se stessi o con gli altri, non si incolpa nessuno e non si torna al passato per rimasticare vecchi problemi. Il “restare in” quel punto della ferita, dell’avversione e del dolore comincia quindi a portare la consapevolezza verso la compassione (karuṇā) e la saggezza trans-personale.

Riflettiamo sull’impotenza della nostra sofferenza: quando la sperimentiamo senza condanna, difesa o lotta, sorge la compassione. Essa nasce indipendentemente dall’identità o dal valore di chi è ferito; sa quanto è terribile per chiunque (anche per uno sterminatore di folle, un tiranno, o un serpente velenoso) essere intrappolato nel dolore. Il processo “curativo” di metta sorge spontaneamente ed origina dallo spazzare via i giudizi sugli altri o su noi stessi. Con la compassione non si tratta di fare alcunché, incolpare qualcuno, intristirsi o desiderare che qualcosa sia diverso. Si tratta di entrare in un luogo dove si tocca il dolore direttamente. Allora, rimanendo con la ferita dove la mente non può fare nulla, non ha rimedi, idee o filosofie, si esce dalla posizione dell’“io”. Lo stato mentale circoscritto (dai confini) esce dal senso del sé e si apre al grande Cuore.

Il non-fare di un tale cuore ha effetti potenti. Invece di cercare di evocare la guarigione (e sentirsi frustrati se “Non funziona” o “Non sono in grado”), lascia che essa avvenga da sola. Allora si ha un senso di grazia, di ricevere una compassione più grande e senza confini rispetto alle proprie qualità o sforzi personali. Questa è giustamente chiamata “dimora divina” (o “sublime”). E con la contemplazione della natura priva di sé di questa dimora, la mente lascia andare – non solo l’avversione, ma anche la spinta al divenire e al punto di vista del sé. Questa è la riva dell’Oltre.

Suggerimenti sulla gentilezza

La gentilezza come pratica del Dhamma è l’abilità di estendere la benevolenza, in modo che il cuore non sia sotto il potere dell’avversione. Sembra facile? Se intrapresa in modo approfondito, essa libera la mente dal crampo e dall’oscurità dell’avversione, dello scoraggiamento e del cinismo. Il Buddha raccomanda l’uso della mettā per liberare la mente dal rimpianto e dal rimorso che sono il risultato di azioni non salutari. Qui si è incoraggiati a irradiare la mettā verso se stessi (o chi si era all’epoca di quelle azioni) e a tutti coloro che ne sono stati colpiti e coinvolti.

Il Buddha afferma chiaramente che si dovrebbe mantenere questo stato mentale anche in presenza di ciò si considera ripugnante, al punto che si dovrebbe mettere la mente alla prova, contemplando gli aspetti non attraenti di ciò che normalmente si percepisce come attraente (per esempio le viscere e i rifiuti organici non attraenti di un corpo umano attraente) – e tuttavia non essere mossi dall’avversione. Le altre permute mostrano l’accuratezza dell’allenamento. Pertanto, più che essere una forma di cortesia in società, questo tipo di benevolenza richiede la forza e la chiarezza dei fattori di Illuminazione per impedire alla mente di deviare lungo la traccia abituale di ciò che le piace e non le piace.

Riflessione

Prendete in considerazione qualsiasi azione di benevolenza di cui siate stati testimoni oggi. Fate altrettanto con azioni simili avvenute in passato. Poi fate lo stesso con tutte le azioni di generosità, lealtà, aiuto, cura, assistenza o perdono, che sapete siano state compiute tra altre persone. Soffermatevi su tali riflessioni abbastanza a lungo per rendere stabile l’emozione e l’atteggiamento della gentilezza.

Azione

  • Riducete il linguaggio critico sugli altri a poche parole offerte con parsimonia, semplicemente come un parere, se sembra necessario avvertire qualcuno delle tendenze di una certa persona.
  • Fate riferimento alle evidenti debolezze altrui come fasi di malattia o di afflizione che esse devono sopportare, come per esempio: “A volte egli è preso dalla tendenza a dominare gli altri”.
  • Notate le situazioni in cui altre persone vi irritano (forse lavorano a una velocità diversa dalla vostra o con meno competenza).
  • Notate quando vi capita di essere irritati in certe situazioni, per esempio rumorose o affollate. Cercate di utilizzare tali scenari come occasioni per praticare la mettā.
  • Rimanete attenti e saldi nella consapevolezza del corpo, in particolare delle piante dei piedi, del petto e dei palmi delle mani;
  • ampliate la vostra consapevolezza fino a includere aspetti della situazione in cui vi trovate e riconoscete qualsiasi tensione in quelle parti del corpo e qualsiasi resistenza mentale.
  • Trovate il limite fino al quale potete spingervi, cioè la quantità di fenomeni irritanti di cui potete essere consapevoli in un modo non difensivo e non reattivo.
  • Rimanete lì, senza lasciare che i vostri pensieri, parole o azioni vi distraggano dal mantenere quel luogo in cui dimorare.
  • Nel frattempo, estendete un cuore caldo prima a voi stessi e poi a tutti quelli che vi circondano.
  • Rilevate gli aspetti di voi stessi che vi rendono autocritici. Praticate in modo simile all’esempio precedente, estendendo una consapevolezza che può essere presente a quegli aspetti senza agitazione o costrizione.
  • Notate i confini che la vostra mente stabilisce per porre voi stessi o gli altri in categorie come “amico”, “nemico”, “insignificante”, “persona importante”, “idiota”, “genio” ecc. Poi, senza sminuire l’importanza delle percezioni, spostate le etichette da una persona all’altra e mantenete la volontà di accettare ognuna di loro così com’è.

Meditazione

Cominciate con alcuni minuti della riflessione suddetta, poi proseguite iniziando dalle persone che vi sono care:

  • estendendo la consapevolezza dentro al modo in cui il vostro corpo si sente con l’esperienza della benevolenza e stabilitevi là.
  • Cogliete la sensazione di augurare ogni bene al vostro corpo.
  • Muovete quel senso di calore lungo il corpo, comprese le zone che non stanno bene, quelle neutre e anche quelle vigorose.
  • Poiché gran parte della nostra autocoscienza aleggia intorno al viso, è particolarmente utile immaginare questa parte del vostro corpo vista con gli occhi della benevolenza.
  • Portate la vostra attenzione sulla superficie del corpo, su come percepite la pelle. Siatene consapevoli come se fosse un lenzuolo o una coperta che racchiude la vostra persona, fino a quando non avvertite una buona connessione e una vitalità che vi si raccoglie. Questo è il vostro campo di benevolenza.
  • Lasciate che si riempia della sensazione benevola sopra descritta. Questo potrebbe richiedere un po’ di tempo.
  • Quando siete pronti, immaginate che qualcuno a cui siete affezionati o che rispettate si sposti in quello spazio esteso. Notate se l’energia cambia e rimanete connessi alla vostra presenza corporea.
  • Mantenete il senso di un campo non costretto che contiene il vostro corpo, e gradualmente lasciate che l’altra persona vi entri, senza che voi vi protendiate o vi sentiate impacciati. Quando pervenite a un limite, restate lì.
  • Poi immaginate che l’altro si allontani mentre voi mantenete lo stesso stato mentale ed energetico.

Successivamente, fate questa pratica con le persone verso le quali avete un sentimento neutro e con chi avete difficoltà. Tuttavia, non lasciate che vengano più vicino o più a lungo di quanto il vostro campo di benevolenza possa sopportare!