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Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La gentilezza olistica (cap. 9)

Il termine olistico deriva da olismo, che è una posizione teorica matematica secondo la quale le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue singole componenti, poiché la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. In questo contesto che cosa vogliamo dire? Quando tutti e tre i tipi di gentilezza inter-agiscono tra di loro, contemporaneamente e sostenendosi reciprocamente, il risultato è la gentilezza olistica, che è maggiore del risultato delle tre prese singolarmente e poi sommate.

Chi non è commosso dall’intenzione di “pervadere il mondo intero, gli altri e me stesso, con una mente imbevuta di una gentilezza copiosa, sublime, senza confini e libera dall’odio e dall’avversione”? L’ideale della gentilezza o benevolenza, chiamata mettā nella tradizione buddhista, è espresso in questa frase, ed è condiviso da tutti i percorsi spirituali. La gentilezza costituisce una parte essenziale della spiritualità e della vera umanità.

Tutti noi possiamo sperimentare la benevolenza verso alcuni esseri in determinate circostanze, e ciascuno di noi è stato in alcune occasioni il destinatario di una benevolenza donata liberamente. È una delle riflessioni, o delle “meditazioni da cinque minuti”, che si possono utilmente effettuare nel corso di tutta la giornata. Si compie richiamando alla mente specifici atti di gentilezza compiuti e ricevuti nella giornata, e dimorando nella loro risonanza emotiva.

Quando ci sentiamo amareggiati, ansiosi o soli ricordiamo: talvolta siamo stati visti con un occhio amorevole e simpatetico. Inoltre rammentiamo: per quanto pensiamo di essere ignobili, noi sperimentiamo benevolenza verso qualcosa. Tutti lo fanno, tuttavia, alla maggior parte degli esseri accade che questo canale di benevolenza di tanto in tanto sia bloccato da un flutto di avversione. Perciò abbiamo bisogno di un mezzo per portare il cuore oltre i flutti che sommergono il nostro sentimento di solidarietà. Il mezzo è formulare un impegno di gentilezza, sempre (verso chiunque e in ogni istante); non solo in una bella giornata, verso dei teneri gattini, ma anche in una giornata grigia e piovosa, verso degli scarafaggi. E quando riusciremo ad includere anche i dittatori e i maniaci, come pure ogni aspetto di noi stessi, allora trasformiamo la mettā in una perfezione, un modo di vivere spazioso che nobilita. Il risultato è una mente che ha le radici nella saggezza e nella compassione.

Ciò che è più importante è l’ampiezza del raggio di azione piuttosto che l’intensità dell’affetto. Così, se includiamo tutti gli esseri per tutto il tempo, riconosceremo che il non permettere alla mente di volgersi all’odio e all’avversione è il livello cui aspirare (e questo è certamente uno standard molto elevato). Quanto è cruciale il suo orientamento! Da una parte, la mente può essere intrappolata dalla paura, dall’avidità, odio e illusione; dall’altra, può estendersi nella generosità e nelle altre perfezioni.

La mente del sé e dell’altro, la dualità

Per la mente, la cosa più importante è la relazione che stabilisce con quanto avviene. La relazione è fondamentale, perché noi non siamo mai realmente esseri indipendenti, ma sempre “esseri con” o “esseri in”. La coscienza si limita a essere questa consapevolezza di “essere con” nei vari campi del vedere, udire, gustare, odorare, toccare e pensare. E in questo processo di “essere con”, la coscienza stabilisce automaticamente il senso di un soggetto e di un oggetto. Da questa dualità sorge il senso del sé e dell’altro. Questo è il modo in cui la coscienza è programmata. Notiamo che il sé e l’altro sono posizioni relative dipendenti l’una dall’altra. Non possiamo avere un’esperienza del sé senza un altro (animato o inanimato) che gli sia contrapposto.

Nella nostra mente il sé appare in due modi: 1) il sé come soggetto che osserva e l’altro (l’oggetto) come pensieri ed emozioni; 2) il sé come noi concepiamo noi stessi e l’altro come ciò che pensiamo dovremmo essere, o potremmo essere o eravamo. Questo è il punto di vista del sé: si basa sul presupposto che queste polarità sorte in maniera dipendente siano effettivamente separate e autonome. Esso inferisce un sé, malgrado l’incapacità di tale sé di possedere (o controllare) il corpo o la mente; lo presuppone a dispetto della sua incapacità di sussistere quando non è “innescato” da oggetti cognitivi o attività significative, ognuno dei quali è esterno al suo dominio.

Il punto di vista del sé è cieco alla inter-dipendenza. Questa ignoranza ci trascina in una sensazione di separazione che causa il nostro senso di insoddisfazione. Questa sensazione non è attribuita tanto alla disconnessione tra il sé e l’altro, ma quanto all’ignoranza di credere che c’è qualcosa di sbagliato nell’altro oppure nel divenire(il divenire della mente con cui dovremo avere a che fare). Così noi selezioniamo l’uno, l’altro (o entrambi) e li consideriamo i veri colpevoli della nostra insoddisfazione, instaurando nel contempo una avversione per la linea di demarcazione tra il sé e l’altro (perché crediamo che al di là della linea ci sia il colpevole). Ad esempio possiamo dire: “Dovrei essere così”, “Io sono quello che deve farlo”, “Ho bisogno di aiutare gli altri a essere maggiormente come dovrebbero essere”. In ciascuno di questi casi, la relazione è caratterizzata da un senso di inadeguatezza di se stessi o degli altri. Il flutto del divenire rende questi presupposti ragionevoli: è ovvio che devo migliorare! Ed è ovvio che voi e il mondo potete migliorare! Quando il presupposto di aver bisogno di divenire qualcos’altro precede i nostri atteggiamenti, e ne costituisce la configurazione fondamentale che dobbiamo a tutti costi raggiungere e senza la quale crediamo di non potere essere felici, non c’è gioia. Del resto, in un mondo di esseri umani imperfetti, dov’è la base della benevolenza? Dov’è la risorsa e la pāramī che può rendere il mondo un posto migliore? Ecco l’origine della nostra insoddisfazione.

Accettare l’alterità

Alterità, come sinonimo di diversità, indica la differenza tra due entità. Derivato dal latino alter, diverso, il termine in ambito filosofico significa l’opposto di identità.

Nella pratica della gentilezza, noi osserviamo quello che succede nella mente mentre sta accadendo qualcosa, con l’intenzione di renderla docile senza farci prendere dalla morsa dell’avversione, della depressione e dell’ansia. Anche se il senso di un sé separato da altro (la dualità) sorge di default, noi possiamo avere voce in capitolo in merito a quale tipo di energia emozionale sviluppare e che andrà a costituire la formazione mentale. Il senso del sé separato da altro, nell’ambito della pratica della gentilezza in un certo senso, può catalizzare l’intenzione di offrire sostegno all’altro (un sé che è gentile con altro) e dargli un’occasione. Quindi non c’è bisogno che la nostra intenzione sia tesa, inadeguata e critica; può essere elevata e spaziosa. Questa intenzione è essenziale per una vita felice, perché, se non usiamo l’esperienza relazionale in modo gentile e generoso, allora l’atteggiamento difensivo, l’ansia, la tendenza al biasimo e l’animosità assilleranno la nostra vita e danneggeranno la vita degli altri.

La mettā è non-avversione, ma è anche non-seduzione e non-proiezione. Libera gli altri dall’essere gli oggetti delle nostre proiezioni, lussuria e idealismo. Ci aiuta a comprendere che gli altri non necessariamente devono essere nel modo in cui noi vogliamo che essi siano. Il vero amore per qualcuno significa che non ce ne appropriamo o proiettiamo su di lei o lui i nostri desideri o bisogni inappagati. La mettā significa invece riconoscerne l’alterità (diversità) e sentire che va bene così. Noi non dobbiamo rendere le persone uguali a noi, sentire che è necessario conquistarli, o che dovrebbero soddisfare la nostra fame emozionale: quando la mettā è pienamente sviluppata, può permetterci di stare serenamente con ciò che è diverso non permettendo che pensieri come irritante, ingiusto e caotico, abbiano presa su di noi.

Lo stesso vale anche per noi: quando manteniamo la mente in uno stato di benevolenza, non ci sentiamo intimoriti e obbligati a dare prova del nostro valore. Siamo tutti stati piccoli, deboli e stupidi. Siamo tutti stati bambini totalmente irresponsabili e adolescenti goffi; abbiamo fatto pasticci, mentito, ingannato e forse persino ucciso. Eppure siamo cambiati. Erano forze che avevano invaso la nostra mente. Ora non neghiamo di aver permesso che la mente si coinvolgesse in queste cose, ma la nostra responsabilità attuale riguarda il coltivare la virtù, il discernimento e la gentilezza, anziché essere ossessionati e portare il fardello della colpa e del diniego. E uno dei principali strumenti di guarigione per questo processo è la mettā Cerchiamo di essere gentili con noi stessi. Possiamo accettare la presenza della grettezza, della colpa e dell’ansia come visitatori condizionati nella mente, e lavorare con esse. Allora non c’è più niente da cui nascondersi o essere intimoriti. Questo è un approccio più utile dell’attraversare un’altra fase di angoscia, odio per se stessi e diffidenza. Placando queste reazioni, la mettā ci lascia penetrare nella causa principale dell’avversione che crea i nostri complessi e la elimina.

Cominciare con l’empatia

L’essenza dell’avversione consiste nell’essere incapaci di provare empatia e benevolenza. Questa mancanza di empatia impregna la coscienza ed è la fonte di molti problemi. A volte siamo accecati dalla pulsione istintiva, la quale presuppone che l’avidità e l’ambizione siano la via alla felicità; altre siamo guidati dalla spinta egoistica del divenire, che ci richiede di essere migliori, più attraenti o più affermati degli altri; altre ancora sentiamo avversione a causa di una differenza di opinioni e punti di vista. Quanto va riconosciuto è che questa è solo la mente che agisce secondo il condizionamento di base del punto di vista del sé.

Nota personalizzata: la verità è che non c’è niente di permanente (sopratutto il sé) e tutto è in continuo cambiamento, quindi anche la mente non è sempre la stessa e non agisce sempre allo stesso modo. Non è chi siamo o chi è l’altro, non è che una volta che ci siamo fatti l’idea di qualcuno (o di qualcosa o di noi stessi) questo debba rimanere sempre lo stesso. E’ quello che sorge nella mente in quella occasione, sulla base dell’espressione di un opinione frutto di una serie di condizionamenti (passati e presenti, esterni o interni, sia a noi che agli altri) che si generano i diversi tipi di reazioni o di risposte, aggressive, difensive, riflessive, desiderose, premurose, inquiete…

Se riusciamo a considerare questa mente così com’è realmente, diventiamo compassionevoli. La mente della gente è condizionata e plasmata dalle circostanze, ed alcune persone potrebbero non sapere gran che sulla gentilezza, semplicemente perché non ne hanno ricevuta molta o perché sono state loro dette o fatte cose offensive e ingiuriose. Di conseguenza, le loro menti possono avere aromi acidi, che si attaccano al loro senso del sé e degli altri, e generano risposte di avversione o diffidenti. Queste persone hanno un senso relazionale distorto in cui il piacere e la sicurezza personale derivano dal sentirsi migliori degli altri, anche mediante il prenderli in giro o farli diventare capri espiatori. Si crea una barriera che blocca l’empatia e che non provoca neppure malessere: ottenere più degli altri, mortificarli o vendicarsi dà la stessa dolce botta della droga. Questo è il motivo per cui prende il sopravvento.

Per esempio, alcuni anni fa, un mio amico monaco guidò il suo furgone per le consegne fino a una stazione di rifornimento. L’uomo che gestiva le pompe si sporse nel furgone e notò la foto di un monaco buddista attaccata al cruscotto. Cominciò a ridere e chiese perché il mio amico avesse messo sul cruscotto un personaggio così strambo. Il mio amico fu preso alla sprovvista nell’essere deriso, ma si mantenne calmo e spiegò al giovane bullo che, prima di diventare monaco si era sentito depresso perché la vita gli era sembrata senza senso e a volte aveva persino voglia di farla finita. L’altro, sempre ridendo lo interruppe, dicendo: “Vuoi dire che anche tu ti senti così?!”. Ecco. Qualcuno parla di sofferenza, e la nota di empatia colpisce nel segno. All’improvviso il conflitto quando il mio amico disse: “Eh si… tu sei così diverso da me…”. Il benzinaio crollò e si allontanò con aria pensierosa. Nessuno ha cambiato nulla tranne lo schieramento sé-altro, in quel momento di empatia c’è una sensazione in comune. La via d’uscita dall’avversione non passa per il giudizio su chi ha ragione, ma attraverso il reperimento di una base comune. La gentilezza o non-avversione comincia con l’empatia, con il senso che siamo tutti insieme nello stesso oceano di sofferenze, in lotta con i flutti.

Ammorbidire i giudizi comparativi

Tutti gli esseri ricercano il proprio bene. La sofferenza e l’urgenza di liberarcene sono la nostra comune preoccupazione, perciò sicuramente possiamo accordarci per sostenerci l’un l’altro. Eppure spesso ci focalizziamo su come dividerci. Questa focalizzazione porta ancora più sofferenza, in termini di giudizi comparativi che provocano competizione e conflitto. Per contro, quando c’è l’empatia – anche nei momenti in cui sperimentiamo il lutto, il dolore e la paura – la sofferenza diminuisce. Non c’è nulla quanto una lotta
condivisa che favorisca la fiducia, la forza e il sollievo
. Quando, per qualcosa di importante, il confine della preoccupazione si allarga per includere gli altri – anche coloro con cui siamo in conflitto – la sofferenza cessa.

Pertanto c’è un’importante saggezza pratica nel comprendere come la mente crei confini di sollecitudine e interesse, e come noi possiamo lavorare con essi. È ovvio che esistano dei confini: ci sono altri esseri sulla
terra, ma ciò che conta è come questi confini siano mantenuti, aperti e chiusi
. Quando consideriamo l’alterità – il modo in cui gli esseri sono diversi da noi – possiamo percepire l’insicurezza: “Come può lei paragonarsi a me?”; o il disprezzo: “Non sei buono quanto me”; oppure la paura e l’intimidazione: “Tu sei migliore o più forte di me”. O ancora, possiamo sentire adorazione/attrazione: “Voglio legarmi a te”. Questi presupposti immediati sono chiamati “giudizi”: noi concepiamo le persone come peggiori, migliori o uguali a noi. L’effetto è che la sensibilità della mente si blocca. Catturato dal giudizio del punto di vista del sé, il cuore non estende i suoi confini di apprezzamento e sollecitudine; il giudizio congela la nostra sensibilità. In questo stato, il cuore si lascia facilmente andare alle lamentele: gli altri non sono come “dovrebbero essere” (o meglio come io voglio che siano), e così il cuore diventa un terreno fertile per l’avversione.

Riflettiamoci: se pensiamo che gli altri siano uguali a noi, ci sentiamo confusi e frustrati quando la loro opinione è diversa dalla nostra. E prima o poi succede, non è vero? Perciò c’è un conflitto non solo quando riteniamo che gli altri siano diversi da noi, ma anche quando pensiamo che siano uguali. Cercare di rendere gli altri cloni di noi stessi ci rende intolleranti. Oppure facciamo pressioni sugli altri affinché abbiano i nostri stessi punti di vista; e questa è una tirannia conformista. All’opposto il riconoscimento e l’accettare le differenze è un dimorare armonioso. L’unica via d’uscita è la mettā: ampliare il confine della solidarietà per includere tutti. Ovviamente, anche quelli con cui siamo a disagio.

Per esempio, dato che un monastero buddhista è un sistema aperto, vengono molti visitatori e non tutti sono equilibrati. Alcuni anni fa, un uomo che chiamerò Dennis era solito frequentare il nostro monastero in cerca di compagnia, ma in generale si rendeva fastidioso finché non partiva, prendendo tutti a male parole – fino all’occasione successiva. Così, quando un giorno si presentò nella sala delle riunioni, ci furono alcuni mormorii inudibili; allorché cominciò ad agitare le braccia e a chiedere attenzione, la maggior parte delle persone se ne andò. Uno dei monaci rimase fermo e informò Dennis che il suo comportamento era inappropriato per un monastero – il che irritò Dennis ancor di più. Osservai quest’uomo e la lente della mia mente sembrò ampliarsi. ‘Poveretto’, pensai, ‘deve infastidire così tanta gente. Eppure ovviamente viene al monastero per stare in compagnia’. Così mi ritrovai ad andare verso di lui, a chiamarlo gentilmente per nome, a prenderlo per un braccio e a camminare per la sala con lui, parlandogli mentre lo facevo. Non avevo aspettative; era solo una reazione, ma l’effetto mi sorprese. La sua natura selvaggia si calmò, come pure la sua tensione corporea. Mentre gli dicevo che non era una persona cattiva, ma che il suo comportamento spaventava la gente, si fermò. Gli misi un braccio intorno alle spalle, e lui scivolò silenziosamente lungo il muro per sedersi sul pavimento. In pochi istanti si aggomitolò e si addormentò come un bambino. Lo coprii con una coperta. Dopo un breve pisolino, si svegliò calmo e coerente, rimase per un tè e poi andò a casa. Aveva ottenuto ciò per cui era venuto in tutti quegli anni.

Coltivare una mente illimitata

Chi è più importante? Chi riceve la prima fetta di gentilezza? Io o tu? Be’, è una domanda a trabocchetto, perché la pratica è olistica: è verso gli altri come verso noi stessi. Il modo in cui funziona è guardare dove la coltivazione può avvenire e ampliare la mettā da quel punto. Continuiamo a espandere e ad approfondire la sfera della gentilezza in tutte le direzioni.

Ci sono alcuni atteggiamenti che possono essere scambiati per gentilezza perché hanno alcune similitudini sia per come vengono messe in atto che per i risultati che possono essere ottenuti dalla loro pratica. Ad esempio c’è l’altruismo che è mescolato alla necessità di sentirsi amati e utili agli altri. C’è una specie di “gentilezza missionaria” che impone agli altri il bisogno di trarre beneficio dal nostro amore. Esiste anche “la gentilezza che converte” come quando noi vogliamo per forza convertire gli sgarbati in amorevoli che quindi non consente alla gente di essere così com’è. Come pratica di Dhamma la gentilezza è focalizzata sull’intenzione piuttosto che sul raggiungere un obbiettivo o uno stato particolare. Così non pratichiamo la gentilezza al fine di trasformare gli altri in quelle che, dal nostro punto di vista, sono persone gradevoli (secondo il nostro punto di vista… del sé?). La pratica consiste invece nel coltivare un campo cosciente (che sorge nella nostra consapevolezza di comprendere i diversi aspetti di noi stessi e degli altri ) di gentilezza in cui questi non siano accolti con paura o negatività, ma con la benevolenza. che deriva dall’eliminazione dell’avversione e del punto di vista del sé.

Non possiamo limitarci a offrire la gentilezza ad altri senza averla sentita in noi stessi, il che significa che dobbiamo essere gentili con le nostre limitazioni, paure, dubbi e dolori. Perciò è utile controllare se abbiamo mettā per noi stessi, ponendoci alcune domande: 1) Ci sentiamo colpevoli quando commettiamo un errore, allorché ritardiamo, o non siamo all’altezza delle aspettative altrui? 2) Esistono impressioni oscure che si aggirano intorno a noi su cose che abbiamo o non abbiamo fatto? 3) La nostra mente fantasiosa crea forse un’immagine di quanto sia grande qualcun altro e pertanto di quanto noi siamo inferiori? Il punto da cogliere è che, finché noi scegliamo particolari caratteristiche e ci attacchiamo a esse come “sé” o “altro”, “buono” o “cattivo”, non giungeremo mai a una benevolenza olistica. Con il punto di vista del sé, esiste il forte rischio di giudicare qualcuno inferiore e qualcun altro superiore. Dobbiamo collegare la benevolenza all’esperienza di noi stessi con gli altri mentre questa avviene; il che significa capire come noi ci sentiamo verso un’altra persona nel momento presente. Se sentiamo l’incertezza, la paura o l’irritazione, allora portiamo l’intenzione della benevolenza verso queste sensazioni, inoltre rimaniamo aperti a quanto succede a noi stessi e agli altri, senza avere una risposta su chi ha ragione e chi ha torto.

Così, ciò che è necessario fare è andare in profondità nella mente contemplando direttamente ciò che sorge sulla linea di demarcazione tra ciò con cui siamo a nostro agio e ciò con cui non lo siamo; notiamo semplicemente l’aroma della coscienza. È contratta, riluttante, ansiosa, esigente? Ascoltiamo le energie dietro i contenuti che la mente porta in superficie; irritazione, paura, colpa, e così via; ed estendiamo empatia e non-avversione. Si tratta di non combattere, non bloccare, non correre. Mantenendo il nostro centro, possiamo ammorbidire il nervosismo della mente. Possiamo aprirci includendo nella nostra consapevolezza l’esperienza che stiamo facendo: cosa è sorto in noi? E negli altri? Come sono? Come stanno reagendo di fronte alla stessa situazione che stanno vivendo con noi? Questa è la coltivazione della mente illimitata; con il tempo, si amplia fino a includere tutto.

La capacità di costruire

L’abilità nel generare la mettā dipende sia dalla nostra buona volontà che dalla capacità. Coloro che hanno subìto abusi prolungati possono trovare molto difficile sperimentare la gentilezza verso se stessi o gli altri; chi non ha avuto la presenza sicura della benevolenza può essere soggetto all’insicurezza che porta all’attaccamento ai punti di vista e al divenire. È anche possibile che la nostra capacità sia limitata dal modo in cui siamo coinvolti nel presente. Sebbene le condizioni cambino sempre, quando la mente è condizionata dalla paura, la preoccupazione, il senso di colpa e la passione, si fissa facilmente in quegli stati. Se il visitatore è la rabbia, la mente diventa aggressiva e vulcanica. Se è il rimorso o il senso di colpa, la mente diventa un vortice che insegue se stesso e affonda. Abbiamo quindi bisogno di sviluppare punti di forza e abilità per smettere di essere sopraffatti da queste forze che generano fissazioni.

Di qui la necessità di sviluppare le pāramī. La generosità e la moralità sono le basi per la solidarietà. E, con la rinuncia, pratichiamo il lasciare andare il senso di cupidigia e di egoismo, l’atteggiamento dell’“io, io, io”. Anch’esso svolge la funzione di base per la gentilezza. Con la rinuncia, cominciamo a lasciare andare il bisogno di avere successo o una posizione sociale, e riesaminiamo i sostegni che usiamo per sostenere l’immagine di noi stessi e il benessere emozionale (beni materiali, stimoli, lavoro, posizione sociale). Quando cominciamo a lasciare andare alcuni di questi appoggi, notiamo gli spazi vuoti nella mente, dove c’è un vivo bisogno di essere stimolati, e vediamo la conseguente irrequietezza. Questi spazi vuoti indicano i punti del nostro corpo emozionale che dobbiamo cominciare a riempire di contenuti positivi maggiormente rivolti a coltivare il nostro benessere, quello degli altri e del mondo in cui viviamo.

Le prime tre perfezioni, la generosità, la moralità e la rinuncia, rendono il bene possibile, perché quando si è generosi e virtuosi c’è il rispetto per se stessi. A causa di quel buon kamma, abbiamo una luminosità emozionale in cui la mente può estendersi verso gli altri esseri in modo empatico, piuttosto che cercando di afferrare qualcosa. Diventiamo quindi più completi e ricchi dentro noi stessi e possiamo lasciare andare qualche altro sostegno. Quando la paura e il bisogno scompaiono, il discernimento diventa più chiaro, e possiamo vedere dove occorre lavorare. Cominciamo a riconoscere quali sono e dove si manifestano i confini pavidi e auto-difensivi del nostro senso del se. Al di là di questi confini, collassiamo, mentre nel mantenerli ci contraiamo. Ma, con le pāramī che stiamo sviluppando, vediamo meglio ciò che ci coinvolge ai margini del nostro senso del sé, e allora troviamo l’energia per lavorare sopratutto su quei punti sensibili.

Estendere la mente in qui luoghi sensibili ci porta nella turbolenza per contenere la quale il confine è stato creato. Cosa vuol dire questo? Che ci sono emozioni ed energie represse, che finché siamo indaffarati o possiamo controllare cosa sta succedendo, giacciono dormienti nel campo della coscienza. Ma quando le cose vanno male, se qualcuno o qualcosa ci punge sul vivo, oppure quando meditiamo – le antiche sensazioni, le cause che hanno instaurato il confine (il subire intrusioni, essere tiranneggiati o respinti) possono riattivarsi. Allora ciò che sorge consiste generalmente in forme di paura, afflizione o rabbia. Ognuno ha le sue versioni personali di queste storie, ma questa è la turbolenza che fa ribollire il desiderio e la depressione, l’ansia e il risentimento. E’ proprio questo il momento in cui generare in primis la pazienza, poi la sincerità, oltre alla gentilezza. Manteniamo il centro, ammorbidiamo, ampliamo, includiamo tutto. Il sostenere queste intenzioni, non importa cosa si presenti, conduce al superamento.

La pazienza è essenziale, perché a volte bisogna trascorrere molto tempo rimanendo ai margini prima che le cose si muovano. La sincerità è necessaria per riconoscere che: “Questa turbolenza, questo senso di intimidazione, non è me (Io). In realtà è quella che è, è una formazione mentale; piuttosto è come ne sono coinvolto, e come reagisco a causare la sofferenza”. È così: spesso nella nostra vita ci imbattiamo negli stessi scenari emozionali e nelle stesse esperienze dolorose, che ci vengono “rovesciate addosso” – solo con personaggi diversi che scaricano il pattume su di noi o ci irritano. Dapprima supponiamo: ‘È lui o lei’. Poi possiamo pensare: ‘Sono io, è la mia debolezza’. Ma è veramente così? Possiamo trascorrere anni attribuendo responsabilità ovunque, lungo il confine tra il sé e l’altro, ma questo non elimina il dolore. Abbiamo bisogno dell’impegno per starci insieme (all’emozione disturbante), per cogliere la verità dietro il punto di vista del sé. Quando lasciamo andare tutte le discriminazioni e le posizioni, la nostra mente si espande per includere tutto. È qui che si scioglie la tendenza latente che mantiene il confine tra il sé e l’altro.

Il grande Cuore

Nella pratica del Dhamma, sosteniamo e approfondiamo l’intento della gentilezza, indipendentemente dalle varie identità e forme d’ombra che sorgono nella consapevolezza. Stabiliamo una chiara comprensione e sosteniamo la gentilezza nel momento in cui compaiono impressioni e sorgono reazioni. Non si tratta di evocare una forte emozione di affetto, la pratica della gentilezza è un processo in cui si rimane in contatto con se stessi o con gli altri, non si incolpa nessuno e non si torna al passato per rimasticare vecchi problemi. Il “restare in” quel punto della ferita, dell’avversione e del dolore comincia quindi a portare la consapevolezza verso la compassione (karuṇā) e la saggezza trans-personale.

Riflettiamo sull’impotenza della nostra sofferenza: quando la sperimentiamo senza condanna, difesa o lotta, sorge la compassione. Essa nasce indipendentemente dall’identità o dal valore di chi è ferito; sa quanto è terribile per chiunque (anche per uno sterminatore di folle, un tiranno, o un serpente velenoso) essere intrappolato nel dolore. Il processo “curativo” di metta sorge spontaneamente ed origina dallo spazzare via i giudizi sugli altri o su noi stessi. Con la compassione non si tratta di fare alcunché, incolpare qualcuno, intristirsi o desiderare che qualcosa sia diverso. Si tratta di entrare in un luogo dove si tocca il dolore direttamente. Allora, rimanendo con la ferita dove la mente non può fare nulla, non ha rimedi, idee o filosofie, si esce dalla posizione dell’“io”. Lo stato mentale circoscritto (dai confini) esce dal senso del sé e si apre al grande Cuore.

Il non-fare di un tale cuore ha effetti potenti. Invece di cercare di evocare la guarigione (e sentirsi frustrati se “Non funziona” o “Non sono in grado”), lascia che essa avvenga da sola. Allora si ha un senso di grazia, di ricevere una compassione più grande e senza confini rispetto alle proprie qualità o sforzi personali. Questa è giustamente chiamata “dimora divina” (o “sublime”). E con la contemplazione della natura priva di sé di questa dimora, la mente lascia andare – non solo l’avversione, ma anche la spinta al divenire e al punto di vista del sé. Questa è la riva dell’Oltre.

Suggerimenti sulla gentilezza

La gentilezza come pratica del Dhamma è l’abilità di estendere la benevolenza, in modo che il cuore non sia sotto il potere dell’avversione. Sembra facile? Se intrapresa in modo approfondito, essa libera la mente dal crampo e dall’oscurità dell’avversione, dello scoraggiamento e del cinismo. Il Buddha raccomanda l’uso della mettā per liberare la mente dal rimpianto e dal rimorso che sono il risultato di azioni non salutari. Qui si è incoraggiati a irradiare la mettā verso se stessi (o chi si era all’epoca di quelle azioni) e a tutti coloro che ne sono stati colpiti e coinvolti.

Il Buddha afferma chiaramente che si dovrebbe mantenere questo stato mentale anche in presenza di ciò si considera ripugnante, al punto che si dovrebbe mettere la mente alla prova, contemplando gli aspetti non attraenti di ciò che normalmente si percepisce come attraente (per esempio le viscere e i rifiuti organici non attraenti di un corpo umano attraente) – e tuttavia non essere mossi dall’avversione. Le altre permute mostrano l’accuratezza dell’allenamento. Pertanto, più che essere una forma di cortesia in società, questo tipo di benevolenza richiede la forza e la chiarezza dei fattori di Illuminazione per impedire alla mente di deviare lungo la traccia abituale di ciò che le piace e non le piace.

Riflessione

Prendete in considerazione qualsiasi azione di benevolenza di cui siate stati testimoni oggi. Fate altrettanto con azioni simili avvenute in passato. Poi fate lo stesso con tutte le azioni di generosità, lealtà, aiuto, cura, assistenza o perdono, che sapete siano state compiute tra altre persone. Soffermatevi su tali riflessioni abbastanza a lungo per rendere stabile l’emozione e l’atteggiamento della gentilezza.

Azione

  • Riducete il linguaggio critico sugli altri a poche parole offerte con parsimonia, semplicemente come un parere, se sembra necessario avvertire qualcuno delle tendenze di una certa persona.
  • Fate riferimento alle evidenti debolezze altrui come fasi di malattia o di afflizione che esse devono sopportare, come per esempio: “A volte egli è preso dalla tendenza a dominare gli altri”.
  • Notate le situazioni in cui altre persone vi irritano (forse lavorano a una velocità diversa dalla vostra o con meno competenza).
  • Notate quando vi capita di essere irritati in certe situazioni, per esempio rumorose o affollate. Cercate di utilizzare tali scenari come occasioni per praticare la mettā.
  • Rimanete attenti e saldi nella consapevolezza del corpo, in particolare delle piante dei piedi, del petto e dei palmi delle mani;
  • ampliate la vostra consapevolezza fino a includere aspetti della situazione in cui vi trovate e riconoscete qualsiasi tensione in quelle parti del corpo e qualsiasi resistenza mentale.
  • Trovate il limite fino al quale potete spingervi, cioè la quantità di fenomeni irritanti di cui potete essere consapevoli in un modo non difensivo e non reattivo.
  • Rimanete lì, senza lasciare che i vostri pensieri, parole o azioni vi distraggano dal mantenere quel luogo in cui dimorare.
  • Nel frattempo, estendete un cuore caldo prima a voi stessi e poi a tutti quelli che vi circondano.
  • Rilevate gli aspetti di voi stessi che vi rendono autocritici. Praticate in modo simile all’esempio precedente, estendendo una consapevolezza che può essere presente a quegli aspetti senza agitazione o costrizione.
  • Notate i confini che la vostra mente stabilisce per porre voi stessi o gli altri in categorie come “amico”, “nemico”, “insignificante”, “persona importante”, “idiota”, “genio” ecc. Poi, senza sminuire l’importanza delle percezioni, spostate le etichette da una persona all’altra e mantenete la volontà di accettare ognuna di loro così com’è.

Meditazione

Cominciate con alcuni minuti della riflessione suddetta, poi proseguite iniziando dalle persone che vi sono care:

  • estendendo la consapevolezza dentro al modo in cui il vostro corpo si sente con l’esperienza della benevolenza e stabilitevi là.
  • Cogliete la sensazione di augurare ogni bene al vostro corpo.
  • Muovete quel senso di calore lungo il corpo, comprese le zone che non stanno bene, quelle neutre e anche quelle vigorose.
  • Poiché gran parte della nostra autocoscienza aleggia intorno al viso, è particolarmente utile immaginare questa parte del vostro corpo vista con gli occhi della benevolenza.
  • Portate la vostra attenzione sulla superficie del corpo, su come percepite la pelle. Siatene consapevoli come se fosse un lenzuolo o una coperta che racchiude la vostra persona, fino a quando non avvertite una buona connessione e una vitalità che vi si raccoglie. Questo è il vostro campo di benevolenza.
  • Lasciate che si riempia della sensazione benevola sopra descritta. Questo potrebbe richiedere un po’ di tempo.
  • Quando siete pronti, immaginate che qualcuno a cui siete affezionati o che rispettate si sposti in quello spazio esteso. Notate se l’energia cambia e rimanete connessi alla vostra presenza corporea.
  • Mantenete il senso di un campo non costretto che contiene il vostro corpo, e gradualmente lasciate che l’altra persona vi entri, senza che voi vi protendiate o vi sentiate impacciati. Quando pervenite a un limite, restate lì.
  • Poi immaginate che l’altro si allontani mentre voi mantenete lo stesso stato mentale ed energetico.

Successivamente, fate questa pratica con le persone verso le quali avete un sentimento neutro e con chi avete difficoltà. Tuttavia, non lasciate che vengano più vicino o più a lungo di quanto il vostro campo di benevolenza possa sopportare!

I 5 fattori mentali onnipresenti

di Lama Michel Rinpoce

https://www.youtube.com/watch?v=s2DotsyxpMg&t=16s

Tutto quello che leggete è quello che penso di avere capito dall’ascolto dell’insegnamento, messo nero su bianco per tornare a riflettere su alcuni punti senza avere il bisogno di ri-ascoltare l’intero video.

Davide

La mente non si spegne mai, ha sempre un oggetto di percezione. La mente collega il mondo esterno con quello interno, percepisce quello che arriva dai 6 sensi: i 5 sensi più la mente (mente di tipo cognitivo: ad esempio un ricordo è un oggetto di percezione cognitivo, non ne entro in contatto ma esiste nella mente).

La percezione diretta riguarda i 5 sensi, è ciò con cui entro in contatto. La cognizione inferenziale è quando credo di percepire l’oggetto ma quello che io percepisco in realtà è l’immagine mentale che io mi sono creato dentro di me. E’ una percezione mentale basata sul ragionamento inferenziale  in cui si arriva a una conclusione sulla base di altri oggetti (se vedo il fumo dietro la montagna so che a valle c’è anche un fuoco. Non vedo il fuoco, ma so che c’è ). Questo va così perché questo è così. Noi normalmente non siamo in grado di discriminare l’immagine mentale dall’oggetto stesso, crediamo che l’oggetto a cui penso sia così ma se poi la mia aspettativa non viene soddisfatta posso rimanerci male oppure piacevolmente sorpreso ( es: se io penso al letto mi immagino il letto ma se quando torno a casa il letto è andato a fuoco e mi si propone un altro letto l’immagine mentale che io mi sono fatto viene a mancare, anche se io comunque sempre in un letto andrò a dormire).

La natura della mente:

Mente primaria è quella parte di mente che percepisce i sensi e che a sua volta è costituita dai fattori mentali; essi sono aspetti della mente che hanno delle particolarità e che tutti insieme vanno a costituire la mente primaria. Un pensiero è sempre suddivisibile in vari aspetti che formano la mente. (per approfondire: insegnamento Buddha abidharma sui 51 fattori mentali).

I fattori mentali sono 51 divisi in 5 fattori mentali onnipresenti, 5 fattori mentali determinanti, 11 fattori mentali positivi,6 fattori mentali negativi radice, 20 fattori mentali negativi secondari e 4 fattori mentali variabili.

Non esiste nessun pensiero che non sia composto almeno dai 5 fattori mentali onnipresenti, poi possono essercene di più ma questi 5 ci sono sempre. I 5 fattori mentali sono: sensazione, discernimento, intenzione, attenzione e contatto. Essi sono sempre simultanei ma tra un pensiero e l’altro si relazionano.

Adesso li presentiamo come se ci fosse una relazione di causa ed effetto temporale tra l’uno e l’altro:

Contatto: è la base di tutto insieme di oggetto di percezione sensoriale + potere sensoriale + coscienza sensoriale. Ad esempio, forma (vista), occhi e parte della mente che li gestisce. Dal contatto nasce la

Sensazione: piacevole, spiacevole, neutra. E’ la base attraverso la quale sperimentiamo il mondo, è la base di giudizio (ad esempio una vacanza è andata bene se ci è piaciuta e non avremo mai voluto che finisse).

Discernimento: quando entro in contatto con qualcosa gli diamo un nome.

Intenzione: cosa voglio fare davanti a quell’oggetto di percezione? È la reazione: attrazione, avversione, indifferenza. È la base di tutte le azioni, è il karma, è il mio direzionarsi davanti ad una percezione, quello che mi spinge verso l’oggetto.

Attenzione: come fare per ottenere quello che voglio. L’intenzione è generica, la attenzione è specifica: dopo che sono entrato in contatto, che ho una sensazione, gli ho dato un nome e ho sviluppato una intenzione la attenzione è trovare il modo con il quale interagire in base ai 4 fattori precedenti.

Tutti i momenti abbiamo questi 5 fattori mentali. I pensieri sono tutti collegati, il pensiero di adesso si collega con quello dopo perciò ad esempio l’intenzione che ho adesso influenzerà la mia intenzione di dopo.

Noi spesso viviamo come se fossimo il risultato del mondo che ci circonda, ad esempio quando sono felice c’è qualcosa intorno a noi che ci fa sentire felice e lo stesso quando qualcuno sta male. Vogliamo sapere perché qualcuno sta male e quello che poi facciamo è cercare la soluzione mettendo a posto il mondo attorno a noi. Cercare di eliminare la sofferenza mettendo a posto il mondo attorno a noi è come tentare di svuotare l’oceano con un bicchiere versandone il contenuto dietro di noi. La realtà non esiste solo fuori, è direttamente collegata alla nostra mente, non possiamo percepire nulla indipendentemente dalla nostra mente. La percezione della realtà è diversa in ogni individuo (o in ogni mente). Un suono percepito non è uguale per tutti, perché sono diversi i fattori mentali. Allora bisogna chiedersi: siamo il risultato del mondo che ci circonda o siamo interdipendenti da quello che ci circonda? Siamo interdipendenti! La realtà esterna non esiste indipendentemente dalla realtà interna in ciascuno di noi. Ognuno di noi percepisce la realtà in modo diverso, ci sono delle minime differenze ma le realtà sono diverse per ciascuno di noi.

La libertà di scegliere la nostra vita:

Dove abbiamo la libertà all’interno dei 5 fattori mentali? Nel reagire, quindi nell’intenzione: anche se qualcosa magari mi piace, posso sempre scegliere se farmi attrarre oppure no. Possiamo direzionare la nostra intenzione, la nostra mente: dopo la direzione che voglio prendere c’è la azione, la parola. Quando siamo davanti ad un oggetto la nostra attitudine è quella di agire in base a come siamo abituati: davanti ad una cosa piacevole il comportamento naturale è sviluppare attaccamento: siccome mi piace ne voglio di più. Se qualcosa per esempio mi piace.Invece potrei provare gratitudine, ri-gioire per le cose belle. Abbiamo la possibilità di direzionare la mente! All’inizio è una cosa che può sembrare molto artificiale ma poi pian piano viene naturale. Quando siamo davanti a una situazione ho un primo impulso ma devo chiedermi se posso agire in modo diverso. Il modo con cui vedo può non essere sbagliato, comunque non è l’unico modo. La domanda non è qual è il modo giusto di vedere ma vedere cosa mi conviene di più. Se vedo una persona violenta posso generare nell’immediato avversione e rabbia, ma se ci penso bene è meglio provare compassione. Dobbiamo creare interdipendenza positiva. Il potere della mia azione dipende dalla mia intenzione, motivazione.

Dove abbiamo la libertà all’interno dei 5 fattori mentali?  Anche nel discernimento! Il potere mentale del discernimento è potere scegliere, quando vediamo che stiamo dando un nome e che ci stiamo relazionando con qualcosa chiediamoci sempre se abbiamo diverse possibilità. Esempio della campana usata come bicchiere: io ho una immagine mentale della campana e vediamo qualcuno che la usa per bere dell’acqua. Noi la vediamo come bicchiere o come campana usata come bicchiere? Pensiamo:  va quello che pirla, usa la campana per bere! Noi la vediamo come campana, perché per noi il nome campana è relativo ad un oggetto con determinate caratteristiche. Ma che cosa fa la differenza tra campana o bicchiere? E’ il nome che io attribuisco! E’ il valore che noi diamo all’oggetto, per esempio potrei benissimo usare la campana come bicchiere, in base al valore che io attribuisco. E’ difficile perchè normalmente non siamo consapevoli di tutto questo.  Dipende tutto dal modo con cui io vado a relazionarmi, interdipendente con la nostra mente. La realtà esiste ma non esiste in maniera indipendente dal modo con cui io stesso la vedo. Che non vuol dire che il modo in cui la vedo sia sbagliato, ma non è l’unico modo giusto, devo vedere quello che mi fa più bene, a me e a chi mi sta intorno. Ecco perché il potere del discernimento è importante: così pian piano vediamo che noi non siamo il risultato del mondo che ci circonda, ma siamo anche noi che interagiamo per creare questo mondo.

Spesso siamo abituati a vivere come le foglie al vento, sono così perché è successo questo, o mi comporto così perché è successo quell’altro, ma in realtà noi possiamo scegliere la nostra vita! Non abbiamo la possibilità di scegliere quello che accade ma abbiamo la libertà del modo in cui vivere quello che accade, la reazione, la direzione da prendere, in questo modo dopo l’intenzione segue la azione e poi sorgeranno i risultati: ecco il senso dello scegliere la nostra vita: se scelgo quello che fa bene a me e agli altri cambio anche la mia vita. Il risultato è una vita migliore. Imparare gradualmente ad agire invece di reagire.

I tempi della comprensione sono diversi dai tempi della realizzazione interiore:  non basta comprendere, bisogna agire: la nostra mente agisce in base all’esperienza, non alla comprensione. Capire che arrabbiarsi fa male non basta: cosa fare dunque? Davanti all’oggetto di rabbia fare lo sforzo di agire in modo diverso. All’inizio farò uno sforzo enorme, ma poi più mi comporto in una maniera che fa bene  a me e agli altri più verrà naturale comportarmi così.

Cercare di capire come quando qualcosa ci appare come permanente e noi ci aggrappiamo ad essa questo ci causi sofferenza. La realtà e gli oggetti sono impermanenti, se mi sforzo di capirlo allora smetto di soffrire e accetto quella cosa. Devo generare la non avversione davanti all’oggetto di rabbia, e non basta capirlo bisogna sentirlo nella esperienza che facciamo. All’inizio la persona violenta mi fa arrabbiare, poi mi diventa indifferente, poi sviluppo compassione e alla fine genero amore.  Il concetto, la comprensione aiuta a indurre un sentimento, ma ciò con cui devo familiarizzare non è il concetto, ma l’esperienza del sentimento, perché la mente agisce in base all’esperienza.

Desiderio e azione 

Sunto della lezione del Lama Palin al Centro studi tibetani Mandala di Milano

Immagine da www.dreamstime.com

  

Il desiderio in sé non genera le tendenze karmiche, ciò che crea Karma è l’attaccamento.

Il Buddismo è basato sul modo di compiere azioni di corpo, parola e mente. La vita è fatta di esperienze che si susseguono una dopo l’altra. Il “sommovimento” è quella agitazione la cui forza spinge l’esecuzione di una azione che noi compiamo nell’atto di vivere una esperienza. Quando l’esperienza è unica si può dire che effettivamente è una esperienza quando si ripete una seconda volta può essere considerata un verifica, quando si ripete continuamente diventa tendenza, che è indisgiungibile dalla agitazione, sommovimento. 

Questa agitazione/sommovimento è quello che si prova appena prima di prendere una scelta che comporta o meno l’esecuzione di un determinato comportamento (azione). Si chiama attaccamento.

Attaccamento è la forza che spinge alla ripetizione di una azione che quindi crea una tendenza. La tendenza è ciò che definiamo Karma.

Le quattro nobili verità vengono così rilette in base a quanto appena detto:

1-nel cuore degli uomini c’è sofferenza

2-la sofferenza è causata dall’attaccamento

3-l’attaccamento può essere eliminato eliminando di conseguenza anche la sofferenza. In questo modo cessa il nostro atteggiamento mentale verso l’esperienza che perde quindi il suo peso determinante.

4-il modo di eliminare l’attaccamento è un comportamento equilibrato (ottuplice sentiero: Retta visione, intenzione (pensiero), parola, azione, sussistenza, sforzo, presenza mentale e concentrazione), una via di mezzo, vivere le esperienze senza attaccamento. E’ vero che ogni azione inizia da un desiderio ma una volta fatta esperienza, se vediamo che essa genera confusione a causa dell’attaccamento causando quindi negatività e sofferenza dovremo essere in grado di eliminarlo. E’ il modo con cui viviamo le esperienze che deve cambiare, non farsi prendere troppo, non fasi influenzare dal giudizio, dalla discriminazione, dall’attaccamento. L’atteggiamento corretto è l’imperturbabilità nei confronti delle cose, stare con le cose senza farsi catturare, senza attaccamento.

Senza equilibrio (mentale) in preda all’agitazione andiamo in confusione e diventiamo preda dell’ignoranza. Ignoranza intesa come non capire la vera natura delle cose e soprattutto di non capire quale azione è dannosa, sia per noi che per gli altri.
Se siamo attaccati agli obbiettivi sperimenteremo sofferenza. Inoltre questa confusione ci porta alla incapacità di affrontare un cambiamento, non siamo in grado di reagire o decidere perché siamo in confusione, non siamo sereni, non abbiamo chiarezza delle idee.
Per liberarsi dall’attaccamento pensiamo all’impermanenza : tutto ciò che nasce muore, niente dura tutto cambia. Liberiamoci dalla tendenza a vedere le cose in termini di orgoglio “IO” o di possesso “MIO”, fattori questi che creano complicazioni. Sviluppare altruismo (amore), compassione, equanimità, gioire per la altrui felicità (sono i quattro pilastri): in queste condizioni l’ego non ha spazio per crescere.
Come abbiamo detto all’inizio la vita è fatta di esperienze che si susseguono una dopo l’altra, senza esperienza non c’è vita, quindi non dobbiamo pensare che per evitare l’attaccamento non dobbiamo fare esperienza; l’importante è viverle senza attaccamento, con atteggiamento equilibrato (giusta misura, moderazione, (in una parola vivere saggiamente). La saggezza la acquisiamo con la esperienza, esperienze cha vanno vissute nella maniera corretta, così come indicato nelle quattro nobili verità.

La pace in Azione – di Tich Nhat Han

Iimagenspirando mi calmo, espirando sorrido.Inspirare e comunicare all’altro essere induce in se stessi e nell’altro immediata felicità.

– inspirare consapevolmente e dire: “cara/caro sono qui per te” (significa che per amare dovete essere presenti).

– inspirare consapevolmente e dire: “cara/caro so che sei qui e sono felice (amare significa riconoscere la presenza dell’altra persona).

Retta visione

Verità convenzionale e verità ultima sono diverse ma non contraddittorie.

La prima è utile da un punto di vista pratico (nome delle cose, il padre è il padre e il sole è il sole, A può essere solo A e non può essere B), ma non è abbastanza e a volte occorre andare a fondo per arrivare alla verità ultima: si pensi al sotto e sopra, se c’è un sotto deve esserci anche un sopra, non si può tenere solo il sotto e buttare via il sopra. Per altri ciò che alcuni intendono come sopra è il sotto, ciò che per me è vicino per altri è lontano, la mia sinistra è la destra di altri, ecc. ecc., insomma è il principio di identità delle cose, di utilità pratica ma comunque non abbastanza.

Ora prendiamo per esempio un fiore: un fiore è un fiore, non è la terra, la pioggia o il sole, ma se si osserva in profondità il fiore si vede che esso esiste ed è fatto da tutti elementi che non sono fiore. Se noi togliamo la terra, il sole o la pioggia, il fiore non esiste. La A è fatta solo di elementi non A (quindi A = B+C+D…).

La prima nobile verità è che c’è la sofferenza (la sofferenza è solo sofferenza non è felicità e viceversa) e la terza nobile verità dice che c’è la cessazione della sofferenza. La seconda nobile verità dice che ci sono le cause della sofferenza e la quarta dice che ci sono le cause della felicità (cammino per). Questa è la maniera convenzionale per la realtà che dice che la sofferenza è diversa dalla felicità e il cammino che porta alla sofferenza è diverso dal cammino che porta alla felicità. Quando osserviamo in profondità vediamo che c’è una connessione in tutto questo e allora le differenze cominciano ad assottigliarsi. La realtà convenzionale è diversa dalla realtà ultima, ma se volete toccare la realtà ultima dovete conoscere la convenzionale. Quando arrivate alla realtà ultima allora vedete come non ci sia più discriminazione tra le quattro nobili verità (se gettate il convenzionale non avete modo di toccare l’ultimo).

Nel suo primo insegnamento il Budda ha illustrato le quattro nobili verità mentre nel sutra del cuore vediamo che egli dice che non c’è sofferenza, non c’è il cammino che porta alla cessazione; c’è contraddizione? Il fatto è le quattro nobili verità sono convenzionali, pratiche ed utili, ma non sono abbastanza. Per le persone abituate alla visione dualistica questa può essere l’unica verità possibile, ma sono come in trappola della loro mente dualistica, dogmatica e non possono arrivare alla verità ultima (felicità/sofferenza, bello/brutto, ecc. ecc.). Ad una tale persona con una mente dualistica può sembrare strano sentirsi dire che non c’è felicità, non c’è sofferenza, non c’è loto, non c’è il fango, ma la verità è che se non c’è il fango non c’è nemmeno il loto, se non c’è sofferenza non può esserci felicità.

Supponiamo che qualcuno con una visione integralista cristiana dica che l’uomo è solo un peccatore, che egli non può salvare se stesso, non importa quello che fa nella sua vita, egli ha bisogno che qualcun’altro lo salvi (Gesù). Se sei intrappolato nella visione dualistica tu vedi te stesso solo come te stesso e gesù solo come gesù. Il mio maestro mi insegnò anni fa come ci si inchina davanti ad un buddha. Mi disse: “Quando vedi un buddha non dovresti immediatamente chinarti ma fare prima una breve meditazione per far si che il tuo inchino abbia effetto per entrare in comunicazione con lui” e mi insegnò alcuni versi per aiutarmi a fare questa meditazione. I versi sono: “Colui che si inchina e colui che riceve l’inchino sono per natura vuoti di esistenza intrinseca. Il buddha è fatto solo di elementi non buddha ed io sono fatto di elementi non me. Caro buddha io so che tu sei fatto di tanti elementi non buddha ed uno di questi elementi sono io e so che quando vedo te io vedo anche me e so anche che quando vedo me stesso vedo anche te”.

Se rimani intrappolato nella visione dualistica e non vedi che il buddha è anche te e tu sei anche il buddha, allora non è possibile alcuna sorta di comunicazione e l’inchino non è significativo. Se non vedi la natura di interessere tra te e il buddha non c’è comunicazione, e allo stesso modo vale con gesù, la distinzione tra peccatore e salvatore va vista secondo la natura dell’interessere. Senza questa visione di comprensione speciale, di comunione, di comunicazione non è possibile non solo comunicare tra te e il buddha o tra te e gesù ma anche tra te e il fiore, le nuvole o l’intero cosmo.

Questo è il motivo per cui i 5 addestramenti alla consapevolezza (*1) che abbiamo presentato ieri è un tipo di etica basato sulla comprensione dell’interessere. Bisogna praticare i 5 addestramenti in un modo non dogmatico. Toccando la natura dei 5 addestramenti tocchiamo la natura dell’interessere e superiamo ogni tipo di discriminazione. La retta visione è la base degli altri insegnamenti del cammino.

Ottuplice sentiero
Prima di tutto abbiamo la retta visione che è la comprensione dell’interessere. La retta visione si ottiene attraverso la pratica di retta consapevolezza e retta concentrazione. Con la comprensione della retta visione otteniamo la compassione che è la capacità di produrre retti pensieri che hanno il potere di guarire così come potremo produrre anche retta azione e retta parola. Dobbiamo addestrare a vedere noi stessi come i pensieri e le azioni che compiamo ogni giorno quindi se per esempio produciamo pensieri di compassione avremo una buona qualità di vita. Questo è possibile solo quando avremo ottenuto una retta visione che è libera da ogni separazione o discriminazione.

Così la comprensione dell’interessere ci aiuta a rimuovere tutti i pensieri di separazione e discriminazione che sono il fondamento della rabbia, gelosia, paura. Tutte i pensieri dovrebbero essere basate sulla retta visione, sulla non discriminazione e sulla non dualità, e lo stesso vale per la retta parola e retta azione perché anche tutto quello che noi facciamo e diciamo ha il potere di guarire noi stessi e la società.

I due elementi mancanti sono il retto sostentamento e retta diligenza. La nostra coscienza è fatta di molti strati, almeno due strati. Sotto c’è la coscienza deposito che è la memoria di tutta la nostra esperienza di vita. Sopra c’è la coscienza mentale. Nella coscienza deposito c’è molta energia, sono presenti tutti i semi dei vari stati d’animo (formazioni mentali) (paura, rabbia, desiderio, illusione, concentrazione, consapevolezza, compassione, ecc). Questi semi possono essere più o meno potenti a seconda del nostro modo di vivere. Ad esempio quando il seme della rabbia dorme noi abbiamo una buona vita, ma quando qualcuno arriva e dicendo o facendo qualcosa tocca questo seme questo può salire di livello, manifestarsi nella coscienza mentale e diventando una formazione mentale, ci sono 51 categorie di formazioni mentali. Ogni volta che una formazione mentale sorge dovremo essere in grado di riconoscerla e dire: ”Buon giorno formazione mentale, mi prenderò cura di te!”. Non dobbiamo sopprimerla se è spiacevole e non dobbiamo attaccarci se è piacevole. Questa è la pratica del riconoscimento e la pratica della diligenza è possibile quando siamo in grado di riconoscere la natura delle numerose formazioni mentali che si manifestano.

Il primo aspetto della pratica della diligenza e di non dare opportunità ai semi negativi dentro di noi di sorgere. Se permettete che vengano innaffiati e arrivino in superficie voi soffrirete, se soffrirete voi farete soffrire anche i vostri vicini, dobbiamo astenerci dal consumare le cose (riviste, film programmi TV, comportamenti) che toccano e annaffiano questi semi negativi. Non dobbiamo vietare ai figli di non fare quello o questo, ma dovremmo spiegare loro che la diligenza è la pratica della felicità. Dobbiamo praticare anche insieme agli altri, alla propria compagna/o. Non annaffiamo i semi negativi, ne quelli nostri ne quelli della altra persona.

Il secondo aspetto è che quando si manifesta un seme negativo bisogna fare del nostro meglio per chiedergli di tornare indietro, non tentare di sopprimere, ma salutarlo e invitarlo a tornare indietro. Se esso rimane in voi a lungo farà molto danno. Se stai con il seme in superficie non sarai una persona piacevole con la quale stare. Più il seme sta in superficie più esso fa le radici anche in profondità. Se hai un partner arrabbiata che magari 10 anni fa non lo era è perché in tutti questi anni sono stati annaffiati i semi negativi, e dovresti comprendere che in qualche modo anche tu hai contribuito a questo. Ecco perché dobbiamo imparare a non annaffiare i semi e invitare il seme a tornare da dove è venuto il più presto possibile. Il Buddha propose di invitare un seme positivo per rimpiazzare quello negativo. Inspirando lasciare il seme della gentilezza amorevole venire in superficie e il seme della rabbia di conseguenza tornerà giù. Fate qualcosa per aiutare l’altro a cambiare il seme quando vedete che è sotto l’effetto di un seme negativo.

Il terzo aspetto è quello di dare le opportunità ai buoni semi di venire in superficie. Non è difficile invitare il seme della consapevolezza, di gioia, di concentrazione di pace a venire in superficie. Invitate le energie positive a sorgere e così potrete guarire voi stessi e il mondo. Invitate anche quello degli altri così se loro sono felici lo sarete anche voi.

Il quarto aspetto è quello di mantenere più a lungo possibile una buona formazione mentale in superficie quando essa si manifesta. Aiutate il partner a fare altrettanto, di qualcosa, fai qualcosa quando vedi che è in difficoltà. Con la pratica della retta diligenza potete trasformare la vostra relazione in brevissimo tempo. E’ facile, è piacevole e ha un grande effetto.

La parola amorevole e l’ascolto profondo

La pratica della retta parola è anche il quarto addestramento alla consapevolezza e va di pari passo alla pratica dell’ascolto profondo. La pratica della parola amorevole aiuta a riconciliare un rapporto in brevissimo tempo (anche 1 ora).

Durante i ritiri all’inizio impariamo a lasciare le tensioni ed entriamo in contatto con gli elementi rinfrescanti e di guarigione in noi e attorno a noi, poi impariamo a guardare la sofferenza dentro di noi e una volta compresa la sofferenza sviluppiamo la compassione verso di noi e cominciamo a soffrire un poco di meno. In questo modo anche quando guarderemo l’altra persona facilmente comprenderemo la sofferenza in essa e potremo provare compassione, e questa è la pratica della prima e seconda nobile verità. Quando vedete la sofferenza dell’altro voi iniziate a non soffrire più perché avendo sviluppato la compassione amorevole, non lo criticate più, non lo giudicate, non lo odiate più, non avete desiderio di punirlo ma solo di fare qualcosa o dire qualcosa per aiutarla a soffrire di meno e questo significa appunto che la compassione è nata nel vostro cuore. A qual punto potete praticare l’ascolto profondo e la parola amorevole. Poi, sempre durante il ritiro dopo avere praticato un po’ si inizia la riconciliazione e si applica la parola amorevole di cui questo è un esempio “Caro/a so che hai sofferto molto negli ultimi tempi, non sono stato in grado di aiutarti a soffrire di meno, al contrario ho agito e reagito in modo tale da fari soffrire di più. Non avevo mai avuto intenzione di farti soffrire, è solo che non ho capito la tua sofferenza per cui se tu non mi aiuti a comprendere e a condividere con me la tua sofferenza, chi mi aiuta?”. A questo punto praticate l’ascolto amorevole (compassionevole) è la pratica che da a chi parla l’opportunità di svuotare il cuore. Mentre ascoltate inspirate ed espirate consapevolmente e ascoltate la persona mantenendo ferma la compassione, con l’unico scopo di farla soffrire di meno. Se avete ferma la compassione qualsiasi cosa che l’altro potrebbe dire non vi ferirà e non vi toccherà perché appunto sarete protetti dalla compassione. Mentre la persona si svuota ci sarà rabbia, irritazione critica verso di voi, ma anche errate visione. Non dovete interrompere mai la persona altrimenti irritate di più l’altra persona, ricordare che voi avete il solo scopo di ascoltare per farla soffrire di meno. Magari qualche giorno dopo potete tentare di correggere qualche sua percezione, ma non in quel momento! Questa è una pratica benefica e porta guarigione.

Il miracolo della riconciliazione accade sempre nei nostri ritiri e voi avete la compassione allo stesso modo di Avalokitesvara, voi siete Avalokitesvara, il Buddha della compassione. E non hai bisogno di essere buddhista per fare questo. Nei nostri ritiri la maggior parte delle persone non sono buddiste.
Note: 

(*1) La base degli addestramenti è la presenza mentale. Essi proteggono la nostra libertà e rendono bella la vita. Usati come linee guida per la nostra vita quotidiana sono la base per la felicità di individui, coppie, famiglie e società.
Il Primo Addestramento alla Consapevolezza: Rispetto per la Vita
Consapevole della sofferenza causata dalla distruzione della vita, mi impegno a coltivare la visione profonda dell’interessere e la compassione e a imparare modi di proteggere la vita di persone, animali, piante e minerali. Sono determinato(a) a non uccidere, a non lasciare che altri uccidano e a non dare il mio sostegno ad alcun atto di uccisione nel mondo, nei miei pensieri o nel mio modo di vivere. Riconoscendo che le azioni dannose nascono dalla rabbia, dalla paura, dall’avidità e dall’intolleranza, le quali a loro volta derivano da un modo di pensare dualistico e discriminante, coltiverò l’apertura, la non discriminazione e il non attaccamento alle opinioni per trasformare la violenza, il fanatismo e il dogmatismo in me stesso(a) e nel mondo.

Il Secondo Addestramento alla Consapevolezza: Vera Felicità
Consapevole della sofferenza causata dallo sfruttamento, dall’ingiustizia sociale, dal furto e dall’oppressione, mi impegno a praticare la generosità nel mio modo di pensare, di parlare e di agire. Sono determinato(a) a non rubare e a non appropriarmi di nulla che possa appartenere ad altri; condividerò tempo, energia e risorse materiali con chi è in stato di bisogno. Praticherò l’osservazione profonda per riconoscere che la felicità e la sofferenza degli altri non sono separate dalla mia stessa felicità e sofferenza; che è impossibile essere davvero felici senza comprensione e compassione e che rincorrere ricchezza, fama, potere e piaceri dei sensi può portare molta sofferenza e disperazione. Sono consapevole che la felicità dipende dal mio atteggiamento mentale e non da condizioni esterne; so che per vivere felicemente nel momento presente mi basta ricordare di avere già condizioni più che sufficienti per essere felice. Mi impegno a praticare il Retto Sostentamento per contribuire a ridurre la sofferenza degli esseri viventi sulla Terra e a invertire il processo di riscaldamento globale del pianeta.

Il Terzo Addestramento alla Consapevolezza: Vero Amore
Consapevole della sofferenza causata da una condotta sessuale scorretta, mi impegno a coltivare in me il senso di responsabilità e a imparare modi di proteggere la sicurezza e l’integrità di individui, coppie, famiglie e società. Sapendo che il desiderio sessuale non è amore e che l’attività sessuale motivata dalla brama è sempre dannosa per me stesso(a) e per gli altri, sono determinato(a) a non intraprendere relazioni sessuali prive di vero amore e di un impegno profondo e duraturo di cui renderò partecipi la mia famiglia e gli amici. Farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere i bambini dagli abusi sessuali e per prevenire la rottura di coppie e famiglie a seguito di un comportamento sessuale scorretto. 
Riconoscendo che corpo e mente sono una cosa sola, mi impegno a imparare modi appropriati di prendermi cura della mia energia sessuale e a coltivare la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia e l’inclusività – i quattro elementi fondamentali del vero amore – per la maggiore felicità mia e degli altri. Sappiamo che se pratichiamo il vero amore la nostra esistenza avrà una meravigliosa continuazione nel futuro.

Il Quarto Addestramento alla Consapevolezza: Parola amorevole e ascolto profondo
Consapevole della sofferenza causata dal parlare senza attenzione e dall’incapacità di ascoltare gli altri, mi impegno a coltivare la parola amorevole e l’ascolto compassionevole allo scopo di alleviare la sofferenza e promuovere la riconciliazione e la pace in me stesso(a) e fra gli altri – persone, gruppi etnici e religiosi e nazioni. Sapendo che le parole possono essere fonte di felicità o sofferenza, mi impegno a parlare in modo veritiero, usando parole che ispirino fiducia, gioia e speranza. Quando in me si manifesta la rabbia, sono determinato(a) a non parlare. Praticherò la respirazione consapevole e la meditazione camminata per riconoscere la mia rabbia e osservarla in profondità. So che le radici della rabbia possono essere trovate nelle mie percezioni erronee e nella mancata comprensione della sofferenza in me stesso(a) e nell’altra persona. Parlerò e ascolterò in un modo che possa aiutare me stesso(a) e l’altra persona a trasformare la sofferenza e a trovare una via d’uscita dalle situazioni difficili.
Sono determinato(a) a non diffondere notizie di cui non sono sicuro(a) e a non pronunciare parole che possano causare divisione o discordia. Praticherò la Retta Diligenza per alimentare la mia capacità di comprensione, amore, gioia e inclusività, e trasformare gradualmente la rabbia, la violenza e la paura che giacciono nel profondo della mia coscienza.

Il Quinto Addestramento alla Consapevolezza: Nutrimento e guarigione 
Consapevole della sofferenza causata da un consumo disattento mi impegno a coltivare una buona salute sia fisica che mentale per me stesso(a), la mia famiglia e la società, praticando la consapevolezza nel mangiare, nel bere e nei consumi in genere. Praticherò l’osservazione profonda del mio modo di assumere i Quattro Tipi di Nutrimento, ossia cibo commestibile, impressioni dei sensi, volizione e coscienza. Sono determinato(a) a non giocare d’azzardo, a non assumere alcolici, droghe o altre sostanze o stimoli che contengano tossine, come certi siti internet, videogiochi, programmi televisivi, film, riviste, libri e conversazioni. Coltiverò la pratica di tornare al momento presente per stare in contatto con gli elementi rasserenanti, risananti e nutrienti che si trovano in me stesso(a) e intorno a me, senza lasciare che rimpianti o dispiaceri mi trascinino di nuovo nel passato né che ansie, paure o avidità mi distolgano dal momento presente. 
Sono determinato(a) a non cercare di coprire la solitudine, l’ansia o altra sofferenza con acquisti e consumi compulsivi. Alla luce della contemplazione dell’interessere, orienterò le mie scelte di consumatore in modo da proteggere la pace, la gioia e il benessere nel mio corpo e nella mia coscienza, come nel corpo e nella coscienza collettivi della mia famiglia, della società e della Terra.