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I dodici anelli dell’origine dipendente

Fonte originale : Studybuddism Questa è una personale e libera interpretazione dei contenuti originali che ho riportato nella forma di un riassunto.

Simbologia

immagine tratta dal sito https://www.taijiquan-torino.org/la-ruota-della-vita.html

Questa raffigurazione rappresenta il ciclo dell’esistenza. Ogni figurina rappresenta un diverso significato; personalmente trovo che i pittogrammi mi aiutino a ricordare tutti i numerosi concetti che tratteremo. Nel cerchio più interno troviamo una gallina (Attaccamento), il serpente (Avversione) e il maiale (Ignoranza); questi sono i tre veleni principali dell’esistenza. Ognuno degli animali è raffigurato mentre morde la coda dell’altro, a significare che ciascuna passione velenosa alimenta le altre in una spirale senza fine.

Il cerchio immediatamente adiacente è diviso in una metà chiara e una nera. Nella metà chiara e fasi della vita umana: il bambino, la maturità e la vecchiaia. L’andamento prosegue dal basso verso l’alto (verso la luce) a significare l’evoluzione della saggezza che darà luogo ad una rinascita nei regni superiori. Nella metà nera si nota un essere infernale che con una catena trascina verso il basso (verso l’oscurità) dei corpi umani, a significare che potremo anche non riuscire a liberarci dalle catene dell’ignoranza dando luogo ad una rinascita nei regni inferiori.

Il cerchio successivo è diviso in sei sezioni che raffigurano i regni dove può avvenire la rinascita. Sono arricchiti da una allegoria degli stati mentali che gli esseri possono sperimentare in quella particolare rinascita:

  • Divinità: Buddha sul trono di luce
  • Semidei (Arya): procedendo a sinistra in senso antiorario. Gli esseri sono in un fortino dove una parte tenta di arpionare gli esseri dei livelli superiori e altri si difendono da quelli degli esseri inferiori. Simboleggia il fatto che anche in questo regno, si è sottoposti al veleno del desiderio bramoso (attaccamento) verso la buddità e dal non desiderio bramoso di rinascere nei regni inferiori
  • Esseri umani: partendo dal Buddha, a destra in senso orario. Sono raffigurati mentre svolgono varie attività
  • Animali: sotto i semidei; ci sono animali liberi e animali da lavoro, a significare le qualità della rinascita anche all’interno dello stesso reame; un conto è nascere animale predatore che è in grado di procurarsi cibo o aquila libera di volare, un altro è nascere come animale da preda che è destinato a scappare o a nascondersi per tutta la vita per poi morire sbranato quando non è più in grado di farlo.
  • Esseri famelici: sotto gli umani; sono raffigurati con l’addome gonfio e il collo lungo. E’ un regno inferiore dove la sofferenza è molta ed è rappresentata dal fatto di non potere mai mangiare abbastanza per riempirsi lo stomaco (visto che questo è sproporzionatamente enorme) e non potere mai dissetarsi perché l’acqua non riesce mai a raggiungere il corpo (visto che il collo è lunghissimo).
  • Esseri infernali: in basso; sono raffigurati mentre subiscono torture d ogni genere, ognuna correlata direttamente alle azioni stesse che hanno causato la loro rinascita in quel regno; per esempio l’assassino viene continuamente trafitto da una spada, il macellaio viene bollito in pentola, ecc…

Nel cerchio più esterno la simbologia rappresentativa dei dodici anelli. A partire dal centro in alto e proseguendo in senso orario:

  • ignoranza: una vecchio cieco con bastone che si dirige verso un burrone.
  • fattori karmici: un vasaio all’opera.
  • coscienza: una scimmia che salta da una casa all’altra.
  • nome e forma: rappresentati come due uomini su una barca in balia delle onde.
  • percezione: una casa con sei finestre, a rappresentare i sei organi sensoriali.
  • contatto: una coppia che copula.
  • sensazione: un uomo che corre con una freccia infilata in un occhio.
  • desiderio: un uomo a tavola che alza un bicchiere di alcolico.
  • attaccamento: una scimmia che coglie frutta da un albero.
  • divenire: una donna stesa che invita all’accoppiamento.
  • nascita: una partoriente.
  • vecchiaia e morte: un uomo porta sulle spalle un cadavere avvolto in un lenzuolo.

Aggrappato con gli artigli al grande cerchio e con la bocca spalancata c’è il Signore della Morte che tutto divora e ci ricorda la non permanenza delle cose (a partire proprio dalla vita!). Al di sopra, in genere nell’angolo destro, viene raffigurato il Buddha che indica il sentiero dello sviluppo spirituale che conduce alla cessazione del Samsara.

Introduzione

La teoria filosofica buddista dei dodici anelli dell’origine dipendente è uno dei concetti chiave della filosofia Buddista. L’Origine Dipendente è la comprensione che tutti i fenomeni sorgono in mutua interdipendenza. Nessun essere o fenomeno esiste in sé, ma solo in relazione ad altri esseri o fenomeni, perciò tutti i fenomeni sono “vuoti”, privi di esistenza intrinseca. Approfondiremo questi concetti di seguito. I dodici anelli descrivono il processo di nascita e morte dell’individuo e identifica il meccanismo con cui i vari stadi e i processi  influiscono sulla sua rinascita.  Attenzione perché la rinascita di cui parliamo riguarda la mente; più precisamente la continuità della mente intesa come attività mentale che accompagna tutte le esperienza di qualsiasi fenomeno che accade intorno a noi per tutta la durata di una vita, comprese la nascita e la morte. Perché abbiamo detto “continuità della mente”? Proprio perché il momento di ciò che la mente sta sperimentando adesso è seguente al momento precedente, in un continuo flusso di sorgere, esistere e cessare. Per fare un esempio figurato potremo dire che la nostra vita è una linea continua se vista da molto lontano, ma quando ci  avviciniamo per vedere meglio ci accorgiamo che in realtà essa è composta da tanti piccoli trattini vicini l’uno all’altro. 

Tutte le nostre esperienze sono contaminate dalla confusione dovuta alla inconsapevolezza della natura non permanente dell’”io”, delle persone e delle cose. Non permanente significa credere che tutti i fenomeni esistono come entità indipendenti, “solide”. Questa falsa credenza crea l’illusione di un ’”io” “solido”, e questa consistenza ci porta a credere al fatto che sia indipendente dalle altre persone e da quello che gli accade intorno. Questo stato di confusione, fa sì che un buon numero di tutti i momenti che compongono la vita, siano caratterizzati da difficoltà, problemi  e sofferenza. Nella filosofia Buddista questa esistenza nella confusione e nella sofferenza  è chiamata “Samsara”. La buona notizia è che possiamo liberarci da questa confusione (causa), eliminando di conseguenza anche la sofferenza (effetto). E’ questa la rinascita di cui parliamo, è comunque da tenere presente che “tecnicamente” questa situazione non è una vera e propria rinascita, ma è sempre la continuità della nostra esperienza individuale e soggettiva delle cose: è uno stato di “liberazione” o “nirvana” perché ci  siamo liberati dal Samsara.

Il processo della liberazione dal samsara per raggiungere non soltanto la liberazione dalla sofferenza ma anche, alla fine, l’illuminazione implica attraversare vari stadi che è  importante conoscere e dei quali è necessario comprendere come funzionano e interagiscono tra di loro. Questo viene illustrato nei dodici anelli dell’esistenza dipendente. Andremo anche ad esplorare il modo in cui una corretta comprensione della vacuità o della realtà è in grado d’interrompere le rinascite e ottenere la liberazione e l’illuminazione. La parola “anello” viene usata in questo contesto perché il processo viene descritto come una catena lineare, ma questo non deve indurci a credere che si susseguano in una vera e propria sequenza lineare. Esistono infatti diversi modi e differenti sequenze con cui è possibile illustrarli.

Primo anello: l’ignoranza (inconsapevolezza)

L’ignoranza è il primo dei dodici anelli, dove ignoranza è intesa come mancanza di consapevolezza (quando non sappiamo qualcosa), o confusione (quando comprendiamo in maniera errata).  Tutte e due i termini da ora in poi verranno indicati dalla parola “inconsapevolezza”. Inconsapevolezza di che cosa? 

In primo luogo della vera natura della realtà, cioè del modo in cui tutte le cose esistono: crediamo che esistano indipendentemente da tutto e  rendendole “concretamente esistenti”, quando in realtà esse sono interdipendenti e “vuote” di un esistenza a se stante (intrinseca). Quest’ultimo è il concetto di “vacuità” che verrà trattato più avanti. Per esempio  il nostro partner ci ha abbandonato e ci sembra come se avessimo un problema mostruoso, concreto, solido e pesante. In realtà non c’è alcuna cosa mostruosa nei paraggi, in quel momento, tutto quello che accade veramente è che stiamo guardando fuori dalla finestra, magari piove pure e ci sentiamo un po’ tristi. E’ quest’ultimo l’aspetto corretto della realtà di cui essere consapevoli. 

In secondo luogo delle cause e degli effetti del nostro comportamento, o meglio della connessione tra il nostro comportamento (di quello che diciamo, facciamo e pensiamo ) e quello che proveremo come suo risultato. In pratica si tratta dell’inconsapevolezza del modo in cui le persone esistono, sia noi che gli altri. Ci sono due tipi di inconsapevolezza: una ha una base dottrinale mentre l’altra è quella che sorge spontaneamente. L’inconsapevolezza avente una base dottrinale è qualcosa che può nascere dal condizionamento della nostra famiglia, società, televisione e così via, che causa delle nevrosi profondamente radicate. L’inconsapevolezza che sorge spontanea tutti ce l’hanno, ed è causata della maniera limitata in cui la nostra attività mentale fa apparire le cose. Le fa apparire come se noi esistessimo come un solido “io,” il cosiddetto falso “io,” e abbiamo la sensazione che sia proprio così. Sembra come se “io” esistessi come un’entità concreta, non influenzata da nulla, sempre una e la stessa, un’entità separata dalla mia esperienza. A un livello più profondo, sembra come se “l’io” fosse un capo che controlla tutto ed è seduto dentro la nostra testa.

A questo punto facciamo due brevi puntualizzazioni . La prima occorre differenziare quello che nel Buddhismo chiamiamo “’io” e quello che chiamiamo “falso io.” Il primo io è necessario e deve poter  funzionare in questo mondo perché serve nella società ,  serve a livello di “convenzione sociale”. La seconda è la necessità di conoscerla  differenza tra la coscienza di sé e la consapevolezza di se stesso. La coscienza di sé ha come perno questo falso “io”, ad esempio: “Sono preoccupato di me stesso” è quando pensiamo che tutti gli altri sono preoccupati per i loro problemi personali, e non sono interessati ai nostri. La “consapevolezza di se stesso” è l’essere consapevoli delle nostre motivazioni, di quello che proviamo, è l’essere coscientemente consapevoli di quello che succede dentro di noi ad ogni istante. È focalizzata non sull’”io” ma su quello che sta realmente accadendo. 

Riassumiamo un po’ tutto adesso. L’inconsapevolezza, ovvero il primo anello dell’origine dipendente, è l’inconsapevolezza del modo in cui noi e gli altri esistiamo. Ci sembra come se esistessimo come una sorta di “io” concreto, solido. Ma non sappiamo che in realtà questo è soltanto un’apparenza o una sensazione che non corrisponde alla realtà. Questa inconsapevolezza ci rende storditi e così siamo insicuri di noi stessi e indecisi. Essendo insicuri di noi stessi, ci afferriamo ostinatamente a qualsiasi cosa abbiamo deciso per poter acquistare un po’ di sicurezza. In effetti, la nostra intera vita è spinta dall’impulso a cercare di mettere al sicuro questo solido “io.” Quest’impulso raggiunge il massimo al momento della nostra morte. Vogliamo disperatamente che questo solido “io” continui ad esistere, a qualsiasi costo. Questa è la forza motrice che ci porta ad un’altra rinascita con la continua inconsapevolezza del modo in cui esistiamo. 

Concludendo,  la maniera corretta di interagire con gli altri conoscendo il comportamento delle persone è che dovremo avere la consapevolezza che semplicemente tutto quello che sta davvero accadendo è che ti sto vedendo, sto parlando e interagendo con te. L’inconsapevolezza del modo in cui esistiamo si auto-perpetua a causa del meccanismo che sorge automaticamente e che la rafforza. Più comprendiamo quello che sta succedendo e più proviamo disgusto. È come pensare che la nostra situazione in ufficio vada bene e poi scopriamo che il nostro capo è disonesto. Quando scopriamo la frode del nostro falso “io”, ne siamo disgustati. Sviluppiamo la determinazione ad esserne liberi. Questo viene normalmente chiamato “rinuncia”: la determinazione ad essere liberi dal samsara e la completa disponibilità ad abbandonarlo.

Secondo anello: Le formazioni Karmiche

Il Karma è la nostra tendenza a comportarci sempre secondo uno stesso schema. Quante volte ci è successo che, davanti ad una situazione diciamo “Ah! Sarà stato per colpa del mio karma!”. Se noi ci troviamo in una certa situazione (effetto) è perché abbiamo agito in una determinata maniera (causa). Il principio di causa ed effetto nel buddismo dice proprio questo: ogni azione darà luogo ad un risultato. Una volta che una azione è stata compiuta il risultato maturerà senza ombra di dubbio. Volendo continuare si potrebbe anche affermare che spesso il risultato fungerà da causa per un altro risultato. Ad esempio: ho insultato una persona (causa) e questa mi prende a bastonate (effetto). Per via delle  bastonate prese (causa) io finisco in ospedale (effetto) e l’altro viene arrestato (effetto). Per vie dell’arresto (causa) il poliziotto che compie l’arresto riceve una medaglia (effetto), e così via …

Tornando al karma, dobbiamo essere più precisi e parlare di “impulso”. Prima  e durante il compimento di una  azione abbiamo un impulso che è il karma proiettante (grossolano). Esso ha la forza di proiettare il nostro continuum mentale in uno specifico stato di futura rinascita. Immediatamente alla fine (contemporaneamente) del compimento dell’azione ne abbiamo un altro più sottile e difficile da percepire che è il karma completante. Esso ha soltanto la forza di completare le condizioni e i dettagli di quella rinascita. Esempio 1: durante la vita come lavoro facevamo il macellaio, ci dispiaceva fare male alle bestie ma c’era la necessità di dare da mangiare alle persone. Il karma proiettante ci farà rinascere come animale nella prossima vita, mentre il karma che completa fa in modo che noi saremo un cane che vive in una casa con una famiglia che lo ama e lo coccola. Esempio 2: facciamo il macellaio come lavoro, più perché ci piaceva uccidere le bestie che per dare da mangiare alla gente. Il karma che proietta mi farà rinascere come animale e il karma che completa farà si che io sia un animale da preda, costretto a scappare e nascondersi tutta la vita per poi finire sbranato da un animale più grosso di me.

Oltre a questi due tipi di karma ne esiste un altro (sempre sottile), che si chiama “strascico karmico”. E’ come una vibrazione, specie di energia sottile che rimane li dopo che abbiamo compiuto l’azione. Un po’ come quando ci siamo infuriati e abbiamo gridato come matti. Al ritorno nel silenzio sentiamo ancora l’eco delle grida e il nostro cuore batte forte. Lo strascico continua fintanto che abbiamo l’intenzione, consapevole o inconsapevole, di ripetere l’azione e non intendiamo abbandonarla. Comunque, il secondo anello dell’origine dipendente prende in considerazione l’impulso karmico grossolano e soltanto il primo dei due sottili, quello completante che avviene contemporaneamente alla fine della azione. Non include alcuno strascico karmico del karma che rimane successivamente (e un pò più a lungo) nel nostro continuum mentale. 

Abbiamo parlato di karma e di rinascita. Il karma proiettante determina il tipo di rinascita e il karma proiettante la qualità di quella stessa rinascita. Cerchiamo di chiarire un punto essenziale per eliminare il rischio di misinterpretare ciò di cui è possibile essere coscienti quando si verifica una rinascita, e lo facciamo con un esempio: nella vita precedente eravamo un umano e ora siamo rinati come cane. Nelle “vesti” del cane potremmo credere che sia possibile che la nostra mente (di cane) sia cosciente del fatto che la vita precedenta era nel corpo di un umano e adesso è nel corpo di un cane. No! Queste sono considerazioni totalmente confuse sul funzionamento della rinascita. Non c’è un “io” solido con un’identità solida che si reincarna da una vita all’altra. Non è possibile avere la coscienza di essersi re-incarnati in un altro essere perché ciò presuppone l’esistenza di un “io” eterno che rinasce continuamente conservando la stessa mente e la stessa coscienza in tutte le rinascite.

Ad ogni modo c’è un “io” che rinasce, ma è il falso io. Non è una questione di “chi” rinasce, ma di cosa. Quello che rinasce nel samsara è sempre la stessa falsa idea dell’io solido, che come ha sperimentato l’umano nella vita precedente, allo stesso modo sperimenta il cane in questa Dall “io” convenzionale umano adesso è “io” convenzionale cane, ma sempre con la falsa convinzione di un io solido, concreto, indipendente, di avere il possesso di un suo terrirorio, di avere un suo padrone. E’ sempre lo stesso tipo samsarico. Dobbiamo osservare questa cosa molto in profondità. C’è soltanto una continuità dell’esperienza individuale e soggettiva delle cose. L’astrazione “io” si riferisce a tutto questo. L’io convenzionale esiste (e rinasce), ma noi ogni volta lo rendiamo qualcosa di sostanziale e poi ci incolliamo sopra una solida identità.

Ora abbiamo bisogno di distinguere un’azione dall’emozione che la motiva  (intenzione). Ci sono 4 modalità con le quali compiere un azione collegata alla intenzione: 1 – Azione distruttiva con intenzione negativa: uccidere una zanzara perchè ci da fastidio. 2 – Azione distruttiva con intenzione positiva: uccidere una vespa perhè abbiamo paura che punga nostro figlio che ne è allergico. 3 – Azione positiva con intenzione negativa: preparare un pasto solo per vantarsi di essere dei bravi cuochi. 4 – Azione positiva con intenzione positiva:  preparae un pasto con l’idea di fare felici i nostri figli. Notiamo che ce ne sono due (la prima e la quarta) in cui l’azione e la motivazione sono concordanti e le altre due che hanno azione e motivazione discordanti. 

Perché questo è importante? Perché definisce meglio il concetto di karma proiettante e completante: quando impulso ed azione sono concordanti avremo il karma proiettante che determina il tipo di rinascita: nei regni superiori se la motivazione è buona, nei regni inferiori se la motivazione è nociva (animale vs essere umano). Quando impulso ed azione sono contraddittori avremo il karma completante che determina la qualità della rinascita: all’interno del regno designato dal karma che proietta potremo avere condizioni migliori o peggiori (cane domestico vs. cane randagio). Il karma proiettante è grossolano perchè ha un energia più forte, motivazione e azione si autosostengono, il karma che completa è meno energico, proprio per via della contraddizione tra intenzione e motivazione.

Il terzo anello: la coscienza

La spiegazione di questo anello è divisa in due parti. Abbiamo detto fino ad ora che il karma proiettante detrmina il tipo di rinascita, ma dobbiamo ricordare che fino ad ora abbiamo parlato di “impulsi” del karma proiettante. Il karma proiettante è esclusivamente l’impulso mentale che dà origine e sostiene un’azione fisica, verbale o mentale e dura solamente finché l’azione dura, ma non è l’azione stessa. È lo strascico karmico del karma proiettante, non il karma proiettante stesso, che ci proietta nella nostra prossima rinascita. Lo strascico è il continuum mentale tale che rimane dopo la nostra esperienza soggettiva ed individuale di un fenomeno. Questo continuum mentale è la coscienza causale: la porzione della coscienza al momento della causa. Tecnicamente, lo strascico karmico del karma proiettante “matura” dando luogo ai cinque aggregati della nostra prossima rinascita e alle nostre esperienze in tale stato. 

A partire dalla seconda metà del terzo anello ci sono “gli anelli risultanti di ciò che è stato proiettato”. Essi descrivono lo sviluppo dello stato di rinascita che è stato proiettato dal primo karma (proiettante). È il modo in cui l’intero meccanismo si sviluppa in un feto per perpetuare il samsara. Ora parleremo solo del feto in un utero. E’ in questa fase dell’esistenza che troviamo la l’altra parte della coscienza: la coscienza al momento del risultato, E’ l’esperienza dei fenomeni in una nuova rinascita che è il risultato (effetto ) dello strascico maturato del karma proiettante (causa). Molti risultati karmici matureranno, ma non dobbiamo pensare che qualsiasi cosa che sperimenteremo in una futura rinascita sarà determinata unicamente dallo strascico del nostro karma. Anche molte condizioni esterne contribuiranno, come per esempio lo sperma e l’ovulo dei nostri genitori.

Il principale risultato karmico discusso in relazione al meccanismo dei dodici anelli dell’origine dipendente si riferisce agli aggregati di base della nostra prossima rinascita, che,come abbiamo detto, sono anche enormemente influenzati dalla forma di vita che assumeremo e dalle condizioni che incontreremo. Gli aggregati di base sono cinque. Sono i fattori che compongono ogni momento della nostra esperienza delle cose. Li possiamo riunire in cinque gruppi, ma in realtà non esistono in cassetti separati. Ciascuna delle cinque categorie è composta da molti componenti e questo è il motivo per cui sono chiamati fattori “aggregati.” Uno o più elementi di ognuno di questi cinque gruppi costituiscono l’esperienza che facciamo in ogni momento e tutti loro funzionano insieme come una rete.

  1. L’aggregato delle forme: consiste di vista, suoni, odori, sapori e sensazioni fisiche, insieme ai sensori fisici. Possiamo anche parlare dell’elemento fisico del corpo in generale. 
  2. L’aggregato della coscienza. Questi sono i diversi tipi di coscienza primaria coinvolti nella nostra
    esperienza delle cose. Parliamo di specifici tipi di coscienza per ognuno dei canali sensoriali. Ci sono sei tipi di coscienza: la coscienza della vista, dei suoni, degli odori, dei sapori, delle sensazioni fisiche e dei fenomeni mentali, come i pensieri, i sogni e il sonno. 
  3. L’aggregato distinguente: è il distinguere qualcosa all’interno di un campo sensoriale, con una specifica caratteristica peculiare, in maniera tale che ci possiamo concentrare su di esso e farne l’esperienza. E’ diverso da “riconoscimento”. Riconoscimento significa che vediamo qualcosa di simile a quello che abbiamo già sperimentato in precedenza, poi ci ricordiamo cosa abbiamo sperimentato in precedenza e lo confrontiamo con quello che stiamo sperimentando adesso. Per esempio, possiamo distinguere qualche cosa di nebuloso che si muove laggiù nell’oscurità. C’è un rumore. Non sappiamo cosa sia, ma possiamo distinguerlo.
  4. L’aggregato della sensazione: sensazione significa emozione.Tutto quello di cui si parla in questo aggregato è il provare un certo livello di felicità o infelicità. In ogni momento della nostra esperienza, stiamo sperimentando qualche oggetto, insieme ad una sensazione concomitante che si trova da qualche parte nella scala da completamente felice a completamente infelice. È molto raro trovarsi esattamente nel mezzo o in uno stato neutro; c’è sempre almeno un livello minimo di felicità o infelicità. Anche se sembra come se non stessimo provando nulla, semplicemente non stiamo facendo attenzione a ciò che accade, probabilmente quando ci sembra di non sentire nulla in realtà siamo vicinissimi al 50% della scala e sentiamo pochissimo dell’una o dell’altra (felicità o infelicità).
  5. L’aggregato delle volizioni: i fattori che lo compongono sono molteplici, includono tutto ciò che costituisce ed influenza la nostra esperienza che non sia contenuto negli altri quattro aggregati. È l’aggregato di tutto il resto. Include tutte le emozioni, positive e negative, e gli altri fattori mentali come l’attenzione, l’interesse, la concentrazione, la sonnolenza e la noia.

Riassumendo potremmo dire che abbiamo un fattore aggregato fatto di cose fisiche e quattro aggregati costituiti da cose mentali, ma tutti permettono di d’essere consapevoli delle cose. Se pensiamo che il modo di essere sia solo un fattore mentale siamo in confusione. Anche vedere, distinguere, provare un livello di felicità, essere arrabbiati e così via sono tutti modi d’essere consapevoli di qualcosa. 

Il quarto anello: Nome e forma 

Anche questo anello è caratterizzato da due aspetti, abbaimo le facoltà mentali solo nominabili (perchè senza forma) e facoltà nominabili dotate di una forma. Nella seconda parte dell’anello precedente stavamo parlando dell’esistenza che speriementiamo e di come agiscono gli anelli nella vita intrauterina (fetale). La domanda allora sorge spontanea: quando inizia la rinascita futura, in che fase degli anelli?

Uno sperma e un ovulo s’uniscono. C’è un aggregato della forma: gli elementi del corpo sono palesi e una mente è già presente ma gli altri quattro aggregati di tipo mentali, i modi d’essere consapevoli delle cose, sono presenti soltanto nominalmente: sono facoltà mentali meramente nominabili senza forma. Senza forma è riferito all’aspetto cognitivo degli organi sensoriali che sono presenti fisicamente anche nel feto, ma non hanno ancora una base (fuori dall’utero) sulla quale agire per fare esperienza : sono solo gli aggregati mentali quindi a non avere forma. Specifichiamo: il feto potrebbe fare esperienza delle cose, ma l’aggregato della coscienza non è ancora differenziato in vista, udito, olfatto, gusto, tatto e pensiero, quindi è come se non ci fossero. 

Quindi noi esseri umani abbiamo le facoltà mentali nominabili senza forma dal momento del concepimento fino alla nascita, al momento appena prima della nascita, momento in cui le facoltà cognitive del vedere, udire e così via vengano differenziate. E’ la consapevolezza cognitiva la parola chiave per distinguere “con e senza forma”. Ma allora quando inizia una rinascita futura? Quando inizia il quarto anello? Un approccio fondamentalista a questa questione sarebbe l’affermare che il quarto anello abbia origine al momento del concepimento e dunque è in quel momento che la vita comincia. La vita non significa solamente cellule viventi, perché allora potremmo dire che uno sperma o un uovo siano vivi. Sono esseri senzienti? No. Questo è un punto molto interessante. 

Il quinto anello: la percezione (cognizione)

Questo anello caratterizza il momento che intercorre tra lo sviluppo degli organi sensoriali (nel quarto anello) e la facoltà della distinzione (di cui parleremo nel sesto anello).

Lo schema è il seguente: abbiamo la coscienza dei 6 organi sensoriali che si è sviluppata e ha avuto origine per via del continuum mentale scatenato a sua volta dallo strascico karmico del karma proiettante di una vita precedente. Nella nouva rinascita quando siamo nel grembo materno inizia lo sviluppo di ciascuno di questi organi ed essi cominciano ad acquisire un nome e una forma dando luogo ai cinque aggregati (uno propriamente fisico e 4 di tipo mentale). Questi aggregati, ognuno formato a sua volta da molteplici fattori che lo caratterizzano, iniziano il processo cognitivo che è basato sui sei stimolatori di cognizione. I sei stimolatori di cognizione sono gli oggetti cognitivi più i sensori cognitivi di ognuna delle sei facoltà cognitive. Nel caso delle cinque facoltà sensoriali, gli oggetti e i sensori hanno la forma di fenomeni fisici (come vista e cellule fotosensibili, il gusto e i suoi recettori, ecc.) e nel caso della facoltà mentale, gli oggetti sono un qualsiasi fenomeno validamente conoscibile, mentre i sensori sono i momenti cognitivi immediatamente precedenti, come per esempio riconoscere che siamo tristi perchè poco prima abbiamo percepito un dispiacere.

Nel quiunto anello quindi, ciò che nel quarto erano considerate delle facoltà mentali meramente nominabili arrivano alla differenziazione. Le cellule nel feto si differenziano ognuna a seconda della funzione che assolveranno (ad es. le cellule che formeranno la vista diventano dei coni e bastoncelli nei proto-occhi). Allo stesso modo anche l’aggregato della coscienza si differenzia in coscienza visiva, tattile, uditiva, ecc. A questo punto non sono più delle facoltà meramente nominabili, tuttavia non c’è ancora la distinzione  di forme particolari (distinguere un albero da un cespuglio), esiste solo la consapevolezza dei campi sensoriali in generale (ad es. sono consapevole di vedere una forma disordinata sostenuta da qualcosa di più ordinato e lungo). E questo perchè le altre facoltà mentali (sensazione e volizione) rimangono ancora solamente nominabili. Occorre fare una puntualizzazione: l’aggregato distinguente è sviluppato solo in parte (distingue il tipo di sensore che si è attivato) ma non è ancora in grado di riconoscere la diversità all’interno dello stesso sensore. È molto interessante, se ci pensiamo da un punto di vista dello sviluppo: c’è la consapevolezza della sensazione fisica, ma non c’è differenziazione tra albero e cespuglio, verde e marrone, caldo e freddo e così via. Per usare l’analogia rudimentale di un computer, fino ad ora abbiamo discusso l’ hardware. Ora dobbiamo discutere del software. 

Il sesto anello: il contatto

E’ la consapevolezza del contatto. Il contatto è qualcosa che avviene tra la percezione (quinto anello) e la sensazione (sesto anello). A questo punto l’aggregato distinguente è completamente funzionante, non solo distingue ma adesso è in grado di riconoscere. Non è più facoltà mentali meramente nominabili. È un modo d’essere consapevoli d’un oggetto con cui si entra in contatto perché viene distinto. La consapevolezza contattante distingue questo oggetto come piacevole, spiacevole o neutro. Per esempio, all’interno del campo delle sensazioni fisiche, il feto ora è in grado di distinguere esperienze di caldo o freddo o di saltellare su e giù, con cui entra in contatto cognitivamente. È consapevole della sensazione fisica del saltellare su e giù, per esempio, in quanto sensazione piacevole, spiacevole o neutra. Da che cosa hanno origine queste tre sensazioni? Esse hanno origine dal karma causale, dal mometo che nelle vite precedenti abbiamo fatto esperienza di cose piacevoli, spiacevoli e neutre ora riusciamo ad esserne consapevoli. Nonostante l’aggregato distinguente e il contatto siano in funzione, l’aggregato della sensazione non sta ancora funzionando. È presente, ma ancora in maniera indifferenziata come facoltà mentale nominabile. In altre parole, siamo consapevoli degli oggetti con cui entriamo in contatto come piacevoli, spiacevoli o neutri, ma non ci sentiamo ancora felici, infelici o neutri in risposta a ciò. 

Il settimo anello: la sensazione

E’ il provare un certo livello di felicità. Perché livello di felicità? In pratica abbiamo una scala da 0 a 100 di livelli, in cui lo 0 è infelicità massima, <50 è infelicità, 50 è neutro, >50 è felicità e 100 è felicità massima. Il valore 50 è raro come possibilità, alla fine potremo dire di essere leggermente felici o infelici a seconda del caso, ma dire che siamo neutri è veramente raro. 

Il settimo anello è provare un livello di felicità. A questo punto, anche l’aggregato della sensazione è funzionante. La sensazione è definita come il modo in cui sperimentiamo ciò che è maturato dal nostro karma. Sperimentiamo felicità in accordo con la consapevolezza contattante una sensazione fisica piacevole, oppure infelicità in accordo con la consapevolezza contattante una sensazione spiacevole. Oppure sperimentiamo un livello molto basso dell’una o dell’altra, in accordo con la consapevolezza contattante una sensazione neutra. 

La coscienza, nome e forma (facoltà mentali), la percezione (cognizione), il contatto (consapevolezza contattante) e la sensazione sono gli anelli risultanti di ciò che è stato proiettato. In pratica fino ad adesso abbiamo spiegato come si è arrivati alla formazione di una nuova rinascita sulla base del karma è stato proiettato dalla vita precedente. Da ora in poi cominciamo a creare il karma che è quello che determinerà la rinascita futura. Ora comincia l’avventura della vita così come siamo abituati a vederla, durante la quale compiamo azioni fisiche, di pensiero e di parola creando il karma proiettante.

Per concludere, detto in parole povere la vita di adesso è il karma risultante della vita precedente nella quale creiamo il karma proiettante della rinascita futura perchè tutti i cinque aggregati sono pienamente maturi e in grado di agire. Tutto è al posto giusto per perpetuare la nostra situazione samsarica.

Introduzione agli anelli che proiettano 

I tre anelli seguenti – l’ottavo, il nono e il decimo – sono gli anelli causali che mettono in atto (proiettanti). Essi sono ciò che attiva lo strascico karmico del karma proiettante che avviene sopratutto negli istanti che precedono la morte, in modo tale che i risultati karmici si attuino. Senza la loro presenza e la loro funzione di condizioni, lo strascico karmico non si attiverà e non darà origine ai suoi risultati. 

La sequenza di questi tre anelli avviene in ogni istante nella nostra vita in risposta all’esperienza di sensazioni di felicità o infelicità. Durante la nostra vita rispondiamo con emozioni disturbanti, impulsi ad agire e impulsi in cui effettivamente agiamo. Ma al momento della morte questa sequenza è molto più forte nel suo impatto, perché attiva lo strascico karmico proiettandolo nella rinascita futura determinandone il karma risultante. Ad es. se durante tutta la vita ho agito sotto l’influsso della incosapevolezza e ho campiuto numerose azioni distruttive, verosimilmente anche nel momento della morte sarà molto probabile che compirò l’ultima azione distruttiva che sarà la responsabile di una rinascita inferiore. Ecco perchè lo scopo della nostra attuale vita è liberarsi dalla confusione che determina l’inconsapevolezza.E’ per abituarsi a compiere azioni costruttive in modo tale che anche negli ultimi istanti della vita produrremo un karma proiettante che darà luogo ad un karma risultante positvo in una rinascita nei tre regni superiori.

Ottavo anello: il desiderio

E’ il desiderare di ripetere o non ripetere un esperienza vissuta o che stiamo vivendo. Abbiamo tre tipi di desiderio: il primo è il desiderio di non essere separati da una sensazione piacevole, il secondo è il desiderio di essere separati da una sensazione spiacevole e il terzo è il desiderio di non abbandonare il nostro corpo e i nostri aggregati per continuare a fare esperienze, l’attaccamento alla vita, sia verso qulla attuale che verso quella futura. Esiste anche un modo alternativo di spiegare i tre tipi di desiderio in relazione ai tre tempi: il primo è il desiderio di mantenere tutto ciò che abbiamo nel presente, il secondo è il desiderio di non lasciare tutto ciò che abbiamo ottenuto in passato e il terzo è il desiderio verso gli oggetti del futuro, ovvero desiderare una futura rinascita. 

Nono anello: l’attaccamento

La differenza tra desiderio e attaccamento è la componente bramosa dell’ultimo dei due. Attaccamento è desiderio bramoso. Esistono quattro tipi di attaccamento, uno è un emozione e tre sono atteggiamenti comportamentali.

  1. E’ un emozione disturbante l’attaccamento rivolto verso oggetti sensoriali piacevoli, come lo è l’attaccamento a non sperimentare situazioni spiacevoli.
  2. Attaccamento a visioni erronee. Quando simo in balia della confusione ci sentiamo turbati e a disagio. Questo turbamento ci causa emozioni afflittive. Ci sono sei tipi di visioni erronee, cinque sono emozioni: desiderio, rabbia, orgoglio, ingenuità e dubbio. Il sesto è un atteggiamento disturbante che a sua volta è composto da tre aspetti: 1- rifiuto del principio di causa ed effetto, 2 – rifiuto della natura non permanente dei fenomeni, 3 – considerare i nostri aggregati “puri” che ci porta a desiderare di continuare ad avere il corpo che li possiede, oppure considerare i nostri aggregati “sporchi” e desiderare di non volere più il corpo.
  3. Considerare una condotta ingannevole come se fosse corretta con la convinzione che comportarsi in un modo banale ci purificherà da tutto ciò che è negativo, ci libererà da tutte le nostre preoccupazioni e ci porterà sicuramente ad un destino migliore.
    La condotta ingannevole può essere: 1- morale: consiste nel abbandonare un comportamento banale quando non serve a niente (ad esempio smettere di mangiare cibi grassi quando abbiamo un cancro allo stadio terminale credendo che ci possa allungare la vita); 2 – comportamentale: agire in modo banale o senza senso quando non serve a nulla (ad es. tenere un tasca un amuleto portafortuna o non accettare quello che è palese che ci sta accadendo).
  4. Affermazione della nostra identità: pensare in termini di un “io” solido, ci identifichiamo quest’io solido con i nostri aggregati, in altre parole con qualche componente della nostra esperienza mentre stiamo morendo. Oppure identifichiamo questo “io” apparentemente solido come il possessore, controllore o inquilino dei nostri aggregati che sono solidamente “miei”.

Occorre fare mente locale a ciò che abbiamo detto nella breve introduzione agli anelli che proiettano. Il desiderio e l’attaccamento, con tutte le loro diverse sfumature sono molto più potenti al mometo della morte. Se non familiarizziamo con il concetto della morte c’è il rischio di arrivare impreparati al momento finale e cadere nel panico provando paura. Proprio il panico e la paura sono due emozioni disturbanti che molto più di altre causano l’attivazione del karma proiettante. Per familiarizzare con il concetto della morte occorre conoscerne il processo che viene descritto nel Bardo Thodol (vedi link Libro tibetano dei morti ). Il processo della morte avviene in otto stadi e se noi sappiamo quello che succederà in ognuno di essi non andremo in panico. Dopo avere acquisito la conoscenza del processo occorre meditare sulla morte e le istruzioni sono queste: mentre immaginiamo di stare sperimentando ciascuno stadio, essere consapevoli di quale stadio è appena terminato, quale stadio sta avvenendo in questo momento e quale sarà il prossimo stadio.

Decimo anello: il divenire 

Sinonimo di divenire è “ulteriore esistenza” che è la consapevolezza di un esistenza precedente la morte, esistenza di tutti gli stadi del processo della morte, esistenza nel bardo ed esistenza del concepimento. Il nome tecnico completo per il divenire è un “impulso karmico che pone in atto un’ulteriore esistenza”. È un po’ come un impulso alla sopravvivenza. Le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti del desiderio e dell’attaccamento stimolano questo impulso d’ulteriore esistenza che è una delle condizioni necessarie per una rinascita samsarica. Di per sé il solo karma proiettante, essendo un fenomeno del passato, non è la causa diretta della rinascita. E’ lo strascico karmico attivato di un karma proiettante la causa diretta della maturazione nella nuova rinascita. E’ il divenire che attiva lo strascico. Quindi il decimo anello si conclude con l’attivazione dello strascico. La maturazione di ciò che è attivato negli anelli 8, 9 e 10 avviene nei due anelli seguenti, 11 e 12. E’ così che siamo “gettati nella prossima rinascita”.

Undicesimo anello: la nascita

L’undicesimo anello, il concepimento, equivale al primo momento dell’anello numero quattro, facoltà mentali nominabili con o senza forma grossolana. Come abbiamo visto, questo non significa necessariamente il momento del concepimento come lo intendiamo dal punto di vista biologico, quanto piuttosto il momento in cui l’embrione inizia a fungere da base per l’esperienza. 

Dodicesimo anello: vecchiaia e morte

Il dodicesimo anello, invecchiare e morire, inizia nel secondo istante della nostra rinascita. Dunque, dopo il primo istante della nostra esperienza della vita futura sulla base di un embrione, iniziamo ad invecchiare. Questo è molto interessante secondo il nostro concetto d’invecchiare. Non iniziamo ad invecchiare solamente quando abbiamo sessant’anni; iniziamo ad invecchiare nell’istante successivo al concepimento e quindi sappiamo che prima o poi dovremo morire. 

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Schema del processo della continua rinascita samsarica 

Anelli onnipresentianelli della vita in gremboanelli nella vita attualeanelli nella vita attuale
proiettantirisultanti del proiettatoattivantirisultanti dell’attivato
1 ignoranza
2 fattori karmici
3a Coscienza causale
3b Coscienza risultante
4 Nome e forma
5 Percezione
6 contatto
7 sensazione
8 Desiderio
9 Attaccamento
10 Divenire
11 Nascita
12 Vecchiaia e morte

II dodici anelli non avvengono in sequenza lineare. Perché dovrebbero? Per il nostro desiderio d’aggrapparci ad una simmetria intrinseca? Ci sono quattro insiemi di anelli. Il primo insieme, gli anelli causali che proiettano (1, 2 e 3a), è sempre in funzione perchè è una caratteristica della esistenza samsarica. Stiamo sempre “piantando i semi” del karma proiettante tutto in ogni momento della nostra vita. Il terzo insieme, gli anelli causali che mettono in atto (8, 9 e 10), sono il modo in cui attiviamo lo strascico del karma proiettante e che avviene nei momenti immediatamente precedenti la morte. Il secondo insieme, gli anelli risultanti di ciò che è stato proiettato (3b, 4, 5, 6 e 7), si riferisce alla vita nel grembo materno (dell’embrione nell’utero), vita che è stata proiettata dal karma proiettante attivato (nel terzo insieme). Gli ultimi due anelli, sono gli anelli risultanti di ciò che è attuato (11, 12), si riferiscono alla vita fuor dal grembo. 

Ora che conosciamo tutti gli stadi dell’esistenza e dal momento che l’effetto della nascita è la morte, cerchiamo di vivere coltivando la consapevolezza in modo da essere pronti anche a lasciare andare il vissuto con consapevolezza quando ci capiterà. Cerchiamo di portare questa consapevolezza anche nella futura migliore rinascita. Sevono innumerevoli vite per liberarsi dal Samsara, la nostra vita è breve, sfruttiamola a partire da adesso; non aspettiamo la prossima perchè potremmo non avere la stessa opportunità che abbiamo adesso con questa rinascita umana. 

Porre fine al ciclo del Samsara

Dunque, come interrompiamo il processo? Prima di tutto, cerchiamo di purificarci dalla forza karmica negativa che abbiamo accumulato attraverso la meditazione di Vajrasattva.

La meditazione prevede un primo step che è la contemplazione delle azioni distruttive che abbiamo commesso, che è ciò che ha causato l’accumulo di una certa quantità di karma negativo. Questo include le azioni negative che ci ricordiamo e quelle che non ci ricordiamo di avere compiuto nella attuale rinascita. Inoltre include anche le azioni distruttive che senza dubbio abbiamo commesso nelle vite passate che certamente non possiamo ricordare, ma di cui sperimentiamo il karma. Ad esempio adesso faccio un lavoro molto faticoso e sottopagato perchè nella vita passata ho passato il tempo ad oziare godendo del patrimonio dei miei genitori. 

Il secondo step prevede l’applicazione delle quattro forze opponenti:

  1. Sincero rincrescimento per le azioni negative commesse. Il rammarico è l’ammissione onesta di avere effettivamente comesso azioni di distruttive sotto l’influsso dell’ignoranza. Di pe sè le persone non sono cattive, le loro azioni lo sono. Non personalizziamo troppo le nostre azioni, altrimenti finiremo per provare il senso di colpa. Se ci sentiamo colpevoli per una azione commessa questa ci si appiccica addosso, perchè la sentiamo più “nostra”, sviluppiamo una sorta di attaccamento: è come non buttare mai via la nostra spazzatura. Osservare l’azione contemplandola e provare rincrescimento rende più facile lasciarla andare.
  2. Prendere l’impegno di non compire più l’azione distruttiva. Non si tratta solo di non fare più qualcosa, ma di fare qualcosa per non farlo! Questo implica l’intenzione di non ripetere l’azione. Con questa ferma intenzione, indeboliremo la forza karmica negativa (derivante dal nostro comportamento distruttivo) che è ancora nel nostro continuum mentale ma essendo debole tenderà di meno a farci agire allo stesso modo distruttivo nel prossimo futuro.
  3. Riaffermiamo la direzione positiva verso cui ci stiamo dirigendo che è quella della intenzione di liberarci dalla sofferenza eliminando l’ignoranza.
  4. Facciamo una azione positiva per neutralizzare il karma negativo accumulato. E’ la meditazione di Vajrasattva, che pratichiamo con una visualizzazione in più stadi. In essa, fondamentalmente immaginiamo di espellere tutta la forza karmica negativa dal nostro corpo. Buttiamo via la spazzatura! Mentre facciamo questa visualizzazione recitiamo un mantra (link al Mantra di Vajrasattva). 

Non è soltanto il dire parole magiche senza provare o pensare nulla. Quello che conta è la continua ripetizione del mantra (ventuno volte ogni giorno) accompagnata dalla contemplazione e dalle altre forze opponenti. Il tutto con la giusta concentrazione e la motivazione. 

Ci sono tre cose importanti da sapere a questo punto. La prima è che è importante cercare di ricordarsi ed ammettere il maggior numero possibile di azioni negative specifiche rivolte verso individui, poiché l’effetto sarà più forte rispetto al caso di una formulazione vaga come “qualsiasi negatività rivolta verso qualsiasi essere senziente”. La seconda è che la purificazione non influisce su tutte le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti che possono quindi continuare a creare impulsi karmici negativi. E la terza è che qualsiasi livello di purificazione ottenuto tramite la recitazione di mantra ma non accompagnato dalla cognizione non-concettuale della vacuità (praticamente l’esperienza diretta) è solamente provvisorio. Solo la realizzazione della vacuità ci può liberare per sempre da tutto il karma, lo strascico karmico e le maturazioni karmiche, sia di tipo negativo che di tipo positivo. Entrambi i tipi ci legano alla rinascita che ricorre in maniera incontrollabile: il samsara.

L’antidoto definitivo: la realizzazione della vacuità

Quindi abbiamo compreso che per interrompere il processo delle rinascite, oltre alla purificazione è necessaria l’esperienza diretta della vacuità.

Vacuità significa un’assenza. Attribuiamo un’esistenza solida e sostanziale a noi e agli altri, immaginandoci d’esistere come degli “io” solidi, sostanziali. C’è un’assenza assoluta di un “io” realmente solido. La vera confusione origina dal fatto che noi tendiamo a considerare un ”io” convenzionale che effettivamente esite (perchè l’organizzazione della società ne ha bisogno), scambiandolo col vero “io” che noi crediamo di essere: l’io indipendente, concreto, il controllore, colui che possiede delle cose.  E’ come  vedere un uomo con la barba bianca con un vestito rosso e bianco e concludere che così come a noi appare essere Babbo Natale esso sia veramente Babbo Natale. Quando smettiamo di attribuire questa maniera impossibile di esistere, vediamo semplicemente un uomo che sembra Babbo Natale, ma che è vuoto dell’esistenza del vero Babbo Natale. Vediamo l’illusione causata dalla non consapevolezza della vacuità dei fenomeni. Questa è solo una semplice introduzione alla vacuità. Ovviamente è una cosa molto più complicata, ma almeno iniziamo a focalizzarci in maniera non-concettuale, con una piena e corretta comprensione, sull’assenza di questo modo impossibile di esistere. 

Ci sono diversi livelli progressivi per arrivare alla consapevolezza della vacuità: si chiamano le cinque menti sentiero.

  1. Sentiero dell’accumulazione: sviluppo della mente della Bodhicitta. Bodhicitta è la mente di colui che come motivazione primaria e spontanea si adopera per il bene degli altri aiutandoli a liberarsi dalla sofferenza dell’esistenza samsarica. Per avere una mente di Bodhicitta è necessario attraversare diversi stadi e si arriva ad averla alla fine del quarto sentiero. Nel primo sentiero, utilizzando due tecniche meditative, iniziamo a sviluppare la “perfetta concentrazione della mente calma” (Samatha) e una corretta comprensione della realtà (Vipassana). Chiariamo meglio: Samatha prevede la focalizzazione contemplativa su un oggetto di meditazione fino ad ottenere uno stato mentale di “calma concentrata”.  In genere si consiglia a coloro che si avvicinano per la prima volta alla pratica di prendere il respiro come oggetto da contemplare, per poi passare più avanti alla contemplazione di altri concetti come per esempio la vacuità. Tecnicamente si tratta di dovere portare il più possibile la consapevolezza sull’oggetto per tutta la durata della seduta, tornandoci su ogni volta che la mente si distrae. Vipassana è la capacità di meditare senza usare supporti specifici come il respiro, restando in uno stato di consapevolezza mobile, diffusa e orientata a tutto ciò che emerge (è il motivo per cui si dice che è la corretta comprensione della realtà), senza necessariamente tenerla fissa su un particolare oggetto di sostegno. Quindi Samatha sembra essere considerata come come una pratica propedeutica alla vipassana, da praticare soltanto fino a che non è possibile agevolmente meditare in quello stato di consapevolezza diffusa della realtà senza eccessive distrazioni dei pensieri
  2. Sentiero della preparazione: unione di Samatha e Vipassana focalizzate sulla comprensione non-concettuale della vacuità. Con questo stadio non avremo più nessuno dei peggiori tipi di rinascita perché la forza dello strascico karmico positivo derivante dalla nostra meditazione sulla vacuità è diventata così potente da indebolire la forza dello strascico del nostro karma proiettante negativo.
  3. Sentiero della visione: Fino al secondo sentiero siamo “esseri ordinari”, ottenendo questo terzo veniamo chiamati “arya”, un esseri altamente realizzati. I primi possiedono sia l’inconsapevolezza avente una base dottrinale sia quella che sorge spontanea riguardo al modo in cui le persone esistono, gli Arya sono liberi dall’inconsapevolezza avente una base dottrinale. Tuttavia, un arya sperimenta ancora l’inconsapevolezza che sorge spontanea che è più difficile da sradicare. Poiché come arya ci siamo liberati della inconsapevolezza su base dottrinale che è una delle due metà dell’inconsapevolezza che caratterizza il primo anello completo, siamo liberi da un bel po’ di confusione. Non creiamo più il secondo anello; non c’è più alcun nuovo karma proiettante, neppure quello positivo. Questo perché le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti che sorgono automaticamente sono troppo deboli per rendere persino i nostri impulsi e le nostre azioni positive sufficientemente forti da essere karma proiettante. Dunque, anche se non siamo ancora liberi dal samsara, non c’è più creazione di nuovo karma proiettante e quindi nemmeno il terzo anello. Anche se non creiamo più nuovo karma risentiamo ancora di quello passato e non siamo ancora totalmente dalla inconsapevolezza, dal desiderio e dall’attaccamento che sorgono spontanei.
  4. Sentiero della meditazione: è lo stadio in cui la nostra unione di shamatha e vipashyana, concentrata sulla vacuità in maniera non-concettuale, diventa sufficientemente forte da eliminare la nostra inconsapevolezza che sorge spontanea riguardo a qualsiasi cosa: sia le persone sia tutti i fenomeni. A quel punto, ci liberiamo dalla radice del samsara. Ma abbiamo solamente ottenuto il nirvana “con riserva”. Finché non moriremo e non ci libereremo dal residuo dei nostri corpi samsarici contaminati con cui siamo nati, potremo ancora venire investiti da alcuni residui di inconsapevolezza che influiscono negativamente sulla capacità di focalizzarsi sulle due verità (consapevolezza non concettuale della vacuità e consapevolezza della realtà delle cose) allo stesso tempo. Dunque, non siamo in grado di beneficiare gli altri nel modo più completo possibile. 
  5. Con la quinta mente sentiero, la mente sentiero che non ha più bisogno di formazione, diventiamo dei Buddha, perché saremo per sempre in grado di focalizzarci in maniera non- concettuale non soltanto sulla vacuità, ma anche sulle due verità allo stesso tempo. Questo ci libererà per sempre dalle abitudini costanti dell’inconsapevolezza e dalle abitudini karmiche costanti. In quanto Buddha illuminati, saremo in grado di beneficiare gli altri nel modo più completo possibile. 

Il processo di purificazione avviene gradualmente, e si verifica come risultato della focalizzazione non-concettuale sulla vacuità con la coppia unita di shamatha e vipashyana. Non possiamo avere simultaneamente, in uno stesso momento cognitivo, sia l’inconsapevolezza della realtà che la corretta cognizione non-concettuale della vacuità (queste sono le due verità). Comprendiamo la vacuità oppure no. Liberarci da tutta l’inconsapevolezza e da tutte le abitudini costanti d’inconsapevolezza dipende dalla forza e dalla durata della nostra focalizzazione non-concettuale su quella comprensione. La bodhicitta rende la forza della nostra cognizione estremamente potente. Se siamo in grado di avere questa motivazione, che è la più forte di tutte, la mente più concentrata di tutte e focalizzarla tutto il tempo non-concettualmente sulla vacuità, l’inconsapevolezza non tornerà mai più. 

L’Estinzione del desiderio

Rielaborazione del capitol 8 del libro “dieci lezioni sul Buddhismo (i nodi), di Giangiorgio Pasqualotto

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Misticismo e buddhismo 

Partiamo da tre punti fermi sulla base di quello che il Buddha ci dice e non ci dice attraverso il canone.

Punto primo il Buddha non fu e non volle essere un Dio, né suo figlio, né un suo profeta e nemmeno una sua manifestazione: il Buddha fu in tutto e per tutto solo un uomo. Secondo punto il canone non è un testo sacro nel quale è esposta o si vuole trasmettere una verità assoluta che viene rivelata dall’alto o da qualcun altro; sono invece presenti osservazioni analisi e riflessioni sul cammino spirituale del Buddha storico. Terzo punto non sono presenti affermazioni o negazioni sulla possibilità di esistenza di un Dio, piuttosto è espressa l’impossibilità per l’uomo di arrivare ad una conclusione in merito così come anche è impossibile risolvere razionalmente il problema della immortalità dell’anima o quello della infinità dell’universo (vedi Majjhima Nikaya discorso a Malunkyaputta).

Ciò che il Buddha ci dice invece è contenuta nel discorso sulle Quattro Nobili Verità (verità della sofferenza, la sua origine, la sua estinzione e il sentiero per la liberazione). Ma qual’è il criterio che guida il Buddha nel distinguere quali sono le verità di cui parlare e quelle di cui è meglio non parlare? In primo luogo la ragione, infatti su certi argomenti non si hanno delle risposte certe e in secondo luogo l’utilità, infatti parlarne non è utile ai fini del trovare una via che di salvezza alla sofferenza (vedi Parabola dell’uomo colpito da una freccia che piuttosto di pensare a curarsi la ferita provocatagli vuole prima sapere chi l’ha tirata, perché, da dove ecc. ecc. non comprendendo che morirebbe prima di ottenere risposta).

Concentrandoci su ciò che il Buddha ci ha detto notiamo come sia cruciale il ruolo della Seconda Nobile Verità. Essa ci parla delle cause della sofferenza che Buddha identifica nella “sete” (thana). Cosa mette e mantiene in moto questa macchina del desiderio? La prima causa è l’ignoranza (avjjia) nel non comprendere la vera natura delle cose. E qual è la vera natura delle cose e dei fenomeni? E’ la caratteristica intrinseca di essere prive di esistenza indipendente (anatta – non sé) e il fatto di essere impermanenti (anicca – soggette a continuo cambiamento). Questo nodo che intreccia sofferenza (dukkha), desiderio e ignoranza è fondamentale perché chi riesce a scioglierlo può dire di avere colto il nucleo centrale del carattere mistico del Buddhismo, nucleo rappresentato dalla possibilità di praticare il non- attaccamento, il distacco (viraga).

Per affrontare il problema del desiderio ci si riferisce alla Prima Nobile Verità in cui si dice che il desiderio è strettamente legato alle varie forme di sofferenza o dolore:

• sofferenza fisica che è la più facile da comprendere: ad esempio in condizioni di malattia;

• sofferenza del non ottenere ciò che si desidera ad es. essere sempre felici

• sofferenza di non potere allontanare ciò che non si desidera: ad esempio un collega di lavoro sgradito;

• sofferenza del cambiamento, cioè pretendere che tutto rimanga sempre allo stesso stato, ad es. che un momento felice rimanga per sempre o al contrario rattristarsi per un momento infelice non comprendendo che prima o poi passerà.

Quindi all’origine del dolore sta il desiderio di raggiungere obiettivi impossibili (immortalità o eterna giovinezza) o anche meno imppossibili come l’essere esenti da situazioni negative (pena, angoscia, paura, malattia). Per capire pienamente come il desiderio di questi obiettivi produca dolore occorre rifarsi alla Seconda Nobile Verità: all’origine del dolore c’è la brama accompagnata da piacere e attaccamento, la brama dei piaceri sensuali e dell’esistenza. Il termine più importante da analizzare è la brama, che è da intendersi come tensione alimentata dalla avidità e dall’attaccamento per gli oggetti di tale desiderio; il concetto di brama implica un attaccamento all’IO che desidera. Quindi se è vero che all’origine del dolore c’è il desiderio verso obbiettivi irraggiungibili è anche vero che alla radice di questo desiderio ci sia una forma di attaccamento all’IO che desidera.

Ci sono diverse forme di brama:

• desiderio alimentato dai sensi: desiderio sensuale in relazione ai diversi oggetti sensibili come le forme, i suoni, gli odori, i gusti, gli oggetti del tatto e gli oggetti mentali. I diversi desideri elencati non sono giudicati negativi in se stessi, ma lo sono se accompagnati da attaccamento agli oggetti che si desiderano e quindi all’IO che li desidera “colui che ha attaccamento gusta il cibo e si attacca al sapore, colui che non ha attaccamento gusta il cibo senza attaccamento al sapore”. Questa assenza di attaccamento o distacco può essere applicata a tutti gli oggetti del desiderio e quindi anche alla radice di tutti i desideri, ossia all’IO che desidera.

• desiderio spinto dal volere affermare l’esistenza, brama di esistere: non come istinto di sopravvivenza ma come attaccamento ossessivo alla propria esistenza incentrato nella fede – infondata – dell’esistenza di un IO autonomo autosufficiente, un ego sempre disposto ad assecondare le proprie fantasie di onnipotenza, produrre oggetti per il dominio di cose o uomini e possibilmente avere un controllo assoluto della realtà. Un simile ego non può produrre che dolore e infelicità. Spinge l’individuo a vivere costantemente nella paura di perdere il controllo delle cose, in uno stato di tensione permanente della caducità,transitorietà, in definitiva della paura della morte “colui che vive in preda alla brama è come una scimmia che per tutta la vita salta di ramo in ramo alla ricerca di un nuovo frutto”, “ coloro che sono attaccati alle passioni ricadono nella corrente, come un ragno nella reta da esso stesso tesa”.

• desiderio spinto dal volere negare l’esistenza, brama di non esistenza: “gli uomini sono pervasi da due convinzioni che guidano la loro vita: alcuni si avvinghiano e altri fuggono. Coloro che hanno capacità di discernimento invece osservano. E come altri invece fuggono? Essi sentendosi spauriti, umiliati, nauseati da questa esistenza, provano un dolce richiamo per la non esistenza”.

Di tutte e tre le forme di desiderio si osserva che alla radice del dolore che esse producono vi è una insoddisfazione, un disagio, un malessere provocato dall’impermanenza degli oggetti di desiderio: coloro che pensano di trovare soddisfazione in un desiderio dei sensi si accorge presto che ad ogni soddisfacimento segue il ripresentarsi del medesimo, in una dinamica circolare senza fine. Chi pensa di affermare l’esistenza attraverso l’accumulo di beni o poteri si accorge presto che tutto quello che ha accumulato e i frutti delle sue imprese si esauriscono nel tempo. Chi pensa di negare l’esistenza pretende al contrario di vincere il tempo tentando di sottrarsi alla sua opera consumatrice mediante un qualche tipo di morte anticipata; costoro, terrorizzati dall’opera del tempo si illudono di arrestarla semplicemente fermando il corso della propria vita.

A conclusione di questa analisi ecco che si chiarisce il nesso logico tra dolore e desiderio: il desiderio (tanha) è la radice del dolore (dukkha) in quanto chi desidera non comprende che ogni condizione dell’esistenza è impermanente. Costui esaurisce la propria vita alla rincorsa senza fine dei piaceri sensuali per affermare l’esistenza del sé oppure nella pretesa di fermare il tempo negando l’esistenza del proprio sé.

Andando più a fondo nella comprensione della dinamica del desiderio consideriamo che il carattere di impermanenza di tutte le realtà e fenomeni ha come oggetto lo stesso sé che osserva e che quindi non può trarsi fuori dal possedere anche lui la qualità di impermanenza. Ma mentre da una parte l’Io è disposto a riconoscere l’impermanenza della realtà che lo circonda spesso non riesce a riconoscere la propria, oppure anche se la riconosce non si comporta in accordo con questa. Tale resistenza a non riconoscere l’impermanenza dipende dalla tendenza a credersi una realtà autonoma e autosufficiente che ignora il proprio non sè. È quindi importante comprendere che anche quella realtà chiamata “Io” è allo stesso tempo priva di sè oltre che impermanente. Diventando consapevole che il proprio sè ha tutte e due queste qualità è ciò che permette l’estinzione del desiderio che è la radice che causa la sofferenza ponendo fine ad essa.

Osservando quindi ogni realtà sensibile, ma anche ogni sensazione, ogni percezione, ogni condizione, ogni atto e contenuto di coscienza caratterizzati dalle qualità impermanenza e non sè (anicca e anattā), si dovrebbe poter giungere a dire: «Questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé» e, in tal modo, liberarsi dalla schiavitù del desiderio: non desiderando di annullare il desiderio, ma osservandolo per quello che è, impermanente (anicca) e privo di sé (anattā). Questa liberazione dal desiderio consiste propriamente nel distacco (virāga).

Qui tutto è incentrato sulla possibilità che l’essere umano è in grado di attuare attraverso le sue capacità intellettuali e morali di realizzare un distacco dalle radici della sofferenza e cioè dalla brama. Questa estinzione coincide con il contenuto della Terza Nobile Verità.

Abbiamo parlato di verità senza tirare in ballo un Dio da cui essa discenda, ma ciò non toglie che se ne possa parlare anche in chiave mistica. Parlando di verità abbiamo introdotto concetti quali “eterno presente”, “equanimità”, “silenzio”, “non attaccamento” e “non azione”; tutti questi concetti evocano un problema di relazione tra l’assoluto e il relativo. Per entrare a fondo nel rapporto assoluto/relativo bisogna evocare il concetto di Dharmakaya (corpo della dottrina). La parola Dharma presenta diversi significati e indica quattro ordini di realtà: a) la legge cosmica che regola le vicende del mondo, b) la verità universale preesistente al Buddha, c) le norme di comportamento e d) e la realtà sia come singola realtà sia come insiemi di singole realtà. Detto questo possiamo dire che dharma evoca ciò che nel pensiero occidentale si chiama “il vero” e nel senso più ampio una verità di fatto e di ragione. Esso, peraltro, assume nella tradizione buddhista anche altre denominazioni: Dharmatā (Natura del Dharma), Dharmādhatu (Ambito del Dharma), Bhūtatathāta (l’essere proprio di ciò che è tale), Sūnyatā (Vacuità). Ora, se si cerca di unificare tutti questi significati in vista di trovare un termine occidentale che ne sia l’equivalente, si può proporre quello di Assoluto.

L’essenza del Dharma sta nella sua infinitezza che è sia spaziale che temporale, linguistica e logica: proprio perché non se ne possono stabilire i confini esso risulta inafferrabile da qualsiasi concetto e risulta quindi anche inesprimibile da qualsiasi parola e da qualsiasi discorso. Ciò non significa, tuttavia, che esso non esista, anzi si pone come condizione di possibilità di ogni ente, di ogni dire e di ogni comprendere.

Il termine “vacuità” (Sūnyatā) può essere assunto come quello che meglio rappresenta la funzione infinitamente “positiva” del Dharma: contrariamente a quanto pensa il senso comune, “vacuità” non va intesa come sinonimo di “nulla”, ma come condizione di massima apertura che consente il darsi e il dispiegarsi di ogni determinazione. Essa può essere paragonata allo spazio infinito che accoglie ogni dimensione e ogni figura; oppure al tempo immenso da cui nasce ogni temporalità misurabile; o al silenzio che è all’origine e alla fine di ogni suono e di ogni parola.

In breve il Dharma, in quanto Assoluto, proprio perché non contenibile in alcuna forma, è l’origine sempre attiva di ogni forma relativa. Gli stessi dei o il Dio delle religioni monoteistiche in quanto determinati non possono rappresentare compiutamente l’assoluto.

L’assoluto per essere tale dovrebbe essere sciolto da qualcosa che è relativo ad esso, e che lo fa essere. In altre parole quindi, si dovrebbe concludere che non vi può essere un Assoluto vero e proprio, un Assoluto in sé e per sé, ma solo in rapporto a un relativo che lo esige. Questa conclusione circa il condizionamento dell’Assoluto è del tutto coerente con uno dei principi generali degli insegnamenti del Buddha, secondo il quale «essendoci questo, c’è quello; apparendo questo, appare quello; sparendo questo, scompare quello».

Il tema dell’Assoluto sollecita tuttavia anche un altro ordine di problemi, di carattere più “esistenziale” che logico: il singolo individuo che intenda cogliere tale Assoluto, come potrà farlo, visto che questo, per sua propria natura, non può essere colto da nessuna forma limitata, sia essa una figura, un concetto o una parola? Non è infatti possibile continuare a pretendere che un individuo relativo, finito, convinto della propria identità personale, persista nello sforzo di cogliere qualcosa di assoluto, di indeterminabile: un simile sforzo è destinato a fallire, se ciò che deve essere raggiunto è di natura diversa da quella di chi lo vuole raggiungere. Ecco allora che il Buddha tenta di prefigurare un tipo di uomo che sia in grado di rinunciare alle caratteristiche che non gli consentono di cogliere l’Assoluto: è necessario rendersi il più possibile simili all’oggetto che si vuole cogliere. Si deve, cioè, provare a diventare l’Assoluto.

Il soggetto che voglia tentare di “adeguarsi” all’Assoluto dovrà sciogliersi dall’idea di identità che è alla base del proprio io, dovrà cioè praticare il distacco (virāga) da quell’idea di Io indipendente che è al centro di ogni forma di attaccamento ai beni materiali e ai beni ideali. Il Buddha tenta di scalfire questo inossidabile senso di proprietà dell’io grazie al concetto del “non sé” applicato all’io, mediante il quale dimostra che ciò che normalmente si intende come individualità personale è in realtà il risultato sempre mutevole di una serie di aggregati.

In un celebre scritto buddhista del I sec a.C., Milindapañha si ha una versione assai semplice dell’applicazione di questo concetto alla “fantasia” dell’io. Il Maestro Nāgasena, al re Milinda che stenta a comprendere l’insostanzialità dell’io, chiede con che cosa egli identifichi il carro: con il timone, l’asse, le ruote, il telaio, l’asta della bandiera, il giogo, le redini o il pungolo. Ovviamente, il re è costretto a negare che qualcuna di queste parti coincida col carro. Al che Nāgasena chiede: «Ma allora, sire, il carro è forse qualcosa di altro rispetto a timone, asse, ruote telaio, asta della bandiera, giogo, redini e pungolo?». La risposta è, ovviamente, negativa, per cui la conclusione è: alla parola “carro” non corrisponde alcunché di reale, ma un aggregato di parti o, meglio, di funzioni.

Considerazioni analoghe possono esser fatte a proposito dell’io: se si prova a catturarlo in una definizione, esso si scioglie in una molteplicità di parti, il che significa che dipendendo  l’io dipende da quelle parti, non può essere inteso in sé e per sé, come ente autonomo e incondizionato, ma non può nemmeno essere ridotto all’insieme di ciò che lo condiziona. In quanto non è una sostanza, l’io è anattā (non sé); in quanto eccede le sue componenti e le sue funzioni è śūnya (vacuità).

In realtà il non sé (anattā) e la vacuità (śūnya) coincidono: proprio perché l’io non è qualcosa che esiste in sé e per sé, esso risulta privo, “vuoto”, di ogni determinazione stabile e assoluta.
Ebbene, a questo punto non è difficile constatare che le caratteristiche anattā e śūnya, individuate come proprie dell’io, sono le stesse che, su scala più ampia, appartengono all’Assoluto: all’insostanzialità particolare di ogni individuo corrisponde l’insostanzialità universale dell’Assoluto. Ora, dal punto di vista di colui che intenda, in qualche modo, congiungersi o ricongiungersi all’Assoluto, questo significa che, quanto più costui riconosce di essere anattā e śūnya, tanto più scopre che anche l’Assoluto è anattā e śūnya. Quanto più l’uomo si stacca dal senso dell’io, tanto più si stacca dal senso di un Dio limitato, inteso come persona definita: tanto più l’anima individuale si apre, tanto più grande diventa l’idea di Dio, fino al punto che, essendo entrambe illimitate, coincidono. L’itinerario mistico buddhista sta in questo cammino di distacco da ogni identità limitata e fissa, sia essa riferita all’io che all’Assoluto: l’illuminazione o il Risveglio, culmine finale di tale itinerario, consiste nello scoprire e nel realizzare la Natura-di-Buddha, la Buddhità. Questa allude alla qualità universale che ogni essere vivente possiede prima e al di là di ogni qualificazione determinata, individuale o personale, cioè oltre ogni «nome e forma». Come tale, la Buddhità coincide con la Vacuità (śūnyatā) intesa non in senso nichilistico, ma, anzi, nel senso dell’infinita potenza di una realtà massimamente aperta, come quella di un cielo che ospita ogni forma di nuvola, o come quella di un oceano che accoglie ogni forma di onda, dove la massima apertura, proprio perché è condizione e garanzia del sorgere di ogni possibile forma, deve essere senza forma. Proprio perché è senza forma, la Vacuità coincide con il nibbāna, ossia con l’estinzione di tutti i modi con cui la mente si blocca in qualche contenuto particolare. Il Buddhismo raggruppa questi modi in tre categorie di «fattori nocivi» (akusala): l’attaccamento (lobha), l’avversione (dosa) e l’illusione (moha). In realtà il concetto di “attaccamento” è comune a tutti e tre, dato che nell’odio vi è attaccamento all’oggetto che si odia, così come nell’illusione vi è attaccamento a ciò che si crede vero. Nella condizione di nibbāna ciò che si estingue è la forza che alimenta tutte le varianti di queste tre forme di attaccamento, compresa quella dell’attaccamento ai due contenuti ritenuti normalmente più “nobili” e positivi, all’io e all’Assoluto. Pertanto realizzare la Buddhità significa realizzare la Vacuità, e realizzare la Vacuità significa realizzare il nibbāna: ed è opportuno usare il verbo “realizzare”, perché, se si impiegasse “ottenere” o “raggiungere”, si sarebbe portati a pensare che Buddhità, Vacuità e nibbāna sono sublimi “oggetti” da conquistare, mentre, invece, essi connotano la condizione in cui non vi è più alcun “oggetto” separato a cui attaccarsi. Nibbāna e i suoi equivalenti, in definitiva, non possono essere oggetti nemmeno del desiderio più sublime e spirituale, dato che rappresentano l’estinzione della tensione che alimenta il desiderare in quanto tale. Ebbene, se l’estinzione del desiderare è radicale, senza residui, essa comporta necessariamente anche la liberazione da ogni volontà di identificazione, e comporta pertanto anche l’affrancamento da ogni elemento di separazione tra l’Assoluto e l’io che l’ha “raggiunto”: tanto che si dovrebbe dire che non c’è più nemmeno l’idea di un Assoluto raggiunto, né quella di qualcuno che l’ha raggiunto. È chiaro che, a questo livello, le possibilità di dire vengono meno, non a caso, dunque, il Buddha scelse il «Nobile silenzio» come risposta a ogni quesito riguardante la verità ultima.

Ancora sulla Vacuità

Tratto da: Freeweb.net

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Elemento centrale della dottrina Buddista è il concetto di vacuità, concetto che non di rado è soggetto ad interpretazioni errate e che portano di conseguenza a considerazioni di natura nichilista nei confronti della dottrina stessa. La vacuità al contrario è fonte di liberazione per il praticante, perché attraverso la meditazione sulla stessa, l’individuo realizza un graduale distacco dal proprio egocentrismo. E’ importante però non limitarsi ad una mera comprensione intellettuale, ma cercare invece di farne viva esperienza nell’osservazione della realtà. Per definizione, la vacuità è l’assenza di esistenza intrinseca o a se stante di tutti i fenomeni, intendendo qui per fenomeni sia la realtà sensibile sia i diversi aspetti dell’Io umano.
Quando parliamo di esistenza intrinseca o più genericamente del Sé, immaginiamo un qualcosa che abbia un carattere proprio, a se stante e indipendente dal tutto, ma se noi scendiamo più in profondità nell’analisi di un determinato fenomeno senza limitarci ad una grossolana visione dello stesso, possiamo osservare che questo assume svariate caratteristiche a seconda del rapporto che esso instaura con gli altri fenomeni circostanti o con l’uomo stesso. Dovendo quindi stabilire un carattere univoco, quale è richiesto dalla definizione di esistenza intrinseca del fenomeno analizzato, scopriamo che in realtà esso ne è privo, perché come abbiamo constatato il suo esistere dipende da cause e condizioni esterne. Non si vuole affatto affermare la totale inesistenza di un fenomeno, ma si vuole solo evidenziare il suo carattere dipendente.
Dei due tipi di vacuità, una in relazione alle cause del divenire (impermanenza), e l’altra come risultato del rapporto instaurato con l’uomo, la seconda è senza dubbio la più importante. Questo perché attraverso la sua completa comprensione, non si osservano più i fenomeni solo in relazione a noi stessi, ma anche in relazione ad altri fenomeni circostanti. Tutti i fenomeni quindi hanno due modi di esistere; il primo è un modo di esistere convenzionale, così come è percepito dai nostri sensi ordinari, mentre il secondo è la vacuità di esistenza intrinseca.
Similmente, ogni essere umano ha istintivamente una certa percezione di se stesso ovvero del suo “Io”, che condiziona tutta la sua esistenza. Questo Io che l’uomo avverte non sempre viene percepito con la stessa intensità, ma la percezione varia a seconda delle situazioni. Ciò che però a noi interessa analizzare, è quell’Io percepito come una presenza intrinseca all’interno di noi stessi che si ha quando per esempio viene toccato il nostro orgoglio, oppure quando veniamo accusati di cose che non abbiamo fatto. In queste situazioni si avverte come un affronto alla stabilità del nostro Io e di conseguenza reagiamo con sentimenti di paura o aggressività. Questo succede proprio perché avvertiamo questo Io come un qualcosa che ha una propria natura intrinseca e che è completamente indipendente da tutto il resto.
Ma se qualcosa esiste veramente, attraverso un’analisi logica dovremmo trovarlo alla fine però non riusciamo a trovarlo. Un Io intrinseco ed indipendente, allora potrebbe essere o la stessa cosa con i nostri aggregati psico-fisici, oppure qualcosa di completamente differente. Nel caso dell’identificazione con gli aggregati,se l’Io fosse il corpo fisico con i suoi sensi, allora dovrebbe essere esteso su tutta la superficie del corpo e all’interno di ogni senso, cosicché se venisse tagliata una mano e messa su un tavolo, allora anche una parte dell’Io rimarrebbe sul tavolo.
Se invece si pensa che l’Io risieda in un ben preciso punto del corpo o dei sensi allora dovremmo domandarci dove, ma anche in questo caso non lo troveremo in nessun punto del nostro corpo. Se invece si pensa che l’Io risieda nella mente o nella coscienza, cosí come a volte lo si identifica con il carattere o la personalità, anche qui non riusciamo a tdefinirlo entro limiti ben precisi. Tutti possiamo constatare come nel corso della nostra vita cambiamo frequentemente idee, interessi e pensieri e non solo da un anno all’altro ma addirittura dalla mattina alla sera. Questa è la chiara dimostrazione di come l’Io sia condizionato da varie cause. Viene quindi spontaneo sospettare che questo Io non abbia poi una natura così intrinseca come si crede.
Non riuscendo quindi a trovare questo Io intrinseco, dobbiamo forse riconoscere che esso abbia invece un carattere dipendente e cioè che esiste come una pura proiezione mentale che nasce sulla base dell’insieme corpo-mente. Non si nega quindi l’esistenza di una qualche forma di Io, ma si nega invece che esso abbia una propria natura intrinseca e indipendente da tutto. Tutto questo discorso sulla vacuità come abbiamo detto non deve essere fine a se stesso, perché altrimenti sarebbe una mera speculazione intellettuale, ma deve avere come scopo ultimo il distacco dal proprio egocentrismo, che è in ultima analisi la causa primaria di tutta la nostra sofferenza esistenziale.

La natura del samsara e la possibilità della liberazione

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Alcuni pensano che il samsara sia un posto, ma il samsara non è un luogo. Il samsara si riferisce a una persona che ha la mente e il corpo intrappolati e sottoposti alla sofferenza causate dalle emozioni afflittive e dal karma. Dunque la liberazione dal samsara comprende l’essere liberi dalle emozioni afflittive e dal karma (negativo). Il samsara è il nostro stesso stato psicofisico degli aggregati controllati dalle emozioni afflittive e dal karma. Tutte le emozioni afflittive e il karma negativo sono causate dall’ignoranza radice che è l’attaccamento al sè (repulsione da ciò che non ci piace attrazione da ciò che ci piace – visione dualistica). La saggezza che realizza la vacuità è l’antidoto all’ignoranza dell’attaccamento al sè, e siccome questo è la radice del samsara, la stessa saggezza porta alla liberazione dalla sofferenza.

Esempio 1)
Realtà: c’è un incendio sulla montagna

Ragionamento inferenziale: un uomo vede del fumo su una montagna e arguisce che c’è un incendio.

Percezione diretta della realtà: un uomo prende l’elicottero e vede le fiamme sulla montagna.

Esempio 2)

Realtà: é possibile la liberazione dalla sofferenza

Ragionamento inferenziale: il sé è vuoto di esistenza intrinseca (o meglio è vuoto di esistenza indipendente dalle cause e condizioni che lo hanno creato, è una mera imputazione, una etichetta), quindi l’attaccamento al sé non ha ragione di esistere, e visto che é l’attaccamento che porta alla sofferenza abbiamo dimostrato inferenzialmente il succo del discorso

Ragionamento più diretto: la saggezza che distrugge l’ignoranza dell’attaccamento al sé porta alla cessazione della sofferenza. Questo tipo di saggezza che comprende la vacuità è l’antidoto al samsara.

Vacuità, risultati dipendenti e Via di mezzo

I fenomeni sono vacui e privi di una esistenza intrinseca e indipendente perché:

– originano in dipendenza delle cause
– dipendono dalle parti da cui sono costituiti. Non è possibile trovare il fenomeno stesso in nessuna delle delle sue parti prese singolarmente, così come il fenomeno non è nemmeno la somma delle sue parti, infatti si dice che
– dipendono dal concetto che li designa con un nome

Bisogna comprendere che la vacuità di esistenza intrinseca significa risultati dipendenti, NON che le cose non esistono in senso assoluto e quindi staremo distanti dal la concezione nichilista.
Allo stesso modo quando comprendiamo le cose nascono in dipendenza delle cause, NON hanno esistenza indipendente e quindi staremo distanti anche dal concetto di permanenza assoluta.

Ecco perché si conclude che la vacuità, i risultati indipendenti e la “Via di mezzo” hanno tutti lo stesso significato.

Tratto da “La via della liberazione”, Sua Santità il XIV Dalai Lama, 2009

Vacuità dell’Io e meditazione

La vacuità

Noi siamo abituati dalla nostra mente “ordinaria” a percepire la realtà che ci circonda e tutti i fenomeni che la compongono attribuendogli una natura fissa, immutabile, tendiamo a pensare: “questo e così, è bello!” oppure “non mi piace!” ancora “quella persona è cattiva”; tendiamo cioè a giudicare tutto e tutti come se solo quello che pensiamo noi sia vero oppure che sia così sia anche per tutti gli altri. Proviamo ad immaginare che a due persone diverse venga chiesta una opinione su di una stessa persona: ognuno dei due darà un giudizio che si basa sui propri pre-concetti e sulla propria idea che si è fatto, e pur essendo la persona valutata la stessa per tutti e due, il giudizio su di essa sarà diverso. Non si può stabilire quindi un giudizio ‘reale’ che sia valido per tutti, sarebbe come chiedersi: “chi dei due ha torto e chi ha ragione?”. La risposta è: “tutti e due e nessuno”.
A questo punto potrebbe diventare più facile capire che:
la realtà e i fenomeni che noi siamo abituati a percepire sono quelli che vengono “filtrati” dai nostri 5 sensi, perciò dobbiamo essere consapevoli che non esiste una realtà definita uguale per tutti. Questo è dovuto al fatto che qualsiasi fenomeno di cui facciamo esperienza altro non è che una nostra personale interpretazione che origina della elaborazione della nostra mente, la quale traduce i segnali percepiti dai nostri sensi. Un oggetto o fenomeno o sensazione (insomma tutto!) viene percepito in maniera differente da ciascun individuo, questo perché tutti noi di solito siamo portati ad apporre una sorta di etichetta (o giudizio) a tutto quello che sentiamo e vediamo, quello che per me può essere una cosa piacevole ad un altro può non piacere, quindi non può esserci un valore assoluto attribuibile a nessun oggetto.
Una altra considerazione da fare è che anche per un singolo individuo una qualsiasi situazione, fenomeno, oggetto, ecc. ecc. che oggi può essere piacevole domani potrebbe non esserlo più, perché tutto muta, possiede la caratteristica dell’impermanenza, non è durevole e immutato nel tempo. Per esempio quante volte vi è capitato di pensare che una cosa era in un modo e poi si è rivelata essere in maniera diversa oppure di cambiare opinione su una persona?
Qui bisogna fare attenzione a capire che la realtà non è che non esiste per niente, ma non esiste in maniera assoluta, è vuota di una esistenza indipendente. Indipendente da che cosa? Da quello che ognuno di noi percepisce.
Tutti i fenomeni, come abbiamo detto fino a qui, sono allora da considerarsi privi di un sé, vuoti di identità a sé stante, di un esistenza intrinseca, sono impermanenti, non esistono al di fuori della nostra mente in maniera assoluta e immutabile proprio perché è la nostra mente ad elaborarli e nessuno possiede una natura indipendente perché dipendono da quello noi percepiamo. È questa la vacuità!
Dal momento che la realtà è composta dai fenomeni che percepiamo possiamo concludere che la realtà possiede la caratteristica della vacuità.
È questa la realizzazione della vacuità della realtà.
La nostra mente “ordinaria” non riesce a percepire la vacuità, al contrario tratta la natura dei fenomeni come se fossero indipendenti e stabili, dotati di natura immutabile e certa, per questo bisogna realizzare la vacuità e liberarci da questo meccanismo che crea una realtà illusoria e che porta sofferenza.

La vacuità dell’io

Per prima cosa, senza eliminare la concezione concreta dell’ego è difficile trasformarsi, quindi è molto importante riconoscere il vero modo di esistere dell’io. L’Io, di per sé, non può mai essere visto come sostanza, non può mai essere fermato, ma può essere colto in funzione. L’Io è come una corrente elettrica, per mezzo della quale manifesta se stesso attraverso una consecutive energie in funzione. Si manifesta anche semplicemente ogni volta che si percepisce qualcosa attraverso i sensi, ogni volta che pensiamo “io e gli altri”, insomma l’Io di per sé non esiste, si attiva solo in conseguenza di qualcos’altro, sia esso una sensazione o la mera individuazione di se stessi rispetto agli altri. Non esiste in quanto anche gli altri diventano”Io” quando sono loro ad individuarsi in mezzo alla gente, quindi non esiste nemmeno in senso assoluto: è svuotata dal senso comune di entità fisica a se stante.
La stessa esistenza della persona, la vita, il corpo fisico, il respiro, la parola, la capacità di ascolto, la comprensione, l’ignoranza, il peccato, il male ed il bene, nonché lo stesso Karma testimoniano questo punto di aggregazione chiamato, convenzionalmente, “Io”. Ma tutte quelle cose, in realtà, non sono che mere correnti di energia, prodotte dalla nostra mente e che si uniscono fluttuando come semi di una collana intorno ad un filo invisibile, che possiamo chiamare “ l’Io”.
Usate la vostra saggezza, siate semplicemente consapevoli di ciò che sentite. La vostra normale consapevolezza è sufficiente, non è una cosa estremamente difficile, sapete. Molti pensano che la vacuità sia difficile. Sunyata non è difficile. Perché no? Perché se riconoscete che questa falsa proiezione dell’Io, questa illusione è solo una vostra interpretazione e non esiste realmente nel modo in cui vi appare, allora potrete capire la vacuità. Non è necessario studiare una complicata filosofia. E’ un dato di fatto.
La cosa importante è essere sempre consapevoli di come il vostro ego e la vostra mente percepiscono la realtà: “Sono una persona meravigliosa, sono un fallito, sono così e così … “. E’ sufficiente osservare la vostra interpretazione della realtà, questo è già abbastanza.
La nostra impressione dell’ego è che ci sia un ‘lo’ qui, da qualche parte, dentro questo corpo, che ci aspetta per dirci: “Ciao!”. Il nostro abituale concetto del modo di esistere dell’io è credere che esso sia qualcosa di indipendente. Dovete riconoscere questo processo e comprendere che questa interpretazione non corrisponde alla realtà.
Questa è sunyata. La mente ordinaria e superficiale applica un nome al corpo e quello diventa “lO”. In altre parole, la realtà di “lO” consiste solo in un nome, un’etichetta.
Ma la cosa interessante è la psicologia dell’ego. L’ego non vuole ammettere di essere solo un nome. L’ego vuole qualcosa oltre a un nome, vuole qualcosa con cui identificarsi. Il semplice nome non è abbastanza soddisfacente per l’ego. Ma la verità è che un nome è solo un nome.
Nel Buddhismo, quando cercate sunyata, nel momento in cui siete consapevoli, quel tipo di attenzione distrugge l’apparente auto-esistenza che è qualcosa di totalmente irreale. Questo è il modo di cercare sunyata. Semplicemente eliminare il falso modo in cui l’io appare, questo è sunyata. L’abilità consiste nell’osservare !’interpretazione dell’ego, come l’ego interpreta la realtà. Dovremmo sviluppare questa capacità. Perché? Perché quando non la si osserva, non la si controlla, la proiezione dell’ego continua, come una danza, ma nel momento in cui si osserva sparisce. Capite? È come un trucco. E’ come una certa spiegazione data nella religione hindu: il Principio della Vita crea le situazioni del desiderio e quando la persona che medita improvvisamente realizza che queste situazioni sono tutte manifestazioni di quel Principio, a quel punto, il Principio le elimina; all’improvviso l’oggetto creato dal Principio viene eliminato. Finché io ignoro questo Principio, egli produce per me gli oggetti del desiderio, per illudermi di più; produce ulteriori oggetti di odio, ulteriori oggetti dell’ego. Poi, quando medito e comprendo che tutte queste cose sono manifestazioni di questo Principio, allora il Principio improvvisamente le toglie di mezzo.
Ora, quando non lo osservate, l’ego è molto grande, è qualcosa di incredibilmente corposo che danza di continuo, ma sparisce nel momento in cui lo guarda e lo si osserva. Nel momento in cui riconoscete che quell’io concreto e incredibilmente forte e assolutamente inesistente, è solo una vostra proiezione, allora scoprirete sunyata.
Quindi ogni volta che si manifesta l’eccitazione emotiva, arriva una forte proiezione dell’io, e quello è il momento adatto per riconoscerlo. Lo si può fare quando si è arrabbiati: quello è un momento molto importante. Altrimenti se siete in pace, come certamente siete ora, magari il vostro io che sembra esistere concretamente è sparito o dimenticato. Il punto principale su cui lavorare è il nostro ego istintivo, l’ego innato. E’ sempre lì, fin dalla nascita. Questo ego istintivo proietta continuamente un io esistente di per sé, per questo è così tenace.
Dovete osservare come l’ego interpreti continuamente l’io e come a un certo punto questo scompaia, diventi inesistente. Mantenete costantemente questa consapevolezza: questa è la meditazione su sunyata. Quando si annulla l’interpretazione egoistica dell’io, a volte potete provare paura, una specie di paura istintiva: “allora io non esisto”. Avete l’impressione di non esistere e avete paura, toccate il vostro corpo, spesso questa esperienza avviene così. Può succedere in qualsiasi momento, come un lampo. A un Certo punto, quando si osserva correttamente, può verificarsi l’esperienza di sunyata, in qualsiasi momento. Allora mantenete questa memoria senza nessun pensiero concettuale, lasciare fluire senza mettervi a pensare a questo o a quello. Quando si presenta il pensiero discorsivo, fermatevi, semplicemente.
Qualsiasi impressione, per esempio che questo fiore esista a prescindere dal suo ambiente, è sbagliata, non arrivate a questa conclusione. L’importante è percepire almeno un certo grado di non esistenza, come per esempio: “lo non esisto indipendentemente da un “me” designato, tu non esisti indipendentemente da un “te” designato, questo oggetto non esiste indipendentemente dal suo contesto”.u
Si diventa quasi convinti di essere completamente inesistenti. Parlo di un’esperienza. L’esperienza dovrebbe essere di totale inesistenza. Quando l’interpretazione egoistica dell’io, che è cosÏ forte, sparisce, allora si arriva quasi a sentire che tutto è inesistente.
Non parlo di un’esperienza nichilista, che nega ogni esistenza. Naturalmente sentite che il vostro corpo esiste, ma allo stesso tempo sentite che non esiste la proiezione del vostro ego riguardo al corpo. Perciò sperimentate che qualcosa sparisce completamente. A volte può avvenire senza paura, senza felicità, senza una forte eccitazione. A volte si prova agitazione. Qualcosa di concreto è lì, simile a una roccia e poi improvvisamente non c’è più, e provate una gran paura. A un certo punto non sapete più cosa sia successo. A volte, invece, può essere semplicemente un’esperienza di grande beatitudine, sapete, completamente piena di beatitudine. Ci si toglie come un peso dalle spalle, e provate una beatitudine così grande che vi viene da piangere dalla gioia, e in quel momento si diventa quasi del tutto incoscienti. Sapete cosa voglio dire? Penso che questa esperienza avvenga perché ci si toglie di mezzo quel peso tremendo. La natura di sunyata è cosÏ, non concettuale, non idealistica, non dualistica.
Grazie alla consapevolezza, alla semplice consapevolezza, l’idea di concretezza diventa completamente inesistente, non esiste il “me” che sperimenta il ‘fuori di me’, non c’è assolutamente nessuna conoscenza dualistica in questa esperienza, in questo momento di saggezza.
La vostra mente lasciatela fluire. Mantenetela in uno stato di chiarezza e trasparenza, mantenetela in quello stato non concettuale, non dualistico, non duale per natura. Mantenetela semplicemente in quello stato. Non date spazio ai pensieri su questo e su quello, o a colori, forme e nomi. Semplicemente osservate.
Vi è inoltre una differenza tra meditare semplicemente sullo spazio vuoto e l’eliminare il concetto di proiezione egoistica. In realtà è qualcosa di completamente diverso. Non si tratta semplicemente di sentirsi inebriati da questa sensazione di spazio: il punto chiave, il vero cambiamento è sunyata, non è il sentirsi come ubriachi. Riuscite a capire in modo chiaro? Quando si è in ospedale ci fanno un iniezione che ci annebbia totalmente. Ciò non ha niente a che fare con sunyata, perché si continua ad avere il pesante fardello di un io concreto. Invece quando si percepisce questo intervallo dovuto a Sunyata, quando si sperimenta questa corretta percezione di sunyata, allora è molto facile diventare la divina Madre Tara. La compassione, l’aspetto più tenero dell’essere, sia umano che divino, che era il cuore del Buddismo, si rivelò al meglio nella struttura femminile. La tenerezza e la grazia prettamente femminili con cui le successive immagini buddiste furono concepite, definiscono l’epitome dell’iconografia e dell’arte buddista. Dopo benevolenza e protezione, altre virtù che rappresentavano meglio la femminilità furono aggiunte a quella cardinale della compassione, ecco perché Madre Tara (Madre di tutti i Buddha).

Meditazione sulla Vacuità dell’Io

La meditazione è uno strumento per indagare e superare i nostri pensieri ordinari che sono legati e limitati al nostro concetto di “Io” e permette alla nostra Coscienza di diventare consapevole individuando gli elementi che possono portare la mente a compiere le azioni negative che sono il frutto delle nostre illusioni.
Tutti gli strumenti hanno come effetto l’eliminazione delle cosiddette negatività mettendo sotto il microscopio il nostro Io ordinario. Dopo aver “visto” i difetti dei nostri limiti umani, si giunge alla percezione mentale che è la “chiara visione della realtà”. Visione diretta che viene impedita dal nostro Io ordinario ed egoistico che è proprio, esso stesso, la spugna assorbente delle negatività. Per mezzo del microscopio fornito dalla meditazione, la Coscienza non è che vedrà qualcosa di ben definito, infatti non c’è un Io ben definito, strutturato, sostanziale che possa essere richiamato a volontà per venir messo sotto la lente di ingrandimento.
Nel Buddismo, il termine Vacuità sta a indicare la mente vuota, libera da concetti e pregiudizi dettati dall’ego, ma anche la originaria Natura di tutte le cose.
Per poter illustrare concettualmente la Vacuità del Buddismo, se mai fosse possibile, potremmo riferirci alla mente di un essere vivente che abbia pienamente compreso se stessa, e si sia “svuotata” di tutti i precedenti contenuti, una Super-coscienza fortemente consapevole che si renda conto di “possedere un corpo”, temporaneo, impermanente e soggetto alla “Legge del Karma”. Una Mente luminosa e collegata a tutto l’esistente che non dipende più dai pensieri, progetti e disegni, della persona che si è generata da essa, (oltretutto illusoria, in quanto vittima della sua precedente ignoranza e che era obbligata a sottostare alla ferrea Legge dell’Impermanenza). Una Mente che, cogliendo la sua vera essenza naturale, si chieda: “Com’è l’Essenza naturale della mente prima che produca i prodotti del pensiero?” Ecco, quella sarebbe l’autentica Vacuità in cui si dovrebbe gettare lo sguardo. Quello sarebbe il cogliere la Vacuità.
È ovvio che noi si debba fare uno sforzo quasi sovrumano per cogliere questa vera Vacuità utilizzando la nostra consueta mente umana. Ecco perché lo strumento della meditazione ci viene in aiuto. In un perfetto stato di silenzio mentale, ottenuto con la pratica meditativa non si generano concetti e idee personali, non si presenta la violenta sensazione dell’Io. Si coglie la realtà così com’è nel suo stato originario attraverso la meditazione analitica e la si ‘fissa’ con la meditazione stabilizzante.

Fattane esperienza, questa diventa trascinante, in quanto la persona pur rientrando successivamente nello stato ordinario, rimane consapevole di questa sperimentazione, quindi non potrà più ricadere nell’ignoranza del “com’era prima!”.
Pur constatando che, in realtà, nulla è cambiato nel suo insieme rispetto a prima, ci si scopre “uomini nuovi”. Anche se nella persona alita sempre lo stesso respiro e nella mente continuano ad avvenire identiche possibilità di esperienza, il fatto di aver potuto superare questi “limiti” non stravolge l’entità primordiale in cui ora ci si ritrova e ci si riconosce. Ciò che veramente e finalmente cambia è la nostra dipendenza dall’energia primordiale che, ora, viene legittimata come “Mente” e non più come “Io”. È come se l’Io, pur restando tale a livello relativo nell’utilizzo delle funzioni umane, deponga lo scettro del potere con cui, prima, usurpava l’energia della Coscienza, in quanto ora la mente se ne è riappropriata. In pratica, con la meditazione sulla Vacuità, il nostro Maestro interiore fuoriesce e riconosce la sua stessa persona umana come un autentico Buddha.
Allo stesso tempo non verranno più escogitati artifici o espedienti egoistici nella discriminazione tra bene e male. Quando la Coscienza Superiore prende coscienza di sé, non può più sottostare volontariamente all’inganno dell’ego e, perciò, non si formeranno più i cosiddetti “karma negativi”. Le azioni negative, che in definitiva sono solo azioni volontarie dell’Io, dell’Ego ignorante, cessano di essere messe in atto, perché la mente che è consapevole di sé corrisponde alla liberazione dell’Io dalla sua stessa negatività.
E allora una persona che, con questi strumenti, realizza la reale natura dei fenomeni e dell’Io, ottiene una liberazione in quanto ha modificato, ha cambiato il proprio Io da negativo a positivo in un battibaleno. Questa è la Via verso la Liberazione. Non porta all’eliminazione dell’Io empirico ma ci pone al riparo dagli effetti karmici dell’Io strutturale, perché la mente comprende la Vacuità dell’Io, e l’Io stesso finalmente comprende la sua propria Vacuità. E, per questo, ne sarà liberato, non ne sarà assolutamente oppresso. Non avrà affatto idea di aver sostenuto una lotta, né di aver subito un danneggiamento. A questo livello, l’Io sarà felice.
Lo stesso Buddha comprese appieno il tremendo pericolo dell’Io che imprigiona le menti degli esseri umani. Egli comprese che la causa dei dolori e delle sofferenze dell’umanità derivava dall’attaccamento all’Io : “Io sono migliore di te, più alto, più bello, più ricco, più intelligente…”. Non è l’Io empirico, come abbiamo detto, il vero pericolo per la mente. Sono questi pensieri attribuiti alla propria idea di Io e relativo attaccamento che, esprimendo un potere di un Io realmente esistente, producono effetti karmici negativi e micidiali. Rendiamoci conto che la persona per stabilirsi in termini propositivi, siano essi conflittuali o descrittivi, usa il termine Io solamente per presentare se stessa di fronte ad altre presunte individualità che, allo stesso modo, la fronteggiano con il loro relativo “Io” opposto ed antagonista. Perciò, essa richiama da uno spazio mentale non ben precisato questa entità, questa imputazione psicologica, l’Io appunto, mettendola in campo contro altre presupposte entità. Questo è il dramma della ignoranza metafisica (AVIDYA’) che genera la separazione, la divisione, la disarmonia e la “non-unità”.
Ma quanto è conosciuto e sentito veramente, questo dramma? Nella vita di tutti i giorni, quasi mai. È sentito solo in rare occasioni, quando si manifesta la terribile violenza dell’attaccamento all’Io che porta conseguenze irreparabili a se stessi ed agli altri. L’Io pericoloso, cui il Buddha richiama tutta la nostra attenzione, è QUESTO. Non l’Io empirico e formale, occasionale, che dichiara –io ho fame, io ho sete, io sto bene, io sto male, ecc.- quest’ultimo è un Io imputato, strumentale, che ha valore, e serve, soltanto nel mondo della relazione. Questo tipo di Io, che peraltro appare solo in determinate occasioni funzionali, non è pericoloso, non è da eliminare. Perciò, non bisogna pensare alla Vacuità come eliminazione del senso dell’Io.
La Vacuità è la comprensione della relatività dell’Io, della sua temporanea utilità funzionale e, al tempo stesso, l’assimilazione della inesistenza concreta e sostanziale di una “reale” entità che crede di esistere intrinsecamente col nome ”Io”. Riferendoci al consueto esempio della campana, che trattiene dentro di sé l’aria. In questo momento, il metallo che forma la campana potrebbe credere di essere, sostanzialmente, la campana stessa. E, per tutto il tempo che la campana avrà esistenza, sarà indubbiamente così. Ma, se si fonderà la campana, si riotterrà solo del metallo che, quindi, non potrà più fare opera di identificazione con la campana, che non ha più esistenza.
La meditazione sulla Vacuità dell’Io non deve essere la creazione di un qualunque altro concetto da aggiungere ai precedenti già etichettati nella mente. Il mistero della Vacuità sta proprio nel fatto che non c’è niente di nuovo, ma in realtà c’è totalmente un nuovo modo di interpretare l’esistenza. La Vacuità è il modo di far comprendere alla mente il reale modo di esistere dei fenomeni, poiché essa li percepisce tutti come esterni a sé. Infatti, anche ciò che sembra essere percepito come interno, in realtà appare come , e non della mente. Per esempio, la mente può vedere e cogliere le nostre emozioni e ritenerle fenomeni interni, ma in realtà, proprio perché può conoscerli come un “secondo” rispetto a se stessa che ne ha percezione, essi sono fenomeni .
Ora, per evitare che la mente stessa, sballottata qua e là da queste speculazioni, finisca per attaccarsi alla convinzione che tutti i fenomeni siano dunque esterni, creando così ulteriore confusione, chiariamo subito che la Vacuità non potrà dare conferme sul piano concettuale. Infatti, i Testi del Chan dichiarano che TUTTI i fenomeni esistono all’interno della mente. Dunque, questa apparente contraddizione va risolta non con la logica razionale, bensì con la visione introspettiva e con la profonda intuizione trascendente. Ecco perché si afferma la Vacuità dell’Io e di tutti i fenomeni. Questa è la chiave per la realizzazione. Infatti, il karma che si ostina a rimanere incollato all’Io è causato dall’ignoranza di considerarsi sempre quell’Io. Se si riuscisse a liberarci dall’idea di essere quell’Io, immutabile e permanente, immediatamente verremmo liberati dalla schiavitù del karma.

Meditazione al momento del distacco

Pensiamo per esempio che al momento della morte fisica, l’Illuminazione può essere facilitata perché l’attaccamento all’Io può venir estirpato bruscamente dalla consapevolezza dell’immediata esperienza di morte. Al momento del trapasso vi è una veloce constatazione della imminente cessazione di ogni aspettativa e di tutti i desideri, chi comprende che non è più utile, anzi che è addirittura assurdo e dannoso, continuare ad attaccarsi all’Io, comprende, di colpo, la Vacuità dell’Io. La morte stessa ci fa capire che è impossibile che l’Io possa mantenere quel potere, illusorio ed arbitrario, di immortalità ed eternità che cullavamo durante la vita. Quindi, questa comprensione lampante, in quel preciso istante, per i meditanti e per le menti sottili ed intuitive, è un momento di Illuminazione e, perciò, di Liberazione finale.
Ora come ora, dobbiamo evitare di pensare a cosa potrà accaderci in quel preciso momento, perciò cerchiamo ora di essere liberi anche dall’attaccamento ad un Io liberato. Non potremo mai ottenere la Liberazione finale se la poniamo come un traguardo, se ci sforziamo di volerla raggiungere. Mentre, se ce ne liberiamo già adesso, comprendendo l’illusorietà dell’Io pur continuando a fruirne liberamente nella sua relatività ma senza attaccarci, già questa è liberazione, già siamo realmente liberi…

L’Io inconsistente

Il Buddismo nega che l’Io possa esistere come entità a se stante, perché esiste solo in relazione con quello che gli sta attorno. Non esiste un Io autonomo, è sempre in relazione ad un oggetto, a una cosa astratta, a una teoria, a una persona, cioè non esiste se non in relazione a qualcos’altro. L’essere coscienti non è una attività pura ed isolata ma si è sempre coscienti di qualcosa, non si è mai coscienti di per sé in modo assoluto. Possiamo essere coscienti di un idea, di un oggetto, di uno stato d’animo, quindi il nostro Io è sempre in relazione ad un altro contenuto sia concreto che astratto. Questo significa che l’Io in sé è un concetto astratto, non lo possiamo mai trovare concretamente, è un fenomeno costituito da funzioni relazionali.
Noi siamo abituati a credere e vivere come se l’Io fosse una realtà autonoma, noi pensiamo sempre io e qualcos’altro, io in questa stanza, io e gli altri …. ma questo Io assoluto non esiste, e ciò lo dimostra anche il fatto che per un’altra persona noi facciamo parte degli altri perché anche lei pensa di avere un Io concreto. Per il Buddha comprendere che l’Io in sé non esiste è fondamentale, infatti egli afferma che gran parte delle nostre illusioni e dei nostri desideri deriva da questo percepire l’Io in maniera autonoma, come se esistesse indipendentemente da tutto il resto, fisso ed immutabile, come cristallizzato. Al contrario l’Io è una serie di funzioni relazionali non cristallizzate, che sono in continua trasformazione, in una singola parola possiamo dire impermanenti. Credere che ci sia un Io, fisso ed immutabile che si rivolge ad altri oggetti anch’essi dotati di un io cristallizzato alimenta una serie di desideri ed illusioni, perché tutto è sempre in continua trasformazione, immerso nella danza dell’impermanenza, ma noi percepiamo tutto come permanente ed è da qui che origina la grande illusione, è da qui che originano il desiderio e l’attaccamento. La radice fondamentale della sofferenza è proprio la percezione dell’Io in maniera permanente, che possa esistere indipendentemente da qualcos’altro, quindi per eliminare la sofferenza noi dobbiamo sradicare questo concetto, dobbiamo sviluppare il non attaccamento a questa idea dell’Io autonomo.
Quando pensiamo al non attaccamento immediatamente ci viene in mente il distacco dai piaceri, dalle passioni, dal sesso ma non è così, perché altrimenti rischiamo di dare al Buddismo una connotazione ascetica. Il non attaccamento che il Buddha raccomanda è riferito a tutto, sia ai piaceri che ai dolori, ma anche qui bisogna fare attenzione perché si correrebbe il rischio di definire il Buddismo come nichilista, legato all’esaltazione del nulla. Infatti il buddismo non proclama l’esaltazione del nulla perché altrimenti anche questo sarebbe come un attaccamento a questa ideologia. Quando il Buddha dice di non attaccarsi a qualche cosa comprende tutto, l’Io, il nirvana perfino l’insegnamento del Buddha stesso perché il problema non è l’oggetto dell’attaccamento ma bensì l’attaccamento stesso! Non si tratta quindi di respingere o esaltare la realtà come si fa nei monoteismi in cui ti danno una lista di comandamenti dove si afferma che una cosa non va fatta e quindi va respinta ed un’altra è da fare e allora va esaltata. Si tratta invece di osservare la realtà ponendo attenzione al suo manifestarsi, un piacere o un dolore non va né cercato né evitato questo è il corretto atteggiamento del buddista capace di cogliere sia il piacere che il dolore come un fenomeno dalla struttura impermanente, pensare che sia il piacere che il dolore come sono arrivati così passeranno, va sempre sottolineato l’aspetto impermanente della realtà. Questo è il non attaccamento.