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Ajahn Sucitto – Le perfezioni – Equanimità (cap. 10)

Equanimità o equilibrio mentale è la mente che si astiene dal diletto e dalla sofferenza, dagli alti e dai bassi. Come pratica è profonda, attenta e piena. Va considerata alla luce di quello che la mente fa di solito, e di come è motivata a ottenere il piacevole e l’eccitante, e ad allontanarsi dal dolore, dal biasimo e dalla perdita.

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato la gentilezza e la compassione, e queste sono le primi due delle quattro dimore divine, che sono quegli stati mentali nobili, abbondanti e spaziosi nei quali includiamo gli altri come noi stessi. Il terzo è la gioia empatica, l’intenzione di apprezzare la buona fortuna e la felicità degli altri. Ma il più profondo dei è l’equanimità. In questo contesto, è un atteggiamento mentale equilibrato di accettazione di se stessi e degli altri. Con l’equanimità possiamo entrare in sintonia con gli altri, siano essi allegri o depressi, e questo non cambia la nostra empatia verso di loro. Inoltre, ciò si accompagna alla comprensione che qualsiasi cosa essi ora vivano cambierà, e noi confidiamo nella loro capacità di superare quella fase. In questo senso è un’immensa offerta di rispetto. Con l’equanimità possiamo permettere a noi stessi e agli altri di andare oltre qualunque punto di vista o prospettiva. Inoltre non c’è panico, difesa, pretesa, rifiuto, deplorazione, preoccupazione, dubbio o tesaurizzazione; l’equanimità permette a tutto questo di svuotarsi.

Inclusione, non indifferenza

Equanimità in termini di sensazione, può significare “neutralità”; può dare l’impressione che si è indifferenti e non ci si preoccupa (atteggiamento noncurante, che lascia fare). Ma questa è un’equanimità scorretta: in essa non c’è nessun incoraggiamento a migliorare. La noncuranza è una illusione che non riconosce pienamente le sensazioni o le conseguenze degli stati mentali. È una fuga che ci rende incerti e confusi; è una difesa, un non voler sentire. Così la gente, invece di essere solidale ed empatica, commenta, filosofeggia o parla della sofferenza come se fosse una statistica.

Normalmente, quando c’è un contatto sgradevole, noi lo blocchiamo, guardiamo da un’altra parte, prendiamo una pillola, oppure lo filtriamo in modo che non ci getti in uno stato che non siamo in grado di gestire. Ad esempio con la malattia, all’inizio pensiamo che la nostra mente possa essere ragionevole e stoica. Ma se la malattia perdura settimana dopo settimana e non mostra alcun segno di miglioramento, o addirittura peggiora, pone fine alla nostra imperturbabilità e al nostro equilibrio e possiamo diventare depressi e disperati. Anche senza una malattia fisica, se la mente diventa ansiosa o stressata fino al punto in cui non possiamo dormire, allora cominciano a manifestarsi stati d’animo alterati o istinti suicidi. Le persone che sono moribonde o che sono affette da demenza senile, smarriscono gli aspetti a noi noti della loro mente, perdono la capacità di formulare frasi o provano panico e rabbia; questo è il disfacimento di altri esseri umani, è crudo ma è questo che accade. In contesti come questi, sentendo le sensazioni e lasciandole muoversi attraverso di noi, abbiamo la possibilità di sviluppare e conoscere il valore dell’equanimità.

Questa pāramī è realmente utile in ogni momento, perché, anche quando viviamo in un ambiente tutelato dove possiamo essere puliti e adeguatamente nutriti e ospitati, le cose non rimangono a lungo comode o interessanti. Non solo perché le situazioni cambiano sempre in modo radicale, ma anche per la natura mutevole delle nostre sensazioni e percezioni – per le quali l’“interessante” o il “confortevole” diventa “noioso”. In una situazione abbastanza gradevole, diamo le cose per scontate, ci annoiamo, sentiamo di perdere tempo, e così via. Stare semplicemente con le cose così come sono, in un contesto relativamente
neutro, è una pratica importante del Dhamma. L’ho visto io stesso nei monasteri dove gli oggetti necessari sono forniti gratuitamente e viviamo con persone che osservano i precetti e sono dedite al Risveglio – ma “Come canta questo qui è insopportabile… e il discorso di Dhamma è così noioso…se soltanto gli altri fossero d’accordo con me…”, sono solo alcuni dei pensieri che emergono.

La mente trova sempre qualcosa da cui essere irritata o affascinata; scopre sempre qualcosa di cui ha bisogno, di cui preoccuparsi o addolorarsi. Questo perché la mente riceve dati in termini di percezioni e sensazioni che registrano l’esperienza come piacevole o sgradevole – il che è abbastanza naturale. Ma poi una mente non coltivata sovrappone a tutto ciò attività mentali e programmi di desiderio, avversione e interesse personale. Questi sono le tendenze latenti proliferanti che sono radicate nella consapevolezza della mente e prendono forma quando la mente “sorge” nelle sue attività. Con queste tendenze, la spaziosità e la visione del nostro cuore si contraggono. Perdiamo il contatto con la nostra buona fortuna e con la nozione di come potrebbe andar peggio; dimentichiamo e perdiamo l’empatia per la sfortuna degli altri.

Pertanto la situazione che ci dà sicurezza è solo una percentuale di quello che accade realmente. Il resto si trova dall’altra parte del confine, dove, non appena entriamo in contatto con esso, c’è un riflesso inquieto, perché la mente non è in grado di restare con quella paura, quel dolore o quella inadeguatezza. E tale debolezza viene ignorata. Tendiamo invece a una mentalità che si immagina il meglio, vuole la cosa migliore e desidera essere vincente. Questo è il messaggio della società. E tutto ciò che non riesce a soddisfare questi criteri è inferiore e da escludere. La società in generale tende a emarginare i poveri, gli analfabeti e gli incapaci. Così noi li respingiamo; poi li temiamo; e finiamo per respingerli ancor di più. Questo tipo di mentalità che esclude è rivolta anche verso noi stessi. Visti attraverso queste lenti, noi non possiamo mai essere abbastanza bravi, forti, intelligenti, calmi; ed è colpa nostra. Così respingiamo noi stessi, ci togliamo il sostegno del calore del cuore e continuiamo a pretendere di raggiungere la vetta.

La stabilità mentale empatica

L’unica via d’uscita passa da un approccio diverso: sviluppare l’equanimità come auto-accettazione. La sua coltivazione è uno dei temi sempre presenti nella pratica del Dhamma. Per esempio in meditazione: quando sorgono ricordi dolorosi o stati mentali sgradevoli, facciamo una pausa, accantoniamo l’opinione su come le cose dovrebbero essere e lasciamo andare il tentativo di analizzare o fissare la mente. Nel controllare queste reazioni (senza giudicarle), nella mente si diffonde un’empatia equanime. Non c’è bisogno di lottare: “Posso stare con questo”.

Mi piace descrivere questo processo in quanto composto da tre fasi: dapprima facciamo attenzione; poi incontriamo ciò che sorge; infine includiamo tutto. Vale a dire, sentiamo i pensieri, le sensazioni e le emozioni così come sono; ampliamo la focalizzazione per sentire l’effetto che essi hanno sul corpo; e lasciamo che l’attenzione empatica si riposi sull’insieme. Non ci diamo da fare, né ci aspettiamo che le cose finiscano, altrimenti non sarebbe un’inclusione completa: al contrario ammorbidiamo questi atteggiamenti e includiamo tutto. E lasciamo che questo processo continui con qualsiasi cosa sorga in seguito. Ci sarà una liberazione – che potrebbe non essere quella che ci aspettavamo. Tuttavia, seguendo questo processo, cominciamo a fidarci dell’effetto della consapevolezza equanime. E questo è il vero punto di svolta. Perché quando abbiamo gli strumenti, diventiamo impazienti di includere tutta la nostra vita nella pratica del Dhamma. Vogliamo vedere dove diventiamo smaniosi e difensivi, e badiamo ai segni che rivelano agitazione e contrazione – dato che, se facciamo attenzione, ampliamo, ammorbidiamo e includiamo tutto, il movimento verso il Risveglio continua.

Come perfezione, allora, l’equanimità è un’intenzione o un “muscolo mentale” piuttosto che una sensazione. È il grande Cuore che può mantenere saldamente le emozioni e le percezioni nella piena consapevolezza senza farsi scuotere da esse. Ed essa si rafforza in uno stato mentale quando è sostenuta dalle altre pāramī. L’equanimità consente a una sensazione di entrare, di essere sentita pienamente e di passare oltre. Questo è quanto la rende estremamente utile: noi non rifiutiamo il mondo, ma acquisiamo un cuore abbastanza grande da abbracciarlo. E con ciò perveniamo anche alla realizzazione che il mondo – le forme, le sensazioni, le percezioni, le attività mentali e persino la coscienza – è qualcosa che passa e che non ci possiede. Perciò non c’è alcun bisogno di correre, e non c’è niente da bloccare. L’equanimità è allora il tagliafuoco che accompagna tutte le pāramī nel momento in cui il fuoco divampa. Ad esempio la mente protesta quando si tratta di essere pazienti, “Perché dovrei?”; quando si tratta di essere generosi, “Forse non se lo meritano”; quando si tratta di rinunciare a qualcosa, “Ma si, cosa vuoi che sia, da domani però basta”. Con l’equanimità, non siamo colpiti e trascinati via quando incontriamo questi flutti, essa è come un bravo timoniere.

Le tre conoscenze (realizzazioni)

Come introduzione alle riflessioni sulle pāramī, ho menzionato la storia del futuro Buddha seduto sotto l’albero della bodhi, che incontra, e poi respinge, l’esercito di Māra, chiamando la Terra a testimone dell’enorme pratica di perfezioni accumulata nelle vite passate. Un altro passo canonico spiega il ruolo dell’equanimità in questo evento. In questa narrazione (Majjhimanikāya, I, 249-250), il Buddha dice di aver avuto tre realizzazioni successive: quella delle sue vite precedenti, quella della natura del bene, del male e delle loro conseguenze, e quella della fine dei preconcetti e dei flutti che causano la sofferenza.

Prima realizzazione: il panorama delle sue numerose vite. Ora, limitiamoci a immaginare di focalizzare mentalmente l’intera e unica vita che possiamo ricordarci (quella attuale), o applichiamola a un periodo più limitato, a un progetto o a una relazione, e contempliamo le svolte, le curve a gomito, le salite, le discese, insomma tutte e le contorsioni del suo dramma: ora si eccita, ora lotta, ora perde tempo, ora persevera, fa delle scelte, si sente male per un colpo di sfortuna, poi si sente bene per una pausa favorevole… e così via. Possiamo farlo senza reagire, sussultare o diventare nostalgici? Possiamo fermare i tribunali giudiziari e andare oltre l’identità di vittima o di protagonismo? Se riusciamo ad andare avanti e a essere presenti a tutto ciò con equanimità, possiamo dire che questa vita è positiva o negativa? Oppure è semplicemente quella che stata, così com’è. Ecco la prima fase dell’equanimità saggia. Con l’assenza di un giudizio finale, la mente rimane aperta e l’apprendimento si approfondisce.

La seconda realizzazione avvenne con un ulteriore ampliamento e approfondimento: estendendosi oltre la riflessione su se stesso, egli contemplò tutti gli esseri che avevano sperimentato gli alti e bassi della vita come aveva fatto lui, mietendo il risultato delle azioni. Questa fu la realizzazione del kamma: ogni azione, anche se mentale, ha delle conseguenze. È la legge di causa ed effetto. È impersonale e non attribuisce nessuna colpa. La legge dice che le azioni, i pensieri e la parola ci sollevano in uno stato luminoso o ci precipitano in uno stato buio, secondo la qualità etica dell’intenzione che li genera. L’intenzione sceglie il paradiso, l’inferno o qualche luogo nel mezzo – un momento per volta. E se superiamo le reazioni e le spiegazioni, entriamo in contatto con l’intenzione della mente. Allora possiamo indagare e impostare la rotta corretta.

Così l’intenzione dell’equanimità crea una forza imparziale che ci dà la possibilità di vedere più chiaramente. Anche che gli altri traggano beneficio attraverso la inter-relazione con un essere equanime: ad esempio tempo fa un mio amico sfruttava con l’inganno una prescrizione medica per acquistare droghe che generavano dipendenza. Sua moglie lo sapeva e naturalmente era molto preoccupata. Ma, invece di limitarsi a criticarlo, aspettò il momento opportuno per fargli notare con calma e in modo premuroso che le sue azioni gli avrebbero procurato grossi problemi: avrebbe perso il rispetto di se stesso e il suo benessere psicologico, e avrebbe avuto guai legali. Tuttavia, ella affermò che la decisione spettava a lui. Il tono non veemente della moglie, il suo non drammatizzare e l’assenza di biasimo ebbero un effetto profondo. Questo incoraggiamento a considerare attentamente le cause e gli effetti lo indusse a cambiare subito il suo comportamento.

L’equanimità non è un invito a essere passivi e a non valutare le azioni. L’applicazione dell’equanimità ci fa sentire invece meno colpevoli, meno sulla difensiva e meno reattivi. Può sorgere una naturale sensibilità della coscienza per guidarci verso quello che, nel profondo del cuore, sappiamo essere giusto e significativo. Un approccio oppressivo semplicemente chiude la mente in difesa o scatena una reazione contraria. D’altra parte un approccio totalmente passivo, in cui accettiamo tutto e non teniamo conto di saggi consigli e riscontri, ci lascia in preda ai nostri impulsi e a cieche abitudini. La via di mezzo del Buddha esamina la conoscenza della causa e dell’effetto e riconosce come proprietaria dell’azione l’intenzione, piuttosto che il sé. L’insegnamento del Buddha ci offre quindi linee-guida chiare e serene che rispettano il nostro senso morale innato, piuttosto che virtuosi sproloqui, i quali ci rappresentano come minorenni irrimediabilmente corrotti.

La terza realizzazione: per essere presenti a tutte le nostre azioni, è necessaria l’attenzione irremovibile e stabile di un’equanimità continua. Così è questione di un’auto-accettazione incondizionata: questo è ciò che siamo stati, e quello che abbiamo fatto nel bene e nel male. Nessuna censura, nessuna giustificazione, semplicemente rimaniamo sintonizzati. Allora la mente può operare al di fuori dei tribunali e delle rassegne dei punti di vista del sé. C’è un approfondimento nel vedere che quanto ognuno di noi sperimenta come “me stesso” è in realtà, nel bene e nel male, la corrente di causa ed effetto. È il kamma, non il destino cieco o un “Io” imperfetto, che porta avanti la mente e crea una storia “personale”. Il futuro Buddha non si fermò a quella realizzazione, ma penetrò più in profondità. Rinunciando alla sofferenza o all’esultanza per quello che aveva compreso, la sua mente si immerse nel profondo per riesaminare i presupposti che sostengono il kamma sono: 1) la ricerca della felicità mediante l’acquisizione o l’eliminazione; 2) l’andare in cerca della sicurezza con l’ottenimento di un punto di vista filosofico o religioso; 3) la stretta che tiene avvinta la mente come se fosse un sé immutabile; 4) il non ammettere giorno dopo giorno l’insoddisfazione generata da questo comportamento. Come abbiamo visto, questi sono i flutti della passione, dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza. L’andare oltre questi pregiudizi e vederli per quello che sono è l’essenza della terza realizzazione.

Non c’è bisogno di difendere o di sostenere una persona: tale sforzo incoraggia i punti di vista, l’identificazione e il conflitto. Tuttavia è sicuramente possibile dare un giudizio e avere una reazione. Ma la risposta viene da una mente che è equanime circa l’identità e consente al discernimento di parlare chiaramente di azioni e comportamenti, non di personalità. Le cose sono viste essere “così”, “semplicemente così”. Il Buddha (il risvegliato), o il Tathagata (colui che è “Così andato”), vede anche la verità essere “così” senza attaccamento.

Perciò l’equanimità è un’umiltà profonda che consente alla mente di evitare di adottare qualsiasi identità, punto di vista o giudizio. Con l’imparzialità della mente le intenzioni della saggezza e della rinuncia compiono la scelta di abbandonare la causa della sofferenza, e la gentilezza e la compassione incoraggiano gli altri a fare lo stesso.

Sviluppare l’imparzialità nella meditazione

Come per le altre perfezioni, la pratica dell’equanimità inizia da se stessi ed acquistano il loro pieno potere solo quando sono radicate nell’intima attenzione della meditazione. In parole semplici, la pratica della meditazione sviluppa l’equanimità in due modi. Il primo si avvale della stabilizzazione dell’energia mentale che avviene con la mente calma che si focalizza su un tema; in questo processo essa leviga e rafforza la sua energia. Inoltre, quando la mente accantona il contatto sensoriale esterno, e l’agitazione, l’avversione, la speculazione, la preoccupazione, l’inquietudine e la fascinazione che l’accompagnano, l’energia della mente si assesta e si unifica con l’energia del corpo. Una tale mente può quindi gioire della propria vitalità e ampliare maggiormente la consapevolezza senza perdere di vista il centro. Questo è il samādhi; e, a mano a mano che si approfondisce, la compostezza e l’agio della mente si raffinano e si stabilizzano, donando chiarezza ed equanimità. Questa è una sorta di “mente saggia”, che non è più in balia dei flutti dell’energia che trema o si irrigidisce, aumenta o si irradia, secondo le percezioni e le sensazioni.

Pertanto, nella meditazione, noi impariamo a conoscere l’aspetto energetico della mente, ed espandendolo e purificandolo possiamo rimanere in quell’elemento, piuttosto che in tutti i viavai. Allora la nostra mente resta equanime: non è tirata fuori, spinta dentro o scossa dagli eventi. E, di conseguenza, la mente si assesta su questa base elementare; in mezzo al mondo, si sente ancora bene, integra e sana.

Il secondo modo in cui la pratica meditativa sviluppa l’equanimità è tramite la capacità intelligente e intuitiva della mente. Questo è un aspetto della saggezza che consiste in una conoscenza penetrante che può sapere: “Questo è un pensiero, questa è una sensazione, questo è uno stato d’animo. Questa è attrazione, questa è repulsione. Questo è il ricordo, questa è la dimenticanza”. Tale discernimento può essere addestrato
all’equanimità e all’imparzialità; benché sia toccato dai pensieri, dalle sensazioni e dagli stati mentali, può essere allenato a non desistere, non millantare, non congratularsi o biasimare.

Più abbiamo la capacità di ricevere l’esperienza e riflettere su di essa, più la vediamo come causata (e quindi soggetta alla dissoluzione), mutevole e non appartenente a nessuno. Questa focalizzazione intuitiva (questa è vipassanā) vede l’esperienza che è caratterizzata da: l’assenza di desiderio, l’assenza di segni e l’assenza di un sé. In un certo senso, tutte pervengono allo stesso risultato, una visione corretta di come normalmente caratterizziamo le cose o le percepiamo. Senza questa visione corretta, noi etichettiamo inconsciamente le cose nei termini della loro desiderabilità, cioè del loro carattere piacevole o spiacevole. E così cerchiamo di ottenere il piacevole e di allontanarci dallo spiacevole. Ma in meditazione scopriamo che non possiamo possedere ciò che sorge o fuggirlo. Più vogliamo avere la pace e la tranquillità, più diventiamo tesi e agitati. Più cerchiamo di liberarci dei momenti mentali brutti e stupidi, più quelli ci assalgono con insistenza. Dopo un po’ scopriamo che l’unica vera opzione è prestare attenzione in modo diligente e adottare un’equanimità che osserva. Poi la materia bollente comincia a raffreddarsi e, mentre l’intenzione pacifica dell’equanimità si diffonde nella mente, è possibile realizzare una tranquillità interiore naturale.

La mente “etichettatrice” creatrice dei segni

L’intuizione penetra nel processo percettivo che etichetta o “segna” ogni cosa. La percezione è l’attività di riconoscere un oggetto come qualcosa di conosciuto. È il manager dei minuscoli promemoria mentali che etichettano le cose: “Questo è terribile, quest’altro è divertente, quello è una minaccia, quell’altro è fantastico” e così via. Ma quando noi riconosciamo che quanto sperimentiamo è impermanente e mutevole, allora vediamo che tutte le etichette della memoria non sono vere in modo definitivo e duraturo. In altre parole, il segnare le cose come se fossero sempre in questo modo o in quello, cambia con i nostri stati d’animo, le prospettive e il contesto in cui le sperimentiamo. Perciò le cose sono desiderabili secondo il nostro desiderio, non in maniera innata, in se stesse. Per esempio, la musica briosa è magnifica quando si balla, ma è terribile quando cerchiamo di dormire. La focalizzazione accompagnata dall’equanimità sulla natura impermanente dell’esperienza, un momento alla volta mette a tacere l’irrequietezza e l’irritazione, così l’intuizione sposta i segni verso la realizzazione dell’assenza di segni.

Talvolta la percezione (l’etichettatrice), ad esempio in una situazione in cui c’è conflitto, diventa frenetica nel definire il giusto e lo sbagliato, il che fa sorgere la necessità di schierarsi. Questo a sua volta ci conduce a formulare punti di vista netti: approviamo o condanniamo le persone come buone o cattive (ci comportiamo in questo modo anche verso noi stessi). In ogni situazione e in qualsiasi periodo, c’è sempre qualcuno che può essere schernito o denigrato, come il tiranno del momento o il ministro corrotto di quel dato periodo. E poi ci sono i cavalieri senza macchia, ma in seguito si scopre che i cavalieri senza macchia sono imbrattati dai propri interessi.Questa è la storia della politica, non è vero? Di come le potenze occidentali sembrino liberare altri paesi dai loro regimi tirannici – e poi si rivelino motivate dai propri interessi economici. E di come i nostri alleati vengano scoperti mentre indulgono nello stesso tipo di corruzione dei nostri nemici. Ci focalizziamo sul segno del bene e ignoriamo gli altri segni, o facciamo lo stesso con il segno del male. Ma quando il discernimento è equanime, noi riconosciamo che la percezione è influenzata dall’interesse personale: “Il mio popolo, la mia religione contrapposti a quelli degli altri”. L’intuizione rivela il pregiudizio del sé.

Ricevetti una lezione di assenza di segni e assenza di sé mentre assistevo a un “funerale celeste” in Tibet. Nel funerale celeste, il cadavere è disteso a terra e squarciato per attirare gli avvoltoi che scendono in stormi a divorarne la carne. Le ossa sono poi ridotte in polvere e disperse. All’inizio la mente “segna” questi corpi come “persone addormentate”. Poi, quando i macellai cominciano a tagliarli e quando, dopo pochi minuti, uno stormo di uccelli affamati li copre completamente in una massa ondeggiante… e dopo breve tempo se ne va, lasciando solo un mucchio di ossa sparpagliate… le etichette assegnate ai corpi delle “persone” (il padre e/o la madre di qualcuno), balenano nella mente con intensità emotiva e poi scompaiono. Tutto ciò che rimane è una chiarezza sobria e vuota. Allora guardiamo il nostro corpo e quello delle persone intorno a noi: vecchi, giovani, maschi, femmine, grassi, magri. E diciamo: “Chi sono questi?”. Di per sé, all’improvviso ci accorgiamo che un corpo non è qualcosa né un nulla. Ma certamente non è “io”, “mio”.,”tuo”, “suo”, sua madre o tuo fratello… qui c’è un doppio segno, “tuo” e “fratello”… E quando riconosciamo che un oggetto non è come lo etichettiamo, l’etichettatura si interrompe; c’è l’assenza di segni e la non identificazione con l’oggetto.

Questo ha anche un profondo effetto sull’agente mentale (l’intuizione?) che costruisce i segni, quel frettoloso segretario interiore che ci porge sempre il nome, l’opinione, il segno. Si dà da fare, non è vero? Ma quando tutti i segni sono visti come relativi, e quando l’interesse personale compulsivo è accantonato, il segretario può fare una pausa. Con l’etichettatrice in vacanza, possiamo avere un assaggio della pace profonda. Questa è chiamata “condizione del non-creare-quello” (atammayatā), la realizzazione della sorgente della mente. Non c’è identificazione, nemmeno con il conoscere, che è l’ultimo nascondiglio del punto di vista del sé. Non c’è il bisogno interiore di conoscere e descrivere alcunché, eppure c’è una chiara consapevolezza. Questo è il cessare del “nome”, che è sinonimo di completo Risveglio.

L’equanimità, incorniciata dalle altre perfezioni e applicata alla mente in meditazione, continua ad abbandonare le preferenze che formano il nostro mondo fino a giungere allo stato più profondo della consapevolezza dove non c’è l’etichettare né alcuna intenzione. In questo stato la mente è priva di turbamenti, e il suo discernimento è chiaro, ma non crea alcun segno. La liberazione della mente e la liberazione della saggezza si sono unite. Non c’è alcuna vibrazione a cui reagire o da scacciare, e non ci sono idee a cui aggrapparsi. Si realizza uno stato più profondo, l’“elemento del Nibbāna”.

Suggerimenti sull’equanimità

Lo sviluppo della equanimità è basato sulla comprensione e sull’allentamento delle reazioni e delle proiezioni mentali circa le sensazioni piacevoli o spiacevoli. In esse si devono affrontare il disappunto o l’eccitazione che giungono insieme alla frustrazione o alla realizzazione di un obiettivo. In tali scenari, è bene riflettere sul fatto che molti fattori diversi dalla propria abilità o intenzione influiscono sul risultato. Persino un ottimo atleta può essere sconfitto da una malattia o battuto dal cattivo tempo. Quanto può essere “soltanto nostro” un fallimento o un successo? Aggrapparci a essi crea solo stress e agitazione inutili.

Delle due basi della sensazione (fisica e psicologica) quella che ci tocca di più è quella psicologica. La sensazione piacevole o spiacevole è il fattore che attiverà le reazioni mentali del “sentirsi inadeguati”, “dilemma insopportabile”, “impulso irresistibile”, “annoiato a morte” ecc. La sensazione, si riferisce a un’esperienza di piacere, dispiacere o neutralità, che, se è seguita, innesca le energie emotive (saṅkhāra) chiamate in italiano “le mie sensazioni”. Considerando che solo un terzo delle sensazioni sarà piacevole, e che anche quel terzo è incline a evocare il desiderio per averne di più, è saggio considerare le diverse basi da cui una sensazione potrebbe dipendere prima di seguirla. Ci sono cioè sensazioni gradevoli basate su strutture mentali e punti di vista salutari (come la generosità, la compassione, la sincerità e la calma). E, benché alcune sensazioni spiacevoli debbano essere sopportate (come per esempio nella malattia), e altre siano un avvertimento di pericolo, ci sono sensazioni aspre, basate sul desiderio o su rancori, che dovrebbero essere abbandonate – con una diligente coltivazione.

Prendere questa comprensione e applicarla nella meditazione condurrà alla equanimità sublime, piuttosto che alla indifferenza o alla noia. Questa è l’equanimità basata su uno stato mentale unificato. Il culmine della pratica “non fare” è una completa non identificazione persino con una mente piena di pace; è sinonimo di abbandono dell’intenzione, e di realizzazione del Nibbāna.

Riflessione

Immaginate uno scenario spiacevole: siete in ritardo al lavoro; perdete il lavoro; vi ammalate; ecc. Mantenete attentamente lo spazio e lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’agitazione lo attraversino. Notate lo stato mentale dove l’agitazione cessa. Eccovi qui. Ora fate lo stesso con uno scenario molto positivo: ricevete una ricompensa; incontrate il partner perfetto; ecc. Come prima, lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’eccitazione passino oltre; e notate gli stati mentali quando cessano. Eccovi qui. Familiarizzatevi con il territorio mentale in cui sentite: “Be’, dopo tutto, eccomi qui”.

Poi applicatelo alla situazione di un’altra persona: potete offrirle la ferma fiducia che anche questo passerà?

Azione

L’equanimità nei termini dell’azione può essere sviluppata applicando l’attenzione e lo sforzo in modo uniforme a tutte le fasi di un’azione, dalla preparazione al completamento. In questo modo, la mente non è solo predisposta a “fare” le cose al momento necessario, ma rifletterci prima durante e anche dopo l’esecuzione. Questo è particolarmente utile quando non si raggiungono i propri obiettivi! Possiamo fermarci, mettere ordine, riflettere e provare un altro approccio. È anche utile riflettere sull’esito di “ottenere risultati”: quanto dura la soddisfazione? Se l’importante per noi è quanto applichiamo la mente in modo uniforme, e la serenità che ne deriva, allora, sia che noi vinciamo, perdiamo o pareggiamo, possiamo dimorare nel risultato dell’equanimità.

Meditazione

La coltivazione dell’equanimità nella meditazione dipende da due principi: 1) inerente alla saggezza: la mente può fare un passo indietro rispetto a ciò che sperimenta; 2) inerente all’empatia: il crescente grado di calma fornisce una fonte più profonda di soddisfazione rispetto a quella procurata dai piaceri dei sensi. E’ come rispondere alla domanda: “Cosa mi farà sentire soddisfatto?”. Questi esercizi di saggezza e di empatia richiedono costanza per continuare a eseguirli, ma il risultato è un profondo senso di equanimità e pace.

Nella pratica:

  • stabilizzate la sensazione, rivolgendo l’attenzione a un oggetto calmante, come il respiro
  • con la saggezza passate in rassegna il processo della sensazione per imparare a non restarne catturati
  • lasciando che il respiro si dispieghi completamente e venga percepito in tutto il corpo, cominciate con il “conoscere” pienamente l’oggetto della meditazione
  • sintonizzatevi sul piacere salutare che nasce dal non essere circoscritti e dalla calma. Quando questa sensazione diviene il tema dominante,
  • valutate il piacere che proviene dalla calma come più sostenibile e soddisfacente dell’attrazione più grossolana e vacillante per il piacere dei sensi.

Ciò conduce alla comprensione del beneficio della quiete, e a una solida base nel piacere salutare interiore per contrastare l’attrazione dei sensi. Quando contemplate questa calma costante attraverso la facoltà della saggezza, la mente fa un passo indietro dalla sensazione. La calma crescente si fonde quindi con il distacco della consapevolezza che conosce in un’equanimità non basata sull’indifferenza, ma sull’unità dello scopo, dell’oggetto e dell’attenzione. Restando con ciò, la mente si libera dalla sua fascinazione per la sensazione e gli stati mentali in generale.

Conclusione: Cosa portare a casa?

Nella particolare serie di riflessioni in questo libro, il ritornello costante è quello di entrare in contatto con le correnti sotterranee e i pregiudizi che inondano la mente, e di usare le pāramī per attraversarli. Le pāramī sono insegnamenti che si possono usare nella vita quotidiana, ma che renderanno più profonda anche la meditazione. Tramite la pratica delle perfezioni, possiamo riesaminare qualsiasi esperienza che abbiamo vissuto – sia che ci muova o che ci mantenga fermi – con questa domanda: “Ciò che trema o incalza è davvero il mio sé? Ciò che si sente solido, che vuole mantenere la presa, sono davvero io?”. Con una riflessione saggia e profonda probabilmente riconosceremo che “Io non sono sempre così. Dipende da… un contatto piacevole / dall’essere minacciato / dal sentirmi in buona salute / dai commenti degli altri… ecc. ecc.”. Così, tenendolo a mente, e contemplando con un’equanimità consapevole, possiamo realizzare: “Oh, questa è solo presunzione, quest’altra è solo identificazione, quello è solo dubbio, quell’altro è solo stress”. Per quanto possa essere momentanea questa realizzazione, possiamo sperimentare un terreno che non si manifesta come uno stato o una sensazione. È un luogo che non è uno stato mentale, ma una pace interiore che gli stati mentali non possono influenzare.

Però, quando proviamo a trattenerlo, rivendicarlo o capirlo, i flutti dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza prendono il sopravvento. Riconoscerlo ci rende personalmente più modesti e rispettosi della Via. Chiunque sembriamo essere, e in qualsiasi modo lo sembriamo, un Sentiero si evolve con la saggezza, influenzata dalla consapevolezza, fortificata dal raccoglimento e mantenuta costante dall’equanimità. Perciò, ogni volta che sorge una vecchia abitudine, o quando un programma di “Cosa veramente sono e cosa dovrei essere” si rimette in moto, dobbiamo prestare attenzione, incontrare ciò che emerge e includerlo nella nostra pratica.

Questo “lavoro interiore” può anche essere il nostro contributo al bene del mondo. Da questa chiarezza e apertura, l’impegno e la compassione sorgeranno e guideranno le nostre vite. Si può reagire all’ignoranza, all’avidità e alla distruzione disperandosi di tutto – ma questo spegne la consapevolezza e limita una risposta più saggia. Potremmo anche adottare una posizione colpevolizzante o punitiva; oppure sentirci inadeguati; o ancora potremmo congetturare che tutto sia parte di un piano divino. La responsabilità personale consiste invece nel sintonizzarsi sulle pāramī e manifestarle nel modo in cui viviamo le nostre vite.

Così ciò che la Via del Buddha presenta è una cultura – non una tecnica, un’ideologia o un’affermazione metafisica su noi stessi, il mondo o il significato del tutto. Essenzialmente, è una Via che deve essere vissuta – indubbiamente con molte linee guida utili – ma vissuta nell’incertezza e nell’unicità della vita di ogni persona. Accompagnando noi stessi totalmente e con compassione nella lente della nostra consapevolezza troviamo la Via, e le pāramī ci forniscono gli esercizi per farlo.

Allora, anche in un mondo dominato dall’avidità, dall’odio e dall’illusione, noi possiamo vedere il bene in noi stessi e negli altri, sintonizzarci su di esso e farlo crescere. Qui non c’è spazio per il compiacimento, la disperazione o il rimpianto. Questo Sentiero è già una liberazione tramite la virtù, il discernimento, la pazienza e l’equanimità. Non possiamo prevedere i dettagli di quello che ci farà sperimentare. Ma ogni intuizione dello spessore e della chiarezza del Sentiero ci mostra che non c’è nient’altro che valga la pena di fare e ci indica ogni strumento per rimanerci.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La sincerità (cap. 7)

Questa pāramī è una qualità che include due aspetti. Il primo è la sincerità in termini di intenzioni e comportamenti, come la determinazione ad astenersi dal dire bugie o dal riferire pettegolezzi, che è un aspetto della moralità. Il secondo è nel campo della percezione, cioè alla capacità di vedere o comprendere le cose in un maniera non distorta.

Liberare la mente dalla distorsione richiede più di una generica sensibilità morale. Per questo abbiamo bisogno di controllare la natura dei nostri pensieri, atteggiamenti e pregiudizi attraverso l’introspezione e la meditazione. Con tali pratiche, cominciamo ad acquisire una sensibilità verso la pressione creata dalle nostre preferenze e aspettative; e vediamo anche come liberarcene. Spesso si tratta di distinguere i nostri presupposti e desideri dal modo in cui le cose sono in realtà o da quello che è già avvenuto – una verifica che gli esseri umani regolarmente non riescono a fare quando sono già “presi” da una qualche cosa. È mediante la chiara comprensione sviluppata nella meditazione che queste pressioni sono eliminate e, quando la mente esce dai pregiudizi e dallo stress, la consapevolezza lo sente. Quando la consapevolezza è sperimentata come un equilibrio interiore ed arriva ad ottenere chiarezza, questa è la sincerità nel senso di “essere ricolmi di verità”, inerente al campo delle percezioni. Questo stato è molto raro, il Buddha generalmente si riferiva a se stesso nei termini di questa consapevolezza ricolma di verità usando l’appellativo di Tathāgata, che significa “Colui che è andato in ciò che è così com’è”. Questo termine racchiude sia la comprensione che il comportamento.

Coltivare la sincerità

Se consideriamo la coltivazione delle pāramī come fosse una sequenza, otteniamo il senso di ciò che è necessario per sperimentare la sincerità in termini sia di comportamento che di percezione.

Le prime due perfezioni, la generosità e la moralità, risvegliano il cuore e creano un senso di empatia con gli altri esseri. Siamo disposti a condividere, siamo interessati al bene altrui e non vogliamo danneggiare o ferire nessuno. Attraverso queste pāramī entriamo in contatto con la nostra mente/cuore affettiva, con ciò che la ferisce e con quello che la mette a suo agio e la rende salda. Il chiarire e il rinsaldare le nostre intenzioni mediante la generosità e la moralità è un punto di partenza essenziale e un sostegno continuo per la sincerità.

La rinuncia porta avanti il processo permettendo di acquisire la consapevolezza della mente che è in grado di distinguere gli impulsi dalle sensazioni che essa sperimenta riguardo agli oggetti dei sensi. Questa è la capacità di fare un passo indietro, al fine di acquisire una visuale prospettica sul modo in cui la mente viene influenzata, e una maggiore chiarezza su quali sono gli oggetti visivi, uditivi ecc. di cui vogliamo occuparci e con quale intenzione. Questo non significa non possedere oggetti o limitarsi a respingerli, bensì sapere che l’importante è essere guidati dalla chiara comprensione. Qui interviene la rinuncia (il lasciare andare) riempirà la mente con chiarezza, fermezza e comprensione. Mano a mano che sviluppiamo questa abilità, essa cresce fino a includere un distacco ancora più vitale verso le convinzioni e le inclinazioni psicologiche, come per esempio i nostri punti di vista o i nostri atteggiamenti. Cercare di rafforzare o seppellire la nostra personalità crea pressione e stress snaturando la verità. Ma, con l’equilibrio della sincerità, siamo consapevoli delle sensazioni, dei pensieri e degli atteggiamenti. Non ne siamo dominati, ma non li stiamo nemmeno rifiutando. Li cogliamo in una visione prospettica e agiamo in maniera meno compulsiva.

Poi c’è la saggezza, la capacità di discernere. Questa pāramī discrimina il salutare dal non salutare e imposta la consapevolezza come un monitor. Con la consapevolezza notiamo le spinte e le pulsioni che distraggono la mente da ciò che dovrebbe tenere presente, e con la saggezza, riconosciamo qualsiasi stress (o stato insoddisfacente) nei nostri stati d’animo e nel comportamento mentale. Trascorriamo cinque minuti al giorno, tutti i giorni, seduti quieti a sentire le emozioni e le energie. Non è una perdita di tempo; persino una riunione di lavoro si svolgerà più agevolmente se ci si siede quieti cinque minuti all’inizio. Il discernimento basato sulla consapevolezza stabilisce quindi un punto di riferimento dal quale possiamo essere presenti alle nostre azioni mentali – i nostri impulsi di premura così come le nostre reazioni e difese ansiose. Sappiamo cosa le causa e quali sono i loro risultati.

Questa comprensione ci aiuta a capire come funziona la nostra mente e dove ha bisogno di essere guidata con l’energia equilibrata che sostiene e potenzia la saggezza. Invece di essere esitanti o avventati, invece di tirarci indietro confusi o fare ciecamente balzi in avanti, cominciamo a vedere secondo un maggiore accordo con la verità: “Questo è vero, questo è giusto, questo deve essere fatto. Questo è falso, infondato e da accantonare”. Così ci impegniamo maggiormente in ciò che è salutare. Mano a mano che la mente si libera dai contenuti e dai comportamenti che consumano la sua energia, riconosciamo che la consapevolezza si contrae quando è stressata, gira a vuoto e si disperde quando è confusa, e si calma e si stabilizza quando riceve apporti salutari. L’energia della consapevolezza quindi non è qualcosa di “fisico” è mentale, è l’essere raccolti, integri ed equilibrati. Pertanto, coltivando la verità, assaporiamo la piacevole verità della consapevolezza quando è a riposo.

La pāramī successiva è la pazienza, la capacità di sopportare qualcosa. È di estrema importanza quando dobbiamo tollerare contrasti spiacevoli, insuccessi, abusi, biasimo e malattie. Questa sopportazione, sostenuta dalle precedenti perfezioni, ci dà la forza di mantenere e sostenere la nostra presenza consapevole, piuttosto che essere trasportati via dal biasimo, dal dubbio, dal dolore, dalla preoccupazione, dalla paura, dalle passioni, dalle convinzioni e dalle credenze.

Quando riusciamo a trovare un punto stabile e durevole nella consapevolezza, possiamo essere presenti al mutare degli stati d’animo, emozioni e impulsi. Questa è la verità di tutte le condizioni. Se siamo in contatto con questa verità, sperimentiamo il dubbio o l’irritazione come superficiali. Possono accadere, ma non devono essere adottati, respinti, biasimati, né devono suscitare reazioni. Essi non sono l’io, né il mio, né il sé. Sorgono e passano nella consapevolezza, e sono ciò che sono. Di conseguenza, le nostre azioni possono essere fondate sulla consapevolezza del pensiero, dello stato d’animo o dell’impulso: noi non siamo in loro dominio. Possiamo agire sopra di essi o lasciarli passare, con una chiara comprensione delle conseguenze. Perciò, grazie all’essere ricolmi della verità della consapevolezza, agiamo nei termini di un comportamento sincero. Questa sincerità completa è ciò che si intende con termini come “realizzazione”, “vedere le cose come sono” e “Risveglio”. L’Illuminazione riguarda l’essere autentici.

La chiara comprensione è un’onestà profonda

La sincerità come comportamento e la sincerità come comprensione e realizzazione sono correlate. Così pure lo sono la disonestà e la confusione. Ci ritroviamo a essere disonesti perché è più conveniente, o vogliamo un risultato che ci favorirà. Dunque, di nuovo, non siamo sempre consapevoli di come le nostre parole e azioni toccano gli altri. Questa è ignoranza: non essere direttamente in contatto con la verità. Possiamo usare strategie ben collaudate per difenderci dai mostri che presumiamo siano sulle nostre tracce. Sempre meglio che affrontarli! Ma che succede se i mostri non ci sono? Il vero mostro è quello che ci fa dire una bugia oppure offre una verità parziale, perché noi temiamo il contraccolpo emotivo che potrebbe verificarsi quando diciamo come stanno le cose. Finché non usiamo la verità, permettiamo all’ignoranza di renderci insicuri e paurosi.

Quante volte abbiamo detto: “Sai, questo è assai interessante, ma ora ho molto da fare”, piuttosto che pronunciare parole più sincere: “Non mi interessa affatto”. Perché lo facciamo? La nostra giustificazione in questo caso è quella di non volere ferire i sentimenti dell’altro. Tuttavia noi sappiamo già che cosa può ferire i sentimenti altrui, perciò la nostra giustificazione non regge. Il vero motivo per cui non siamo sinceri è di avere timore che se feriamo i sentimenti altrui costoro potrebbero infuriarsi e noi in un modo o in un altro andremo a stare male (sperimenteremo una sofferenza).

La tendenza a non essere completamente sinceri è connesso con l’evitare il dolore perché ci vergogniamo di rivelare come si comporta la nostra mente. Quante volte diciamo: “ne ho bisogno” invece che “lo desidero”. Oppure, quando le cose non vanno a modo nostro, diciamo: “Non è giusto”’. Esprimiamo il desiderio o il dolore con una forma impersonale, riferendoci a un soggetto sottinteso e anche incolpandolo. Potrebbe essere più onesto dire: “Lo desidero”, che sia un azione corretta oppure no”. Ma non lo diciamo perché ci mette in cattiva luce.

In altre occasioni, “nascondiamo” la nostra vera sensazione proiettandola su qualcun altro: “L’hai fatto tu, è colpa tua”, piuttosto che limitarsi a dire: “Sono arrabbiato”. Quando diciamo: “Tu mi fai questo” può esserci una parte di verità, ma non è la verità fondata sulla nostra esperienza diretta (che fatica a emergere o che nascondiamo non consapevolmente). Sarebbe onesto dire: “Mi sento così, e per questo motivo inveisco”. È più vicino a una presa di coscienza di quanto sta succedendo, sebbene non sia ancora completamente vero.

Nell’adempimento della verità, c’è la comprensione che l’agente degli eventi, della virtù e del vizio, è l’intenzione (o impulso), non il sé. Le intenzioni sorgono da presupposti e percezioni su ciò che è gradevole o sgradevole. Possiamo tuttavia esaminare le nostre percezioni, presupposti e impulsi e indagare la sensazione di attrazione, di repulsione, di difesa e così via. Essi non sono stati fondamentali e sopratutto non sono un sé; sono come sono. Dal punto di vista morale non c’è niente o nessuno dietro di loro da difendere, da approvare, da sostenere o da far cadere.

Per fare un esempio: come molti monaci casti, ho dovuto incontrare il desiderio sessuale e lottare con esso. Una parte di me ha riconosciuto che l’energia sessuale attira l’attenzione verso l’esterno in modi che consumano molta energia e non creano tanti benefici a lungo termine. Ho quindi accettato di non farmi guidare da quell’energia. Tutto abbastanza giusto: ma una parte del mio complesso non ha sottoscritto questo accordo ed è collegata al programma biologico della sessualità. C’è perciò una lotta, in particolare quando le donne indossano abiti eleganti, ideati per accentuare l’avvenenza delle forme femminili. Così, in presenza di donne, si nota un’increspatura nella consapevolezza, talvolta corrispondente a una prima onda. E dietro quell’onda giunge un’altra onda di confusione o di colpa, perché il copione nella testa dice che “non si deve sperimentare il desiderio sessuale”. La prima onda si trasforma in una turbolenza emotiva che persiste per ore. Ma, d’altra parte, neppure aggiungere il senso di colpa e l’avversione (la seconda onda) è una risposta serena. Riconoscere il desiderio (sessuale) e fermarsi a quello che è la sua verità, senza dargli importanza, senza costrutti mentali che arrivano come onde è il comportamento mentale corretto da tenere.

Anche per gli uomini laici vedere una bella donna causa increspature nella consapevolezza, ma anziché scattare il senso di colpa come nel mio caso, potrebbe nascere il desiderio di avere una relazione sessuale. Questo è normale, la nostra coscienza sta solo facendo esattamente quello per cui è programmata: rispondere ai segnali sessuali. Ma quell’increspatura della percezione non deve implicare necessariamente qualche comportamento o inclinazione, o collegarsi con essi. Occorre solo essere accurati su ciò che sta succedendo e riconoscerlo in quanto programma. La sincerità di vedere esattamente un’increspatura, (il sapere dov’è e che cosa è) come un sorgere condizionato le consente di ricadere nella consapevolezza senza lasciare traccia. Quando possiamo farlo, non ci lasciamo trasportare dall’onda, e ciò che rimane è una attenzione luminosa che, nelle relazioni con altri esseri, tende a entrare in risonanza con il calore e la felicità.

Il vero problema pertanto non è il coinvolgimento, ma le tendenze proliferanti e i presupposti della lussuria (o paura, irritazione, senso di colpa ecc.) che saltano sopra quel coinvolgimento. Ci sono cioè tendenze latenti nel modo in cui la mente programmata forma la nostra esperienza. Queste tendenze evocano una sensazione vaga di piacere, apprensione o irritazione. Con quella sensazione indistinta, la mente crede che il piacere durevole, la soddisfazione, l’annientamento o la dannazione siano solo a un passo. Questo è il presupposto chiamato ignoranza.

Molti dei nostri presupposti e impulsi sono biologicamente o socialmente condizionati: noi non scegliamo di averli. Eppure quella voce nel cervello o quell’impulso nel cuore è così familiare e abituale che può sembrare il “vero me”. Ma cos’è ciò che ne è cosciente? Chi è il “vero me”, il pensiero o la consapevolezza? Forse nessuno dei due. Non ci capita di ricordarci una canzone perché ci viene in mente all’improvviso quando siamo in un certo stato d’animo? E di avere un pensiero che nasce dall’intenzione di elaborare qualcosa? E di dimenticare a volte le cose che conosciamo? Nessun pensiero o stato mentale è sempre presente in noi; come può quindi ciascuno di essi costituire un aspetto o un possesso permanente? E se nessuno di essi può essere da noi posseduto o stare sotto il nostro controllo, che tipo di possessore o soggetto del controllo vive nella nostra mente? In realtà non c’è alcun sé che abbia la responsabilità di tutto questo; né sembriamo in grado di essere separati da questo spettacolo cangiante. Tutto ciò sorge per cause e condizioni.

L’eredità del kamma

Che cosa manda avanti tutto questo? C’è qualcosa al di là di questo spettacolo fugace? Se si, come potrebbe essere? Questi sono i tipi di domande che stimolano le persone a una ricerca della verità spirituale. E al cuore di una tale ricerca c’è la necessità di riconoscere e accantonare i falsi presupposti, che sono generati dai flutti della sensualità, del divenire, dei punti di vista e dell’ignoranza. Ciò significa prestare attenzione in modo appropriato, informato e approfondito. È l’intenzione fondata sulla sincerità – non per avere particolari esperienze o per diventare qualcosa, ma per uscire dai falsi presupposti.

Un presupposto di base è che le cose hanno una natura fissa o prevedibile. I nostri riflessi emozionali vengono confusi da cambiamenti del tempo atmosferico o della nostra salute, dai ritardi dei mezzi di trasporto e dai mutamenti delle altre persone. Il presupposto della nostra reazione automatica è che gli oggetti dei sensi forniscano una sensazione vera e durevole, cioè che l’impressione piacevole o spiacevole di un sapore, di un suono o di un oggetto visivo sia vera (indipendente da cause e condizioni, solida, dotata di un sé intrinseco). E questo provoca il “devo averlo” o il “non lo sopporto”. Ma, allorché noi contempliamo l’esperienza da una prospettiva più ampia e a lungo termine, notiamo che la sensazione dipende tanto dal nostro stato d’animo quanto dall’oggetto dei sensi. Quando abbiamo fame, qualsiasi cibo ha un buon sapore, ma, se ci saziamo, quella sensazione svanisce e l’interesse si sposta su qualcos’altro. In altre parole, l’intenzione, la tendenza o l’inclinazione della mente ha cambiato il modo in cui sperimentiamo il cibo. E, in altre occasioni, possiamo a malapena notarne il sapore, perché stiamo parlando con un amico. In quel caso il cambiamento è avvenuto attraverso uno spostamento dell’attenzione. Oppure possiamo pensare che il sapore sgradevole del cibo abbia rovinato tutta la serata. In questo esempio, la questione fondamentale è il contatto; vale a dire, l’impressione “sgradevole” ha ricoperto la mente in modo da trasferirvi la spiacevolezza, così tutto ciò che sperimentiamo durante la serata è percepito attraverso il filtro di questa impressione relativa al contatto.

Questo trasferimento è molto comune. Per esempio, la persona A è di cattivo umore perché è bloccata in un ingorgo del traffico ed è in ritardo a un appuntamento. Sentendosi irritata, lei o lui trova irritante il contatto umano. Così parla in modo sprezzante alla persona B, che sente di non piacere ad A, o che ha fatto qualcosa di sbagliato; pertanto la persona B si sente confusa. Ecco come viene trasferita la sofferenza. Oppure abbiamo la sensazione che qualcun altro sia molto divertente perché tutto va bene – il tempo atmosferico, il cibo, la musica – è una serata magica. Così forse pensiamo che domani faremo la stessa cosa. Tuttavia, non succede proprio così, perché le circostanze sono cambiate. C’è un umore diverso o una differente energia da entrambe le parti. A dire il vero, gli stessi fattori non tornano mai a incontrarsi. Perciò ci sentiamo delusi. Forse pensiamo che qualcuno sia venuto meno alle nostre aspettative, o che in noi ci sia qualcosa che non va. La verità è che le impressioni dei contatti sensoriali dipendono da fattori variabili e non sono quindi affidabili. Chiediamo troppo al mondo dei sensi, pretendiamo che siano sempre veri e costanti in tutte le occasioni. Non sarebbe più saggio e più onesto porsi in relazione con i dati sensoriali così come essi sono nella realtà?

Lo stesso avviene con l’impressione dell’identità. Vogliamo che lui o lei sia sempre in un certo modo, o dovrebbe esserlo, solidifichiamo una mente sensibile, mutevole e affettiva in un oggetto stereotipato chiamato “persona”. “Lui è un idiota. Lei è sempre amorevole. Lui è egocentrico. Lei dovrebbe prendersi cura di me”. Attraverso questi punti di vista noi proiettiamo l’irritazione, l’adorazione o il bisogno e trasformiamo gli altri negli eroi e nei personaggi negativi della nostra vita. Ora, queste proiezioni possono contenere una parte di verità, ma sarebbe più vero, se in maniera più specifica pensassimo che: “Lui è un idiota” potrebbe significare qualcosa come “Ho notato che il suo modo di presiedere l’incontro di ieri non ha portato i risultati che desideravo”. La falsità consiste nel fatto che un frammento di comportamento è stato trasformato in una persona tridimensionale e scolpito nella pietra. Ecco che cosa fa il “divenire”: estende un evento in un’entità. Se crediamo in questa creazione, influenzerà il modo in cui abbiamo una relazione con quelle persone contribuendo alla creazione di queste caricature, demoni e angeli. E agire così limita la nostra sensibilità e libertà.

Questa attività mentale è il kamma: in base quello che la nostra mente presuppone e proietta e a come essa reagisce, noi creiamo un database di esperienze e comportamenti correlati, una sorta di eredità. Questa crea uno “spazio” limitato in cui rischiamo di rimanere bloccati dalle stesse opinioni e modalità di azione, andando incontro alla confusione che crea delusione e sofferenza. Kamma significa “azione”; si basa sull’intenzione, sull’attenzione e sul contatto. Ogni azione ha dei risultati, ed questa dinamica di azione e reazione che domina le nostre vite. Il primo passo verso il dimorare nella verità è essere chiari circa il kamma positivo e negativo: riconoscere il male e astenersene, e scegliere il bene. Così è meglio comprendere lo stato emozionale del momento presente, sapere che proviamo irritazione, ammirazione o gelosia ed esaminarle, piuttosto che continuare a forgiare automaticamente le nostre risposte usando l’eredità del Kamma.

Quando guardiamo le cose sotto l’aspetto della verità, possiamo riconoscere le impressioni del contatto nei termini di sensazioni piacevoli e spiacevoli e possiamo essere presenti alle intenzioni e agli stati mentali salutari, non salutari. Il contatto, l’intenzione, l’attenzione e tutto questo materiale kammico sono mutevoli. Non ci sono cose, entità o persone permanenti. Grazie alla paramì della verità cominciamo a prendere misure per generare impressioni chiare, fondate sulla gentilezza, sulla compassione e sulla comprensione saggia. E mentre sviluppiamo anche la nostra attenzione diviene chiara e ben focalizzata.

La relazione: un campo vitale di apprendimento

L’ignoranza è qualcosa su cui non abbiamo chiarezza: non possiamo vedere i nostri punti ciechi. Dobbiamo quindi esplorare le nostre reazioni e i nostri presupposti mentre si sviluppano come comportamenti. Qui gli altri possono essere di grande aiuto. Quando riconosciamo la natura dipendente del tu, dell’io, degli essi e dell’esso, la sfera della relazione diventa un campo vitale di apprendimento.

Di nuovo, l’intenzione è importante: aspirare al vero, e farlo con gentilezza e rispetto. Di solito, il nostro comportamento è orientato all’ottenimento di risultati positivi. Ma se il comportamento dell’altro non fa sorgere queste impressioni positive ci diamo da fare ancora di più, o ci difendiamo, oppure ne traiamo un senso di inadeguatezza e ci allontaniamo mentre ci sentiamo ancora ansiosi e incerti. La relazione si impregna con il bisogno di divenire, e la sua sofferenza. Attraverso il processo del trasferimento, diamo la colpa di questa sofferenza all’altra persona, dalla quale nel contempo cerchiamo di ottenere lodi o attenzione. Sperimentare ansia e risentimento mentre si cerca di ottenere approvazione è un processo che confonde! La confusione è intensificata dalla mancanza di un’attenzione profonda: non ammettiamo ciò che sta accadendo, e probabilmente non verifichiamo se il nostro presupposto iniziale è corretto. Non siamo entrati nella verità, e così non abbiamo lasciato andare la fonte della nostra sofferenza.

Riconosciamo pure che per comunicare ci è necessario stabilire alcune pāramī e mantenerle in funzione. Abbiamo sviluppato una mente paziente e benevolente? Rinunciamo a desiderare che le cose siano in accordo con le nostre preferenze personali? Stiamo parlando di fatti che possono essere verificati o di presupposti? Abbiamo bisogno di stabilire uno spazio sicuro per la comunicazione e possiamo anche provare ad essere specifici. Per esempio, invece di dire: “Perché tu sei così prepotente?”, possiamo dire: “Ci sono rimasto veramente male”. Possiamo dire: “Questo, per me, è quanto succede”. Cerchiamo di non dir cose del tipo: “L’hai fatto perché sei sempre così”. Non mettiamo un “sempre”, un “tu” o “io” fisso. Pariamo solo di un particolare episodio e di un comportamento isolato.

La sincerità è rifugio a se stessa

Uno dei benefici di sintonizzarsi con le verità correlate del non-sé e del kamma è che siamo meno attaccati al nostro comportamento e alla nostra immagine. Queste verità sottolineano inoltre che ogni azione ha un effetto, e che le azioni influenzano sia l’altrui mente che la nostra. Così noi vogliamo realmente sapere quando le nostre azioni causano problemi, perché questo ci aiuta a capire e a lavorare con le abitudini karmiche che tutti abbiamo. L’interesse per la verità ci rende imperturbabili: non diamo importanza all’essere perfetti. La verità ci fornisce anche un punto di riferimento stabile, come l’ammissione che possiamo commettere errori. Cominciamo a vedere l’inter-dipendenza dei fenomeni, il principio di causa e l’effetto, e come le cose vengono prese e sentite. Ci riesce un po’ meglio capire la condizione umana e la compassione cresce. Siamo anche molto più attenti e interessati al tipo di cause che sottoscriviamo. Riconosciamo che qualsiasi cosa facciamo ha un effetto e che una nostra azione individuale influenza gli altri. Non possiamo evitarlo. Non possiamo dire: “Non voglio che abbia un effetto su di te”, perché ce l’ha.

Il terreno della verità

Nella vita quotidiana siamo avvantaggiati dall’avere qualche punto fermo. Lo sviluppo della verità ci rende stabili in tre modi. Il primo modo è che lo sviluppo di questa perfezione va ad influire sulla moralità, permettendo di potere affermare: “Io non ho ucciso, non ho rubato, ecc.”. Così, con la certezza che la nostra sofferenza non derivi da nulla di ciò che sappiamo di non avere commesso ci possiamo creare uno “spazio” dove stare, ad esempio: “Posso essere stato sciocco, forse non ho avuto molta consapevolezza, ma non sono stato cattivo”. Oppure, se si è agito male: “La passione mi ha sopraffatto e io mi sono comportato in modo non salutare. Ora ne prendo atto e desidero fare ammenda”. Capita a tutti di perdere la testa, non è vero? Possiamo ammetterlo e confidare che gli altri lo accetteranno. Perciò, quando si ha questo luogo di verità, si sta meno sulla difensiva e ci sono meno conflitti. Il potere della verità è che ci dà un luogo solido e stabile dove sia possibile riconoscere un errore e di esaminare la sofferenza, la confusione o il dolore.

Il secondo modo in cui lo sviluppo della sincerità rende stabilità riguarda la qualità della consapevolezza. Ciò ha a che fare con il liberare la mente dall’avidità, dalla rabbia e da altri impedimenti per mezzo della meditazione (= consapevolezza e concentrazione). La consapevolezza ci dà la possibilità di comprendere quale emozione è presente nella mente e analizzarla (misurarla). Per esempio: “Nella mia mente c’è avidità; essa è sorta alla vista di questo”. Il riconoscimento sincero del sentimento fa emergere ciò che l’ha originato. Nell’esempio è l’avidità; misureremo quanto dura il piacere dell’oggetto desiderato, e quanto è disagevole l’esperienza dell’avidità. Dopo questo esame sincero, possiamo spostare l’attenzione, ritornare al respiro cercando di sviluppare l’intenzione di lasciare andare. Questo processo libera la mente dagli impedimenti, come l’agitazione, la confusione, il dubbio o l’avidità. Allora la consapevolezza della mente si sposta verso la stabilità della concentrazione meditativa.

In terzo luogo, la sincerità fornisce la stabilità per lo sviluppo della saggezza trascendente. Quando la mente sa di essere consapevole, si allontana dai flutti e può osservarli, con le loro cause ed effetti, nei termini delle Quattro Nobili Verità. Cominciamo a vedere le cose in modo sincero, piuttosto che pensare: “Loro sono sempre così. Io dovrei essere così”. Questa è proliferazione – il meccanismo che trasforma l’onda di un’impressione piacevole o spiacevole in una cosa solida. E questa è l’origine della sofferenza della negatività, del desiderio, della perdita, della cupidigia e dello squilibrio. Ma quando la mente è chiara e abbastanza stabile da poter contemplare tutto ciò – con sincerità – come un processo, può anche lasciare andare. C’è la realizzazione che “Questo è la sofferenza; questa è la sua origine; questo è come cessa; e questo è il modo per produrre tale cessazione”. E questa è la saggezza.

Il segno distintivo della verità è che ci si sente chiari, aperti e radicati nella realtà. Non ci sono recriminazioni, sospiri di rassegnazione o trionfi; la mente riposa nella consapevolezza. Solo la sincerità restituisce la mente alla casa della consapevolezza da cui sorge. Allora ci sentiamo chiari ed equilibrati. I presupposti, le strategie, le difese ragionevoli, le argomentazioni e le accuse di responsabilità possono farci sentire retti, giustificati o superiori, ma non ci porteranno alla pace del Nibbāna. Questo è il motivo per cui seguiamo il movimento verso la verità. Spostandoci dall’ignoranza alla sincerità, possiamo aprirci a una consapevolezza stabile e trascendente.

Suggerimenti sulla sincerità

Parlare con sincerità ha sulla mente un effetto purificante e corroborante. È anche un sostegno per l’empatia, perché rispettiamo la nostra chiarezza e quella degli altri. Senza il contributo altrui, in quale altro modo possiamo comprendere profondamente la nostra illusione e le nostre abitudini subdole? Sebbene possiamo provare ansietà per l’esprimere cose che riteniamo possano portare disagio agli altri, i benefici del parlare in modo diretto sono rilevanti per tutti gli interessati. Certo, bisogna conoscere il tempo e il luogo adatti, e sviluppare le capacità della retta parola. Questa è una qualità della parola finalizzata al benessere a lungo termine di noi stessi, degli altri e delle nostre relazioni.

Riflessione

Considerate le vostre azioni e atteggiamenti quotidiani. C’è qualcosa che non potreste rivelare a un amico o a qualcuno che rispettate?

Quando vi trovate a cercare di comprendere un emozione, un comportamento e un pensiero, sia che riguardi voi stessi o gli altri, fatelo senza usare direttamente le forme verbali “esse sono”, o “io sono”, o “egli è”. Ad esempio, invece di “Io sono depresso”, provate “In questo momento sperimento depressione”. Invece di “Sei meraviglioso o pigro” ecc., provate “Ti vedo, ti considero meraviglioso o pigro”. Questo aprirà le possibilità del cambiamento e del non attaccamento.

Riconoscete come è la vostra mente quando dite o pensate “sempre”, “mai”, “tutti”, “nessuno”. Esaminate che effetto fa, che cosa predispone come base per l’azione o la passività, e per il modo in cui vedete voi stessi e gli altri. Riconoscete qualsiasi stereotipo come “Le donne sono…”, “Non si sa mai con i gay…”, “Tipico messicano!” ecc. ecc. Esaminate la sincerità dei presupposti, delle esperienze o di singoli aspetti dei dati su cui la mente fonda questi stereotipi.

Quando dovete dire qualcosa a qualcuno prendete pienamente coscienza che questo è un pensiero sorto nella vostra mente, non necessariamente una verità assoluta. Se avete un ricordo, riconoscetelo come ciò che è, piuttosto che come una testimonianza infallibile.

Azione

Esercitatevi a trovare il momento e il luogo adatto per dire cose che le persone potrebbero trovare sgradevoli. Poi accennate a ciò che sapete: “Mi sembra che…”, “Ho notato che…”, e aggiungete pure qualche dettaglio personale significativo: “Mi sono davvero infastidito quando ho sentito…”. Evitate di definire le intenzioni altrui. (Come fate a saperlo?). Se quello che avete da dire può essere scomodo, allora esprimetelo insieme alle vostre preoccupazioni – per esempio: “Non mi è facile dirlo, ma, dato che rispetto la tua onestà, ho pensato che vorresti saperlo…”.

Restate in contatto con ciò che accade nel vostro corpo mentre parlate. Notate l’effetto della confusione o dell’eccitazione, dell’ansia o della rabbia, e come in quello stato caotico sia facile perdere il contatto con la verità.

Notate quando in una conversazione, nel pensiero o nel ricordo di qualcosa, diventate irrequieti, vi stringete nelle spalle, guardate da una altra parte o eseguite un movimento diversivo. Provate invece ad ammorbidire quel riflesso, entrare nel vostro corpo e rilassarvi. Questo vi aiuterà a permettere che una verità scomoda (uno stato emozionale) che ci ha raggiunto così come è arrivato così se ne va. Non riguarda direttamente cosa state pensando o dicendo, solo come vi sentite. Se ne rimanete consapevoli, e rinsaldate la mente nella consapevolezza della sensazione, sarete capaci di arrivare a dire o pensare la vostra verità.

Meditazione

Fondate la vostra meditazione su una postura corporea equilibrata e salda, sia che siate seduti, che camminiate, che siate in piedi fermi o che siate sdraiati. Quando coltivate la consapevolezza del respiro, siate consapevoli di “tutto il corpo”, cioè il corpo così come lo sentite – il vostro sistema nervoso. Questo vi mette in sintonia con le ondate e i flussi di energia che accompagnano le sensazioni – fisiche o mentali. Se vi sedete con le mani leggermente unite a coppa, in modo che le punte dei pollici si tocchino, o con i palmi rivolti verso il basso, uno su ogni coscia, potete rimanere sensibilmente in contatto con questo “corpo senziente” affettivo. Questo vi darà la possibilità di cogliere il saldo e quieto equilibrio di una consapevolezza equanime; allora diverranno più evidenti le occasioni in cui la vostra mente è sotto pressione, irrequieta o sognante. Questo stato di consapevolezza è una base ottimale per l’attenzione saggia, per indagare la verità e per dare risposte chiare alla vita.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La pazienza (cap. 6)

Ho già accennato alle tre fasi di sviluppo delle pāramī (perfezioni): la fase iniziale, quando costruiamo la barca della retta intenzione; la fase del raccoglimento per affrontare il flutto, quando siamo sbattuti contro le rapide della negatività, del pensiero seducente, degli impulsi selvaggi e del dubbio; e poi la fase finale in cui la nostra barca, più grande, più profonda e privata della zavorra, giunge a destinazione. Questo processo diviene molto chiaro con la successiva perfezione, la pazienza (ma anche tolleranza, accettazione); essa si muove per davvero in mezzo alle rapide. Il Buddha dichiarò che la pazienza è la suprema pratica di purificazione e si riferiva al contenimento, la capacità del mantenere il cuore quieto in presenza della sofferenza fino al lasciare andare la causa stessa di quella sofferenza. Infatti la mente/cuore (citta) genera di solito sofferenza reagendo a ciò che la vita ci tira addosso, trattenendolo o coinvolgendosi. Tutte le perfezioni contribuiscono alla diminuzione o allo smantellamento di questo dukkha (insoddisfazione), ma la qualità specifica della pazienza consiste nel sostenere il cuore attraverso le turbolenze dell’esistenza, in modo che smetta di dibattersi e di affondare.

Il Buddha sconfisse le forze dell’illusione, della rabbia, della paura, dell’avversione e dell’avidità con la pratica della pazienza, anziché incolpare qualcuno, ignorare quelle forze o fuggire via da esse. In un’epoca in cui si è incoraggiati non ad aspettare ma ad andare più veloci, non ad accettare ma a essere più esigenti, questa perfezione della pazienza può essere quella da utilizzare con maggior frequenza per attraversare i flutti.

Accettazione senza aspettative

La pazienza ha a che fare con il controllo delle reazioni emozionali, ha quella conoscenza che riconosce che un problema o un dolore non è qualcosa da cui fuggire, per cui agitarsi o sentire autocommiserazione. La sua saggezza sa che dobbiamo dare la priorità ai passi con cui possiamo dissolvere la sofferenza. È vero che potrebbero esserci molte alternative per risolvere un problema, ma la prima cosa da fare è non reagire, non permettere una proliferazione mentale. Il nostro primo sforzo è tracciare una linea intorno alla sofferenza, fare un passo indietro e riconoscere che “Questo è quanto”. Poi c’è lo sforzo di ricordare che possiamo essere liberi dalla sofferenza: possiamo lasciare andare, non dobbiamo accogliere la sofferenza e considerarla come definitiva, reale e solida. Dopo il ricordo iniziale, c’è l’incoraggiamento a investigare, e infine potremo estrarre la freccia avvelenata dal nostro cuore. Tutto questo richiede pazienza.

La pazienza non è una rassegnazione inebetita nei confronti delle difficoltà della vita; essere pazienti non vuole dire che non bisogna dare importanza alle cose o che non si deve provare a migliorare il proprio comportamento. Né significa sopportare qualcosa finché finisce. La pratica della pazienza consiste nel sopportare il dukkha senza nutrire l’aspettativa che sparisca; significa rinunciare a qualsiasi tipo di termine massimo, di conseguenza la mente è serena ed equanime. La pazienza pura è il tipo di accettazione che riconosce la presenza di qualcosa senza aggiungere o nascondere nulla. È sostenuta dall’insight che, quando la mente smette di agitarsi, piagnucolare e incolpare, allora la sofferenza può essere compresa. È questa sofferenza che fomenta l’odio, l’avidità e la disperazione, ma la reattività non è la verità della mente, bensì un riflesso condizionato, e non è il sé. Per questo motivo, la sofferenza può essere smontata e, quando lo è, la mente è libera.

Tutti i riflessi condizionati devono essere intesi come inaffidabili e dipendenti da cause e condizioni. Non devono essere considerati come reali e solidi. Eppure ne abbiamo esperienza! Sebbene possiamo com- prendere intellettualmente che mantenere la presa, aspettarci che le cose siano soddisfacenti o sentirci ingannati siano reazioni immature, al fine di smontare questi atteggiamenti dobbiamo prima esercitare la nostra pazienza su di essi. Essere pazienti con la sofferenza non è una punizione ma un viaggio di crescita.

Il mondo e i suoi venti

La sofferenza che può essere abbandonata, sorge da cause e condizioni: da atteggiamenti e presupposizioni secondo cui le cose dovrebbero andare a modo nostro, la vita dovrebbe essere comoda, i corpi non dovrebbero sperimentare dolore e la società dovrebbe essere equa e pacifica. Ci aspettiamo che i fenomeni condizionati siano soddisfacenti, definitivi, razionali, produttivi e così via. Ma, se li prendiamo nell’insieme per un periodo di tempo, vediamo che essi non lo sono. Perciò, se ci aspettiamo che lo siano, causiamo sofferenza a noi stessi e agli altri. Anche se gli esseri umani migliorano le condizioni e le circostanze ambientali, la sofferenza non diminuisce: oggi l’ansia e la depressione sono i principali disturbi del mondo sviluppato. E’ assai diffuso il disagio di essere spinti a inseguire obiettivi materiali che non sono mai completamente realizzati o soddisfacenti, oltre all’ansia della pressione competitiva e alla solitudine. Sono questi i “venti mondani”: le folate della lode e del biasimo, del guadagno e della perdita, della fama e dell’ignominia, della felicità e dell’infelicità. Queste impressioni innescano pretese, ansietà e scoramenti per cui non ci sentiamo mai abbastanza bene nei luoghi in cui siamo e nelle condizioni in cui ci troviamo. E, come fossero raffiche di vento, possono soffiare attraverso il cuore con la forza di una burrasca, facendoci perdere completamente l’equilibrio.

Prendiamo ad esempio la fama in contrasto con l’essere ignorati. Quando siamo famosi e al centro dell’attenzione, ci sentiamo magicamente importanti. Poi c’è il contrario, l’essere ignorati: “Chi sei? Vuoi qual- cosa?”. Siamo solo un numero nella folla, e pensiamo: “A nessuno importa nulla di me; io non conto niente”. La gente lotta per diventare famosa, il Libro del Guinness dei primati ne è pieno. All’altro estremo, se non otteniamo nessuna attenzione; quando siamo ignorati, le nostre vite diventano infelici.

Esaminiamo un’altra coppia di venti mondani: la lode e del biasimo. Nel primo caso ci sentiremo orgogliosi o anche gelosi quando qualcun altro viene lodato mentre noi siamo in piedi vicino alla porta, notati a stento. Quanto al biasimo, come ci dimeniamo e contorciamo per cercare di evitarlo! Aspiriamo a essere apprezzati e ci diamo da fare per esserlo, eppure c’è sempre qualcuno a cui non piacciamo. O forse incolpiamo noi stessi. Così cerchiamo di fare ciò che è equo e giusto, ma qualcuno ci fraintende o si offende e veniamo criticati. Badiamo a essere educati: “Devo ricordarmi che lei è un po’ suscettibile a questo riguardo. Non devo dimenticarmelo, nel caso venissi biasimato. Voglio essere sicuro di capire il punto di vista di ciascuno e che tutti siano d’accordo su questo”. Comportarci in questo modo può renderci così nervosi da farci sbagliare… e poi il biasimo ci colpisce: “Sei un porco insensibile e senza cuore. Come hai potuto dirlo?”. A quel punto ci contorciamo sulla punta della freccia della sofferenza.

Il Buddha formulò una sintesi molto utile del biasimo: “Sono biasimati coloro che rimangono in silenzio, / sono biasimati coloro che parlano molto, / sono biasimati coloro che parlano con moderazione. / In questo mondo non c’è nessuno che non sia biasimato //” (Dhammapada, 227). Questo valeva anche per lui, poiché il Buddha fu biasimato molte volte. Perciò, se sappiamo che è inevitabile, possiamo focalizzarci solo sul fare del nostro meglio, mantenendo sempre il nostro orecchio di saggezza drizzato per captare l’anelito della mente in cerca di approvazione e il suo timore di disapprovazione.

Una volta che la mente comincia ad anticipare il momento in cui sarà incolpata, è pervasa da una folata di vento. E quando il biasimo inizia… la nostra mente può cercare una spiegazione razionale per qualsiasi cosa ci venga rimproverata. O forse proviamo a scusarci. Oppure ribattiamo: “Non sei migliore di me”. Ci dimeniamo, piuttosto che sentire semplicemente dove penetra il biasimo e poi tracciare una linea intorno a quell’area realizzando che: “Questa è una sensazione mentale dolorosa”. È un innesco, per cui dobbiamo essere estremamente pazienti con quella sensazione. La pazienza deve essere appresa sentendo la sensazione dolorosa e smettendo di reagire. È una lezione di umiltà: sentire il dolore, avere pazienza e imparare qualcosa sul lasciarlo passare.

Imparare la vera risposta

Per un risultato che fornisca un nutrimento duraturo, dobbiamo sviluppare una risposta all’insoddisfazione, dukkha. Il Buddha esortava a comprendere l’insoddisfazione. La qualità insoddisfacente secondo cui le cose vanno male, deve essere compresa per realizzarne la cessazione. E allo scopo di capire, dobbiamo guardare dove le cose sono sentite. Ad esempio cosa succede con un dolore fisico? Vediamo come dapprima ci dimeniamo un po’ per trovare il modo di ammorbidirlo; poi cominciamo a sentirci un po’ infastiditi, dopo di che ci sentiamo molto irritati. Un altro esempio si ha quando ci rivolgono delle offese: “Non è giusto che mi succeda; non va bene che continui così a lungo”. Davanti a queste situazioni dobbiamo pensare: “Oh, lascia andare!”. Ma non se n’è ancora andato. Aspettavamo che finisse, così lo abbiamo lasciato andare solo al novanta per cento. Alla fine, ci spinge in un angolo, e l’unica cosa che dobbiamo fare è accettare la sua presenza e rifletterci sopra. La risposta più saggia al fastidio è renderlo un oggetto di meditazione. Nel permettere pienamente alle condizioni di essere ciò che sono, rendiamo stabili i nostri cuori e troviamo la pace. “Le condizioni sono così”, ma attenzione! Le condizioni non sono le nostre! E’come avere la necessità di mettere una barca in mezzo al mare agitato per andare a pesca, non possiamo drenare il mare, ma non è neppure necessario annegare.

Le percezioni, gli stati d’animo e le reazioni sorgono in dipendenza dalle aspettative, le quali sono in correlazione alle condizioni che le hanno causate. Dobbiamo imparare che l’approvazione degli altri, il successo nella nostra carriera non devono essere dati per scontati, non ce ne dobbiamo impadronire come se fossero “nostri”. Questo impadronirsi delle condizioni è ciò che apre crepe nella nostra barca e ci fa annegare. Ma se le condizioni possono essere mantenute nella verità della loro natura, la mente lascia andare e percepisce una libertà che non dipende dai sostegni. Il guadagno, la perdita, la lode, il biasimo: non è necessario inabissarci. Possiamo logorare il riflesso di aggrapparci al mondo. Ma per questo dobbiamo essere molto pazienti.

Costruire la pazienza intorno a un punto

Al centro della nostra sofferenza c’è la questione cruciale che non vogliamo dolore emozionale. La nostra resistenza può precipitarci in un attacco di dubbio, mancanza di fiducia e sensazione di essere inutili. In questa perdita di equilibrio, la mente si dibatte e crea o un sé che è la vittima o un sé da incolpare. Dobbiamo imparare a vedere che ciò che è veramente lì (a causare sofferenza) è il contorcersi al fine di deviare il dolore dai nostri cuori. Diamo la colpa agli altri o incolpiamo noi stessi, il mondo, il fato, o concetti del genere, insomma cerchiamo capri espiatori che si carichino del dolore. Tutto ciò è la mente che resiste alla sensazione dolorosa o si contorce cercando di schivarla. E, in questo processo, la mente perde la forza e la chiarezza che le permetterebbero di reggere la sensazione o persino di lasciarla andare.

Se invece prestiamo attenzione con gentilezza ma in modo saldo alla fonte remota della nostra sofferenza, troviamo un luogo in cui possiamo lavorare e riunire le nostre abilità attorno a questo dolore, piuttosto che cercare di trovare un modo per aggirarlo. Se andiamo direttamente alla sensazione stessa, possiamo sentire che essa non ha un’intenzione; non mira a farci del male, sta solo comportandosi come una sensazione. La sensazione sente; non è il sé, non ha un obiettivo né un soggetto agente, e non appartiene a qualcuno. Perché non lasciarla andare per la sua strada e mantenere il cuore libero dal suo viluppo? Se operiamo in questo modo, la mente può mantenersi serena anche quando la sensazione fisica rimane. In questo modo, usiamo ciò che è doloroso, imbarazzante o tedioso come strumento per purificare e rafforzare la mente.

Le dieci pāramī si accordano e si sostengono a vicenda in questo punto. Per esempio, per essere pazienti si deve applicare l’energia – non è una risposta passiva. La mente deve essere chiara e sveglia; la pazienza richiede una disponibilità totale e coraggiosa del cuore a sperimentare la mente e i suoi riflessi. Nello stesso tempo, se siamo pazienti, conserviamo e consolidiamo l’energia senza sperperarla con inutili reazioni e turbamenti.

La determinazione o impegno (adhiṭṭhāna) è un’altra perfezione di vitale importanza che si collega alla pazienza; essa rafforza la struttura di sostegno. Abbiamo bisogno di essere sostenuti impegnandoci in qualcosa, sia nelle nostre attività sia nelle responsabilità verso le persone con cui viviamo. Ma, come avremo notato, quando ci dedichiamo a qualcosa, prima o poi sorge il desiderio di cambiare direzione e svincolarci da quell’impegno. Se tuttavia ci impegniamo veramente, resistiamo alle maree della sensazione per approdare a una sorgente più profonda di saggezza.

Quando coltiviamo la pazienza all’interno dei flutti, questo ci incoraggia a vedere che le energie non salutari tendenti all’attaccamento, i desideri che la mente adotta, possono essere sopportate e poi abbandonate. E poiché possono essere lasciate andare, sappiamo che esse non sono innate nella mente né le appartengono. Ma questa realizzazione dipende dalla paziente forza d’animo che riporta sempre la mente alla stabilità, in modo che non vacilli o adotti il desiderio o l’avversione, la paura o la disperazione come verità assolute. Dobbiamo imparare a sviluppare la pazienza con i nostri attaccamenti e passioni, e con i nostri punti di vista e opinioni su di essi.

Liberare la mente con la pazienza

Tutte le perfezioni si fondono nella suprema saggezza, la salda e profonda comprensione della sofferenza. Ma è la pazienza che, se coltivata a fondo e con insight, penetra la nostra volontà di agire o intenzione (cetanā). L’intenzione è l’attivazione mentale che cerca, oscilla e stringe. È anche la fonte del kamma, perché questo si basa sull’intenzione dietro il pensiero, sulle reazioni, sulle strategie abituali della mente e sul saltellare in ogni dove. L’intenzione orienta in un modo particolare l’attenzione e l’interesse, così che vengano in mente le preoccupazioni e gli obiettivi corrispondenti, e talvolta seguano pure le parole o le azioni corporee. Questo è ciò di cui è fatto il nostro “mondo”. Per esempio, siamo molto coinvolti in un affare o in una relazione. Le nostre preoccupazioni potrebbero essere espresse così: “Sembra che le cose vadano male”. Oppure: “Le cose stanno andando bene. Abbiamo trascorso una buona annata – ma la prossima?”. La sfera delle nostre preoccupazioni è il nostro mondo, all’interno del quale vi è guadagno e perdita. E tutto questo dipende dall’attività della mente.

Una mente le cui intenzioni sono colpite dai flutti diventa turbolenta. E crea un sé che resta bloccato. La nostra misura è determinata dal mondo che la nostra mente ha costruito. Sia nel mondo raffinato della meditazione che nel mondo degli affari, i flutti fluiscono e i venti mondani soffiano. Tuttavia, c’è un luogo in cui i flutti cessano e il vento non soffia. È la fine dell’intenzione. Quando il processo che cerca, oscilla e stringe si ferma, si ferma anche il mondo, o piuttosto non viene creato. La trascendenza, o l’an- dare oltre, alla fine significa che il movimento della mente, la quale cerca di schivare, dimenticare, sconfiggere, arrestare, deviare, calmare o placare, si ferma. In questa sosta evaporano le stesse condizioni che sembravano ergersi dinanzi a noi. E, grazie a questa conoscenza, non abbiamo più paura delle condizioni; non le desideriamo né ci intimidiscono più.

La pazienza costituisce una parte importante di questo processo. Con la pazienza, impariamo che, invece di cercare di svincolarci dalla sofferenza, possiamo restare fermi per liberare la mente dalla sua ostinazione e possessività. Allora, quando le perfezioni hanno svolto la loro funzione e il flutto del mondo è indietreggiato, l’intenzione – anche l’intenzione positiva delle pāramī – può rilassarsi. C’è la vera pace della mente.

E possiamo anche provare rispetto per gli ingrati e quelli che ci esasperano. Ci aiutano a indebolire la dipendenza per i punti di vista personali e ci aiutano a non essere più affascinati o irritati dalle personalità degli altri e da tutto quello che non è un vero sé. Allora diciamo “grazie” a situazioni inutili e a persone che ci irritano. Questa è la perfezione della pazienza: può rendere la nostra vita un veicolo di benedizione.

Suggerimenti sulla pazienza

La pazienza può dapprima apparirci come la qualità del digrignare i denti – “tieni duro fino a quando non finisce”. Ma questa non è la pazienza perfetta, perché, in tal caso, la mente desidera ancora la fine dell’esperienza e l’avversione non è stata abbandonata. La pazienza perfetta ha la forza delicata e profonda di avere “tutto il tempo del mondo” per rimanere in un’esperienza. Rilassa il limite del tempo. Il potere di trasformazione della pazienza è tale che, quando la mente allenta la sua chiusura e irrita- zione, il fastidioso indugio diventa un’occasione per la spaziosità, e il comportamento irritante dell’altro è qualcosa che possiamo incontrare, con empatia, come un suo sfortunato problema. Naturalmente la pazienza include anche la saggezza di sapere cosa si deve sopportare e quando è opportuno agire in modo chiaro e responsabile. La pazienza non ha lo scopo di trasformarci in uno stuoino, ma agisce come uno scudo che ci ripara dagli impulsi immediati che non ci procureranno benessere. E poiché il nostro condizionamento ci spinge spesso ad agire il più rapidamente possibile, è sa- lutare controllare questo atteggiamento con la saggezza.

Riflessione

Quando siete in coda all’ufficio postale, sentite cosa succede nel vostro corpo. Fate lo stesso quando siete di fretta e non avete un momento da perdere. Guardate cinque secondi passare su un orologio, notando i diversi stati di energia nervosa e come “sentite” il tempo. La sensazione del tempo è una misura di ciò che succede nel sistema nervoso – ecco perché, quando il sistema accelera, non c’è mai abbastanza tempo ed è facile che venga in mente una lista di più cose da fare. Riflettete: “Questo lavoro non può mai essere finito in tempo!”. Cosa ci vorrebbe per essere semplicemente in equilibrio e attenti al presente per dieci o venti secondi? Risposta personale: “forse la pazienza?”

Azione

Qualunque cosa stiate facendo, fatelo con grande cura e attenzione. Qualsiasi sensazione sentiate, ospitatela con generosità. Ritornate al corpo, estendendo in basso la vostra consapevolezza lungo le gambe fino alla pianta dei piedi. Per sostenere questa presenza nel corpo, provate a tenere le mani impegnate, per esempio afferrando dolcemente il volante dell’auto se state guidando o congiungendole delicatamente se state facendo altro. Dirigete la vostra consapevolezza sull’impressione tattile del tocco leggero e sensibile.

Meditazione

La pazienza è essenziale per la meditazione, sia come qualità che modera l’impazienza di ottenere risultati, sia come rimedio specifico allo squilibrio di energia. Riguardo al primo problema, l’atteggiamento corretto è quello di cominciare ogni periodo di meditazione come se fosse il primo in assoluto, e continuare a portare l’energia e le altre risorse nel momento presente. I risultati verranno da quella base. Riflettete sugli obiettivi in un altro momento; la prima valutazione da fare è se si è in grado di portare quell’atteggiamento di “un attimo per volta” nella pratica.

Si ha uno squilibrio di energia quando ce n’è troppa o troppo poca. Questi stati diventeranno le basi dell’irrequietezza e dell’agitazione oppure della pigrizia, del torpore o dell’apatia. Entrambi gli squilibri sono sgradevoli, per cui bisogna avere pazienza al fine di sopportarli.

E’ bene rafforzare la concentrazione sul corpo, dapprima sulla sensazione generale della postura e poi sul respiro. Controllate che la postura sia eretta e vigile, poi siate presenti ai muscoli e alle articolazioni della parte superiore del corpo sia per ammorbidire l’attenzione che per destarla. Quindi stabilizzate la respirazione e allungate le pause tra l’espirazione e l’inspirazione. Ciò può anche sembrare spiacevole all’inizio, ma fa parte della seconda fase della pāramī. Sopportate la riluttanza dell’ottusità o il contorci- mento dell’irrequietezza, e mantenete un respiro lento e completo. Continuate a lasciar andare ogni contenuto della mente – per esempio, ‘Quante cose devo fare’ – e sentite l’energia che si dimena, senza cercare di cambiarla, e senza avversione. Certo, potete avere molte cose da fare, ma la pazienza vi aiuterà a farle meglio. A volte siete stanchi e a volte troppo stimolati. Lavorate sull’incontrare l’energia del corpo e respirare attraverso di essa per suscitare il non coinvolgimento e l’equilibrio. Quando si è stabilita una chiara consapevolezza, allora è tempo di fare ciò che ritenete opportuno.

Joyful Parents Succesful Children – Lama Zopa Rinpoche – Apprendimento interiore (cap. 7)

Esistono due tipi di apprendimento. Studiare per diventare segretario, cuoco, manager di un’azienda e così via. Poi c’è l’apprendimento delle cose interne, che coinvolge la mente. Se metti in relazione il tuo lavoro con il tipo interiore di apprendimento, le tue azioni saranno virtuose e causa di felicità.

La tua mente è ciò che fa sì che le tue azioni del corpo, della parola e della stessa mente diventino virtù e cause di felicità. Una mente sana rende sane le tue azioni, il che porta il risultato di felicità e una vita sana. Una vita sana significa non solo questa vita, ma tutte le vite finché non smetterai di rinascere nei sei regni della sofferenza. In breve, una mente sana è una mente etica, che conduce a una vita etica.

Il mondo soffre perché le persone non vivono una vita etica e non hanno una mente sana. Tutti i problemi globali, i problemi del paese, i problemi della società, i problemi familiari e i problemi individuali provengono da una mente malsana. Sono causati da una mente non virtuosa, immorale, disturbata e oscurata. Le cose esterne – come cucinare, pulire ed essere un manager possono essere apprese, ma senza una mente virtuosa che le accompagna nessuna di esse diventa motivo di felicità. 

Imparare un lavoro ha lo scopo di provvedere ai tuoi bisogni in questa vita, non poni le basi per la felicità (sebbene molti pensano che i soldi facciano la felicità). Anche se vivi per 1000 anni coprirai i tuoi bisogni ma non sarai felice. E’ la mente e il suo addestramento quello che fa la differenza. Si tratta di avere una mente felice, libera dalle centinaia e migliaia di problemi che derivano dall’attaccamento a questa vita. Allora hai la felicità interiore. Con una mente libera dall’attaccamento a questa vita, cerchi la felicità non solo di una vita futura ma di tutte le vite future.

La consapevolezza che occorrono numerose rinascite samsariche intrise di sofferenza per incontrare il Dharma, per attualizzare il sentiero e rimuovere il karma negativo che causa le rinascite, è la motivazione che ti deve spingere a cercare la felicità in questa vita e delle vite future a partire da questo stesso istante. Se hai questa motivazione, tutte le tue azioni diventeranno costruttive, nel senso che con questo importantissimo apprendimento interiore, anche tutte le cose che impari a scuola o all’università, sia pulire, cucinare o gestire un’azienda, diventano azioni positive che ti permetteranno di purificare il Karma negativo, creare karma positivo che sono le cause di felicità in questa vita e sopratutto nelle vite future. 

Il Dharma è azione, non si tratta solo di andare al tempio a fare offerte, pregare o meditare con gli occhi chiusi. Se ti siedi solo con gli occhi chiusi o leggi semplicemente le preghiere, è difficile vedere come la pratica del Dharma fermi i problemi di questa vita. Ma se sai esattamente cos’è il vero Dharma, saprai che ferma i problemi causati dall’attaccamento, dalla rabbia e dall’ignoranza.

Quindi, conoscendo le caratteristiche del samsara, che è quella di possedere l’illusione di falsa felicità derivante da oggetti materiali o dall’attaccamento alle persone o a determinati concetti, ti rendi conto di come ciò che di felice sembra anche offrire, in realtà è solo sofferenza (e questa è la prima verità o primo Dharma). Una volta che sei consapevole di questo vorrai trovare la strada per la liberazione dall’esistenza samsarica. Questa diventa la tua motivazione per vivere questa vita con la consapevolezza mentale e la determinazione a cercare di fare azioni virtuose per essere veramente felice (non solo sostenerti). Quindi vivrai lavorando per sostenerti ed usando la mente per essere felice (e questa è la seconda verità o secondo Dharma). Il primo Dharma non porta la felicità ultima; porta la felicità samsarica, che è la sofferenza del cambiamento. Il secondo Dharma, con la mente della seconda verità tutte le azioni del corpo, della parola e della mente diventano cause di liberazione. Tutto ciò che fai diventa motivo di felicità assoluta.

Ai due Dharma (o se volete ai due modi di apprendere le cose) di cui abbiamo parlato adesso, se ne aggiunge un terzo, che consiste nella rinuncia al pensiero egoistico, causa di problemi, ostacoli, sfortuna e cattiva energia. Lasciandoti alle spalle il pensiero egoistico, sarà naturale per te amare tutti gli altri esseri. L’obiettivo da raggiungere ora è l’eliminazione totale di tutti gli oscuramenti e il completamento di tutte le realizzazioni per il bene degli esseri senzienti: gli innumerevoli esseri infernali, i fantasmi affamati, gli animali, gli esseri umani, gli asura e le divinità. Anche se non ti hanno chiesto di aiutarli, ti senti responsabile per loro perché li ami. Questa mente desiderosa di aiutare tutti gli esseri senza escludere nessuno (nemmeno i nostri nemici!) liberandoli delle sofferenze samsariche e portandoli alla felicità della piena illuminazione è la mente della Bodhicitta. Questa è la terza verità (o terzo Dharma): ottenere la mente della Bodhicitta. Coloro che hanno questa mente pura sono detti Bodhisattva, sono gli esseri che sono in grado di aiutare gli altri esseri perché loro stessi hanno già ottenuto l’illuminazione. Senza di questa non sei ancora in grado di liberare gli altri esseri.

Con questa mente illuminata della bodhicitta, tutte le tue azioni del corpo, della parola e della mente (che si tratti di cucinare, pulire o essere un manager di un’azienda, e persino inspirare ed espirare, parlare o fare un passo) vengono eseguite per ogni essere senziente. Tutto quello che fai è per la felicità di tutti, per l’illuminazione di tutti. Quindi, anche se reciti un solo OM MANI PADME HUM, raccogli cieli di merito. E se hai bodhicitta, raccogli più di cieli di merito.

Riuscite a immaginare com’è agire come un Bodhisattva? Se incontri il Dharma, se conosci il Dharma, se pratichi il Dharma, avrai la vita più felice. Puoi risolvere tutti i tuoi problemi. Puoi liberarti dal samsara. Puoi creare le cause della felicità, praticare il sentiero, generare bodhicitta e raggiungere l’illuminazione. Puoi immaginarlo? In questo mondo, ci sono molte persone che sono molto intelligenti e molto ricche ma non hanno il karma per incontrare, imparare e praticare il Dharma. Anche tra le persone che incontrano e imparano il Dharma, coloro che lo praticano sono pochissimi. Occorre la pratica!

Molte persone in Occidente pensano che sia necessario andare a scuola per imparare a fare le cose. Anche se questo è vero per quanto riguarda la cultura e per imparare una professione, a scuola non ti viene insegnato come vivere la tua vita in modo che non diventi causa di sofferenza ma diventi causa di felicità. Anche se qualcuno ne parlasse a scuola, per assurdo il comitato scolastico potrebbe non accettarlo e licenziare quella persona. Questo perché non puoi insegnare quello che vuoi in una scuola; devi seguire le regole. Sei tu, come genitore, che dovresti guidare i tuoi figli se credi, ma sopratutto pratichi i tre Dharma. Ciò significa che devi prima guidare te stesso, poiché solo diventando un esempio puoi insegnare ai tuoi figli.

Tuttavia, anche se non puoi insegnare loro con precisione i tre Dharma, puoi insegnare loro a pensare prima agli altri. Se riescono a pensare prima alla felicità degli altri, allora saranno felici. Dovresti sempre sottolineare la necessità di servire gli altri e di avere compassione e gentilezza amorevole per gli altri. Dovresti praticare la compassione e insegnarla ai tuoi figli. Se puoi ispirarli in questo modo, cresceranno bene, avranno una vita sana, significativa e potranno eliminare quei comportamenti che causerebbero loro karma negativo. Quindi tu genitore puoi fermare tutto questo, ed è vero che anche loro come te avranno un bagaglio di karma negativo passato che darà i suoi frutti in futuro, ma è importantissimo capire che già non accumularne di più è una cosa eccezionale.

Abbiamo parlato di vita significativa: ma cosa vuol dire? Significa non sprecare l’opportunità di questa rinascita umana che ci permette di avere la possibilità di incontrare, imparare e praticare il Dharma e trovare il coraggio di condurre questo tipo di vita. Come genitore, se riesci a fare in modo che tuoi figli pratichino il Dharma, farai in modo che essi beneficeranno gli altri esseri senzienti, amici, nemici o estranei, con il loro corpo, la parola e la mente, trattandoli con compassione e amorevole gentilezza. Dal momento che un essere con la bodhicitta non è interessato al fatto che coloro che ha aiutato o sta aiutando trattino lui allo stesso modo, non è turbato da questa mancanza di “scambio alla pari” e nemmeno dall’essere danneggiato da coloro che ha aiutato. Quello che accade però è che ci saranno molte persone che sentendosi trattane con gentilezza e compassione a loro volta faranno altrettanto nei suoi stessi confronti o nei confronti degli altri. Ci sarà quindi una espansione di amorevole gentilezza, sempre più persone incontreranno il Dharma, alcune di esse lo approfondiranno e poche di queste arriveranno a praticarlo. E’ attraverso la pratica che il Dharma si espande. E questo è un altro motivo per fare conoscere ai propri figli la via dalla liberazione dalla sofferenza: si può arrivare a rendere il nostro mondo un posto migliore dove vivere.

L’illuminazione, il più grande successo, si ottiene anche grazie alla cura degli altri. Questo è il vero successo. La gente pensa che il successo sia avere soldi, ma il vero successo è avere un buon cuore che ama gli altri. Significa avere una gentilezza amorevole per gli esseri umani e gli animali. Dobbiamo sempre ricordare che questa è la causa del successo. Questa è l’istruzione più importante del mondo. Se tutti nel mondo avessero un buon cuore e una gentilezza amorevole, smetterebbero di danneggiare gli altri e ci sarebbero pace e felicità. Danneggiare gli altri nuoce a te stesso perché diventa la causa per ricevere danni in futuro. Quindi il successo non è avere soldi; il successo significa avere un buon cuore. Questa è l’istruzione principale che dovresti dare ai tuoi figli.

Quattro fondamenti della consapevolezza – Sr Hoi Nghiem

Prima di condividere con voi questa lezione sui quattro fondamenti della consapevolezza vorrei rivedere con voi alcuni aspetti dell’ottuplice sentiero (per la via della liberazione dalla sofferenza). Il sentiero ha otto strade: retta parola, retto sostentamento, retta azione, retto sforzo, retta concentrazione, retta consapevolezza, retto pensiero, retta visione. Tutti questi elementi sono inter-connessi, ma la consapevolezza è come l’ingresso del sentiero, è la base della meditazione, non possiamo meditare senza di essa.

Nota personale: Quello che è importante sottolineare è che sia gli esercizi che compongono la pratica della consapevolezza, come del resto quelli dell’ottuplice sentiero sono vere e proprie azioni che dobbiamo mettere in pratica. Solo attraverso la pratica, che a volte consiste nella pratica della meditazione su alcuni degli elementi che vedremo, è possibile comprendere a fondo l’importanza dell’insegnamento. Certo, alcuni concetti sono intuibili dal punto di vista intellettivo, ma non basta capirli in questo modo: dobbiamo letteralmente ‘com-prenderli’, farli nostri, fare in modo che facciano parte della nostra pratica quotidiana. Solo così sarà possibile percorrere la via che porta alla liberazione dalla sofferenza e a farci sentire felici. Ecco il motivo per cui sorella Hoi enfatizza il fatto che non possiamo meditare senza la consapevolezza: se non siamo consapevoli del nostro corpo, delle nostre sensazioni, della mente e delle altre persone, come possiamo capirle? Solo una volta che abbiamo compreso possiamo migliorare. E il fatto di essere inter-connessi tra di loro è altrettanto importante: migliorando un aspetto si sviluppa anche l’altro. Allo stesso modo, dal momento che noi non siamo ma ‘inter-siamo’, migliorando noi stessi miglioriamo anche il rapporto con gli altri e oltre a rendere felici noi stessi rendiamo più felici anche gli altri.

La prima caratteristica della consapevolezza è il ricordo. Possiamo ricordare dei concetti, degli insegnamenti, di quello che abbiamo realizzato grazie alla pratica. Ad esempio possiamo ricordare che abbiamo un corpo, che siamo fortunati ad averlo, che possiamo ancora camminare, che abbiamo occhi luminosi per guardarci, un cuore che batte con regolarità, lo stomaco per assimilare cibo. Ok, il nostro corpo funziona bene, ma dobbiamo ricordarci di nutrire la nostra gioia e felicità. Alcune persone non riescono ad accettare il proprio corpo. Quando ero giovane non accettavo il mio corpo, ma quando ho imparato a conoscere la consapevolezza ho avuto la capacità di accettare il mio corpo così come era, anche sono bassa e col naso piatto ho molte altre condizioni che sono presenti e che mi permettono di essere felice, per esempio abbiamo una casa in cui vivere, c’è molta gente che non ce l’ha. Anche se devo condividere la mia stanza con altre persone questo è ok, è un motivo per essere felici. Quando ricordi questo le sofferenze e le difficoltà lentamente si affievoliscono e si calmano. Per fare ancora un esempio potremo ricordare i momenti in cui in passato eravamo in una situazione difficile e magari anche pericolosa ed ora che siamo qui in comunità, con la sua energia collettiva, e ci sentiamo protetti, anche questo è un motivo per essere felici. A volte dimentichiamo di ricordare i motivi per cui ora ci troviamo in condizioni fortunate, così la sofferenza si fa strada in noi e ci fa annegare nelle difficoltà. Oggi tentate di rivedere quello che avete appreso in questi giorni di incontri in modo che possiate ricordare, ricordare e ricordare ancora, nutritevi con questi ricordi. Il solo ricordo porta già molta gioia e permette inoltre di fissare i concetti per essere pronti ad imparare molte altre cose nuove.

Il ricordare il nostro passato e quello che abbiamo appreso attraverso gli insegnamenti e la pratica è quindi una caratteristica della consapevolezza. La seconda è quella di essere consapevoli di ciò che sta accadendo in questo momento. Quindi abbiamo ricordo e momento presente. Di che cosa dobbiamo essere consapevoli? Del nostro corpo, dei nostri sentimenti e della nostra mente, di quello che succede dentro di noi e intorno a noi, questo serve affinché possiamo prenderci cura del nostro corpo, sentimenti e mente. Se non ne siamo consapevoli non potremo nemmeno prendercene cura.

Andiamo avanti prendendo in considerazione il Sutra sui quattro fondamenti della consapevolezza. All’inizio dice: questo sutra è il sentiero più bello per aiutare tutti gli esseri a realizzare la purificazione, superare la sofferenza e il dolore, è la strada per il nirvana. Questo sutra non è solo da leggere, ma (come tutti gli insegnamenti) è fondamentale la sua messa in pratica se si vuole realizzare la purificazione per porre fine al dolore e alla sofferenza.

Sequenza di esercizi che compongono la pratica della consapevolezza del corpo nel corpo.

La pratica si divide in più esercizi. Il primo è osservare il nostro respiro: quando inspiriamo siamo consapevoli che stiamo inspirando e quando espiriamo siamo consapevoli che stiamo espirando. Essere consapevoli del respiro significa seguire il respiro nel sua atto di inspirare ed espirare, significa sentire l’aria passare attraverso il corpo, dalle narici fino agli ultimi piccoli rami dell’albero bronchiale che si trovano nella parte più esterna dei polmoni ed in seguito nel suo percorso a ritroso quando esce. All’inizio seguiamo solo il respirare, poi cerchiamo di calmarlo, ma in genere, se pratichiamo bene, esso si calmerà da solo, diventerà più pacifico e i movimenti risulteranno più fluidi e lenti. Non abbiamo bisogno di forzare il respiro, lasciamo che sia naturale e sentiamo anche il sollevarsi e l’abbassarsi del diaframma che a sua volta ci fa percepire la sensazione che stiamo respirando con lo stomaco che si solleva e si abbassa in accordo con il movimento diaframmatico. Col passare della pratica arriveremo a sentire che il respiro non è solo di pertinenza dei polmoni e delle narici, ma sentiremo l’aria arrivare fino ai pori della nostra pelle dopo essere stato anche nelle ossa, nel midollo, nel sangue, nei muscoli e nei tessuti sottocutanei: l’aria passa effettivamente in ogni cellula del nostro corpo, questo è provato scientificamente, ed è solo con la pratica che noi ne diventiamo consapevoli. Un conto è studiare sui libri che questo avviene, un altro è il sentirlo fisicamente nella realtà. Non respiriamo solo con il naso, ma con tutto il corpo. Con il primo esercizio, respirando consapevolmente iniziamo a rilassare il nostro respiro e il corpo. Il primo esercizio quindi ci rende consapevoli del respiro e ci aiuta a tornare in noi stessi per iniziare a prenderci cura del corpo e della mente.

Ora vediamo il secondo esercizio della pratica della consapevolezza del corpo nel corpo. Nel primo esercizio abbiamo acquisito la consapevolezza del respiro, in questo seconda esercizio, sfruttando la consapevolezza acquisita nel primo fase invece dobbiamo essere consapevoli delle caratteristiche del nostro respiro. Come fare? E’ inevitabile che nel processo di respirazione ci siano dei respiri un pò più brevi e dei respiri un pò più lunghi, quindi quando il respiro è breve dobbiamo vedere che “sono consapevole di respirare un respiro breve” e quando c’è un respiro lungo dobbiamo vedere che “sono consapevole di respirare un respiro lungo”. Quello che è importante però è di non fare di proposito a fare un respiro corto o lungo, per l’esercizio della consapevolezza del respiro serve solo riconoscere se il respiro è breve o lungo mentre questo fluisce senza controllo da parte nostra, nella sua naturalezza. Occorre notare il respiro per quello che è. Quindi con il secondo esercizio calmiamo il respiro e iniziamo ad essere consapevoli oltre che del respiro anche di tutto il corpo.

Il terzo esercizio stabilizza la consapevolezza dell’intero corpo, e consiste nel continuare a osservare il respiro, se è breve, se è lungo, sentirlo fluire in tutte le cellule del corpo, nelle orecchie, nelle gambe, nel fegato, nella testa, ecc. In questo modo stabilizziamo la consapevolezza di tutto il corpo.

Durante il quarto esercizio, continuando allo stesso modo arriviamo a calmare tutto il corpo.

Quando camminiamo, sappiamo che stiamo camminando, quando ci sediamo siamo consapevoli di essere seduti. In qualsiasi posizione il corpo si trovi, siamo consapevoli della sua posizione. Per esempio quando camminiamo possiamo sentire i piedi che toccano la terra che ci sostiene, quando siamo seduti sentiamo quale parte del corpo tocca i tessuti, quando siamo sdraiati possiamo essere consapevoli della posizione della schiena, ecc. Anche quando mangiamo o beviamo siamo consapevoli, sentiamo il gusto del cibo assaporandolo lentamente, sentiamo la freschezza dell’acqua che arriva fino all stomaco. Quando vestiamo un abito siamo consapevoli di stare indossando un indumento e sentiamo le parti di esso dove si appoggiano, se è confortevole, ecc. Quando stai lavorando sii consapevoli dei movimenti delle tue mani per esempio. Portiamo la consapevolezza in ogni aspetto della vita quotidiana, è possibile farlo, ma all’inizio occorre svilupparla attraverso l’esecuzione dei quattro esercizi visti prima. Essere consapevoli del corpo induce calma e fa svanire le tensioni il corpo si rilassa, i muscoli non sono tesi, perfino gli organi interni sono rilassati e funzionano meglio. Ad esempio se siamo consapevoli del nostro viso i suoi muscoli si rilassano, non abbiamo un espressione tesa, ma rilassata, che con la pratica diventa gioiosa. Se qualche parte del nostro corpo sente dolore o è ammalata è possibile accelerarne la guarigione con la consapevolezza. Quando soffriamo è possibile sentire una stretta al cuore, se siamo consapevoli del cuore e ce ne prendiamo cura con la consapevolezza, facciamo in modo che i sui muscoli si rilassino e riusciamo ad allentare quella stretta fastidiosa. Quindi all’inizio siamo consapevoli del respiro, poi del corpo e in che posizione si trova, in seguito del suo movimento e infine perfino dei suoi organi interni.

Possiamo anche combinare la respirazione con il corpo, all’inizio sarà difficile perché se seguiamo l’uno non riusciamo e seguire contemporaneamente anche l’altro. Non dobbiamo preoccuparcene più di tanto però; se presti anche solo attenzione ad una piccola parte dei due insieme è già un piccolo grado di consapevolezza. Quello che è importante che voi sappiate è che con la pratica della respirazione certamente riusciremo a connettere la nostra mente e il nostro corpo. A volte siamo in un posto fisicamente ma la nostra mente è altrove. Con la pratica della consapevolezza sul respiro questo diventa come un ponte che collega la mente e il corpo e permette alla mente di tornare al corpo. Quindi ovunque vada la mente, ricordiamo solo la respirazione consapevole, dopo che ti eserciti per un pò sei consapevole di quello che stai facendo (perché la mente ritorna insieme al corpo), di ciò che stai dicendo e di ciò che stai pensando e lentamente, attraverso la pratica, puoi arrivare certamente a combinare la respirazione con il corpo e con l’azione. Puoi parlare, puoi ascoltare, ed anche lavorare, fare qualcosa d’altro mentre allo stesso tempo segui il respiro. Se non riesci a farlo all’inizio va bene, nessun problema, ma quando con la pratica acquisisci la capacità di combinare, puoi padroneggiare meglio la tua anima. Ecco perché già dal secondo esercizio riusciamo a calmare il respiro, con il quarto a calmarlo e rilassarlo, mentre con il primo e con il terzo rendiamo stabile la consapevolezza del respiro e del corpo. Quando siamo consapevoli di tutto il corpo lo rendiamo felice.

Schematizzando, questi sono gli della consapevolezza del corpo nel corpo.

  1. Inspirando siamo consapevoli del respiro, espirando siamo consapevoli del respiro (seguire solamente il respiro)
  2. Inspirando calmiamo il nostro respiro, espirando calmiamo il nostro respiro (notare la qualità del respiro – breve lungo)
  3. Inspirando siamo consapevoli del nostro corpo, espirando siamo consapevoli del nostro corpo (sentire in tutto il corpo il respiro che viene e che va)
  4. Inspirando calmiamo il nostro corpo, espirando calmiamo il nostro corpo (sentire in tutto il corpo il respiro che viene e che va)

Sequenza di esercizi che compongono la pratica della consapevolezza delle sensazioni nelle sensazioni.

Nella presentazione di questa pratica viene sovvertito l’ordine con cui sono illustrati gli esercizi; si inizia dal terzo e quarto e poi analizziamo il primo e il secondo che meritano una spiegazione più ampia. Quando abbiamo una sensazione spiacevole siamo consapevoli di una sensazione spiacevole, quando ne abbiamo una neutra siamo consapevoli della sensazione neutra e quando abbiamo una sensazione piacevoli siamo consapevoli anche di quest’ultima. Siamo consapevoli di ciò che c’è nelle nostre sensazioni. Questa pratica è utile perché quando siamo consapevoli della nostra sensazione riusciamo a calmarla, riusciamo a calmare il nostro sentimento. La tecnica è la stessa che abbiamo visto per i quattro esercizi per il respiro e per il corpo nella prima pratica. Il terzo esercizio è acquisire la consapevolezza di una sensazione (di sofferenza/piacevolezza/neutralità). Ad esempio quando soffriamo: “inspirando sono consapevole di provare della sofferenza, espirando sono consapevole di provare della sofferenza” siamo consapevoli di soffrire.

Quando siamo consapevoli della nostra sofferenza ora sappiamo come prendercene cura perciò non dobbiamo avere paura delle difficoltà e della sofferenza che da esse derivano perché adesso abbiamo un metodo per trasformarla, per calmarla. Il quarto esercizio è quello di acquisire consapevolezza del sentimento che genera quella sofferenza: “inspirando sono consapevole di provare questo sentimento, espirando sono consapevole di provare questo sentimento”. Lo stesso vale per le sensazioni neutre e piacevoli: cerchiamo di essere consapevoli anche di queste! Dobbiamo essere consapevoli di tutte le sensazioni e sentimenti per poterli abbracciare con la respirazione consapevole ed in seguito calmarli, così come abbiamo fatto col respiro e col corpo. Quindi per dirlo in una frase sola: essere consapevoli della nostra sensazione e dei sentimenti ad essa correlati, sia che siano piacevoli, spiacevoli o neutri.

A volte alcune persone soffrono così tanto per alcuni sentimenti che provano che quando tornano per abbracciarli ne vengono sopraffatte, quindi prima di abbracciare la sensazione così spiacevole occorrerebbe generare gioia e felicità: è questo il motivo per il quale il primo esercizio prevede di essere incoraggiati a generare gioia, quindi diciamo: “provando gioia inspiro, provando gioia espiro”. Il secondo esercizio incoraggia l’essere felici: “inspiro e mi sento felice, espiro e mi sento felice”.

Quando hai una malattia o un fastidio al tuo corpo e sei andato dal dottore o in ospedale dove ti hanno detto che ti devi operare, ciò potrebbe non avvenire subito a causa dello stato di debolezza del tuo corpo, quindi quello che cercheranno di fare nell’immediato è aiutarti a trovare il modo di prenderti cura del tuo corpo, magari anche attraverso la somministrazione di farmaci e una corretta nutrizione, che ti permetteranno di rafforzarti per permetterti di affrontare in seguito l’intervento chirurgico. Questo processo è un analogia che spiega il motivo per cui, occorre provare gioia e felicità nel terzo e quarto esercizio della pratica delle sensazioni nelle sensazioni; servono a rafforzarci per potere abbracciare meglio le nostre sofferenze e difficoltà. In caso contrario, in presenza di sensazioni di forte sofferenza ne verremo sopraffatti.

A volte le persone domandano come è possibile creare gioia e felicità, oppure chiedono perché soffrono tanto. Dicono che se soffrono non sono nelle condizioni oppure addirittura non desiderano creare gioia e felicità. A volte è vero, quando si soffre si ha la tendenza a non volere fare nulla, ci crogioliamo nella nostra sofferenza. Ma ricordiamoci dell’esempio di prima: anche quando siamo malati a volte non vogliamo prendere le medicine a meno di arrivare sul punto in cui siamo proprio gravemente malati. Solo quando arriviamo a questo punto siamo consapevoli che dobbiamo prenderle queste medicine. Ma perché arrivare a questo punto? prendiamole subito! Quindi anche quando siamo in uno stato sofferente non dobbiamo aspettare per generare gioia e felicità, perché questi sono i farmaci per la sofferenza! Non vogliamo ma dobbiamo.

Dobbiamo anche ricordare. Abbiamo detto all’inizio che la consapevolezza è ricordare, e dobbiamo ricordare che la gioia e la felicità sono delle medicine che dobbiamo prendere. Fanno bene sia al nostro corpo che alle nostre sensazioni che lentamente, agendo in questo modo, questi diventeranno sempre migliori. Ricordiamo che gioia e felicità ti nutrono ogni giorno, devi nutrirti, non aspettare di essere disperato nella sofferenza e nelle difficoltà. Nella tua vita quotidiana, fai ciò che ti rende felice e gioioso, e farlo spesso creerà una buona energia all’abitudine a farlo. Ad esempio se sistemare il giardino o fare una passeggiata ti rende felice, anche se magari in quel momento non ne avresti voglia, fallo lo stesso! Mentre lo fai la non voglia iniziale scompare e tu starai meglio. Anche quando vai a tavola, a volte sai già quello che c’è e magari pensi che oggi quel cibo non lo desideri tanto, vorresti dell’altro. Ma se penso che alla fine mangiare (qualsiasi cosa ci sia) mi aiuta a rigenerare le forze (e la mente) allora mi godo le pietanze, e mentre mangio sto già meglio.

Si tratta sempre di ricordare (essere consapevoli) di ciò che ci fa bene. Quando sono consapevole di qualcosa che mi farà bene fare, avrò voglia di farlo e lentamente anche l’abitudine all’idea di fare ciò che ci fa bene sarà più naturale, senza sforzo e contemporaneamente la non voglia si affievolirà. Questa abitudine è molto utile perché permette di irrobustirci per essere pronti ad affrontare una forte sofferenza quando arriverà.

La consapevolezza porta felicità, ecco perché dobbiamo essere consapevoli della nostra sofferenza, dobbiamo prima riconoscerla e comprenderla, altrimenti non riusciamo a superarla e lasciarla andare. Se la ignoriamo, come potremo capirla? Dobbiamo andare dentro il corpo, sentire dove fa male, abbracciarla, calmarla. Quando siamo in preda di una emozione forte è come se fossimo degli alberi scossi da una tempesta. La cima dell’albero ondeggia e sui rami sono spazzati dal forte vento, tremano. Noi possiamo pensare che cadrà, ma quando poi guardiamo il tronco che è ben stabile nel terreno grazie alle sue forti radici realizzeremo che è molto stabile e quindi non cadrà. La paura che possa cadere se ne va. Allo stesso modo in preda ad una forte emozione all’inizio ne siamo terrorizzati (siamo come i rami della cima), ma sappiamo che se torniamo al respiro consapevole (il nostro tronco), e la paura passa. Iniziamo con l’essere consapevoli del respiro e del corpo, in seguito calmiamo respiro e corpo, proseguiamo con il generare gioia e felicità allo scopo di irrobustirci prima di diventare consapevoli della natura dell’emozione e del sentimento per non esserne sopraffatti ed infine curariamoli con il il nostro abbraccio calmandoli nel contempo.

Oltre ad non ignorare le nostre sofferenze è sbagliato anche fuggire via da esse. Noi fuggiamo perché abbiamo paura ed in preda al panico alla fine finiamo per soffrire ancora di più. E non solo: la prossima volta che succedere ancora la stessa cosa ricadremo ancora nella stessa situazione.

Ecco perché essere consapevoli è l’unica strada per evitare la sofferenza. E il metodo per esercitare la consapevolezza è quello che abbiamo descritto fino a questo momento. E non aspettare ad essere felice solo quando hai superato una difficoltà perché anche il solo fatto di sapere che c’è un metodo per padroneggiare il momento negativo deve già renderti felice. Ricorda: quando sei in difficoltà inizia a respirare e ti senti già meglio nel corpo, e quando ti senti meglio inizi ad essere gioioso. E ti senti felice perché sai già che non stai annegando nel mare delle difficoltà.

Sequenza di esercizi che compongono la pratica della consapevolezza della mente nella mente

Con lo stesso tipo di metodo sappiamo come padroneggiare la nostra mente, infatti la terza pratica prevede la contemplazione, l’osservare la mente nella mente. Essere consapevoli dello stato della nostra mente, ad esempio se siamo felici siamo consapevoli di essere felici, se siamo consapevoli siamo consapevoli di essere consapevoli, se non siamo consapevoli siamo consapevoli di non essere consapevoli, se siamo gelosi, siamo consapevoli di essere gelosi. Lo scopo di questa pratica è quello di non nasconderci al nostro stato mentale perché occorre vedere chiaramente per potere trasformare tutti questi elementi. Non c’è niente per cui (vergognarsi o essere orgogliosi), se soffriamo diciamo che stiamo soffrendo, se non siamo attenti diciamo che non siamo attenti. Non pretendiamo di essere attenti o fingiamo di essere consapevoli se non lo siamo: se siamo consapevoli di essere in errore ammettiamolo. La consapevolezza prevede quindi di ammettere onestamente lo stato in cui si trova la nostra mente senza ignorarla, senza vergogna, finzione, paura o pretesa, senza nasconderla o coprirla; solo così essendo consapevoli riusciremo a comprenderla e guadagnare l’opportunità di trasformarla. Dobbiamo guardare in profondità per vedere e capire come siamo, in maniera da trasformare la nostra mente (e il nostro stato) attraverso lo sviluppo delle buone qualità che abbiamo dentro di noi (vedi post precedente a proposito della coscienza deposito).

Quando qualcuno ci loda non dobbiamo focalizzare la nostra mente per verificare se quello che ci dicono corrisponde al vero e sentircene orgogliosi, ma dobbiamo semplicemente prendere il complimento come uno spunto per fare di meglio, perché noi possiamo sempre essere essere meglio di quello che siamo in questo momento. Allo stesso modo quando riceviamo delle critiche non dobbiamo abbatterci o deprimerci, non perdiamo tempo a verificare la veridicità delle accuse e sopratutto non sviluppiamo risentimento contro queste persone che sono abituate a guardare gli altri dall’alto in basso, altrimenti diventiamo peggiori di quello che siamo in questo momento. Se le altre persone osservando una rosa dicono che è una margherita essa è pur sempre una rosa, non diventa una margherita. Lo stesso vale per noi, se qualcuno ti loda o ti critica tu sei ancora quello che sei, e per saperlo devi essere consapevole, riconoscere quello che sta succedendo nella mente. Quindi quando qualcuno ti loda non sentirti orgoglioso ma unisci le mani e ringrazia per l’incoraggiamento che ti hanno offerto e continua ad essere così, anzi cerca di fare meglio perché tu puoi sempre essere meglio di ciò che sei. Quando qualcuno ti critica non abbatterti ma trasforma quella qualità che è oggetto di critica e ricorda che non devi capire se ti appartiene o perdere tempo a capire se hanno ragione oppure no, prendi solo quella qualità e trasformala.

Qualunque sia il tuo stato d’animo sii consapevole di questo equando ne sei consapevole puoi abbracciare la tua mente allo stesso modo con cui hai abbracciato il tuo corpo e i tuoi sentimenti. Abbiamo detto quindi che la terza pratica è la contemplazione della mente nella mente. Il primo esercizio è acquisire consapevolezza della mente, il secondo è quello di calmarla (o anche rilassarla, renderla felice). A volte abbiamo una sensazione neutra, non ci sentiamo felici e nemmeno tristi, ma dobbiamo essere consapevoli anche di questo stato. In alcuni momento siamo compassionevoli e cercare di andare in aiuto alle persone se comprendiamo che stanno soffrendo, altre volte siamo così altruisti che possiamo perdonarle per averci fatto sentire tristi, ecco come è possibile rendere felice la nostra mente.

Dobbiamo cercare di non rattristarci quando ci capita di soffrire a causa delle nostre cattive energie (che sono presenti nella nostra coscienza deposito e che ogni tanto si manifestano) e non dobbiamo nemmeno essere troppo orgogliosi delle nostre buone qualità (quando anch’esse si manifestano e vengono riconosciute). Abbiamo molte buone qualità ma a volte non le pratichiamo bene proprio a causa dell’orgoglio e della vana gloria. Non c’è niente da essere orgogliosi, anche perché sappiamo bene di avere delle cattive qualità che equilibrano quelle buone. Lo stesso discorso vale rovesciato: quando manifestiamo cattive qualità ricordiamo che ne abbiamo anche di buone.

Abbiamo delle tendenze che operano in maniera quasi automatica a seguito della nostra abitudine a comportarci in un dato modo che rendono manifeste le cattive qualità. E’ questo che dobbiamo cercare di trasformare attraverso la comprensione dello stato della nostra mente. Facendo questo riusciremo a capire anche le altre persone, cosa c’è nella loro mente. Quando vediamo all’opera le nostre tendenze abituali le abbracciamo, ci prendiamo cura di loro e le trasformiamo. Saremo così in grado di vedere anche le abitudini delle altre persone e così possiamo riuscire con più facilità a perdonarle. All’inizio della pratica vediamo con più facilità gli errori delle altre persone rispetto ai nostri. Tendiamo a pensare che gli altri abbiano torto e noi abbiamo ragione. Con la pratica del tornare a noi stessi, osservandoci più in profondità, ci vedremo più chiaramente e più vedendoci con chiarezza più vediamo i nostri errori. Ad esempio se in una discussione vediamo che il nostro interlocutore è arrabbiato, con più facilità vediamo che forse siamo proprio noi che abbiamo detto qualcosa che lo ha irritato, cosa che senza la pratica non saremmo riusciti a vedere, anzi avremmo solo notato la sua irritazione a cui ha fatto seguito un insulto che ci ha fatto tanto soffrire. Ma più pratichiamo più chiaramente vediamo. E più notiamo i nostri errori più lasciamo andare, sempre tornando all’esempio lasciare andare vuol dire perdonare l’insulto, non sentirci tristi e offesi e ricominciare da capo il rapporto con l’altro che sarà più ricco di buone buone qualità. Ecco come, l’essere consapevoli della nostra mente, agisce a livello concreto sulle nostre vite permettendoci di trasformare le cattive qualità e a cambiare in meglio la nostra situazione.

Migliorando la situazione migliora anche la nostra anima e saremo più sereni e felici. Saremo anche calmi e questo ci permette di focalizzarci sul nostro corpo, sulle nostre sensazioni, sui nostri sentimenti e sopratutto sulla nostra mente, perché quello che accade intorno a noi non è così importante come essere consapevoli di quello che invece è presente dentro di noi, nella nostra mente: perciò facciamo attenzione continuamente alla mente. Da qui infatti il terzo esercizio è quello di concentrare la nostra mente. Inspirare concentrandosi sulla nostra mente, espirare sapendo che niente di ciò che c’è intorno è importante come la nostra mente. Se fuori piove o c’è il sole non importa: torniamo prima a curare la nostra mente. Quando la nostra mente è calma e concentrata, non accadrà più di sentirci in balia delle nostre ansie perché ora sappiamo come fare per trasformare la nostra situazione.

Il quarto esercizio della pratica è liberare la mente. Cosa sta cercando di renderci infelici? Da cosa siamo occupati? Forse dal pensiero o dall’idea di quello che gli altri ci hanno detto, di quello che dobbiamo fare nelle prossime ore, di una malattia, del lavoro, della famiglia o della relazione di coppia? Ovvero, di tutte queste preoccupazioni, quale sta cercando ci renderci infelici? Se sei consapevole di ciò che ti rende infelice avrai la capacità di liberati da esso, di lasciarlo andare. E se stai pensando riporta la mente al corpo, segui il respiro, segui le tue sensazioni e lo stato d’animo, comprendi la tua mente e piano piano, lentamente ti sentirai più tranquillo e in questa serenità sarai consapevole che stai liberando la tua mente.

Ad esempio, quando sei arrabbiato con qualcuno torna a prenderti cura del respiro, del corpo, concentrati più su di essi e distogli l’attenzione dalla persona che ti ha fatto arrabbiare, perché più gli dai importanza, più ti arrabbi. Così ti calmerai e sentirai di potere liberare la mente dalla rabbia, e con questa consapevolezza di potere liberare la mente ti sentirai anche più felice. In questo tuo nuovo stato allora avrai anche la forza di tornare alla persona che ti ha causato la rabbia e capire perché lo ha fatto, comprenderla e arrivare a perdonarla. Quando ci sediamo in meditazione non siamo occupati da nient’altro, possiamo respirare e prenderci cura di noi stessi, ci calmiamo e siamo più felici. Dopo non occorrerà più stare qui seduti, potremo tornare alle nostre attività con più serenità.

Negli esempi che abbiamo fatto fino qui abbiamo solo menzionato alcune delle 51 formazioni mentali (o stati d’animo), ma è possibile liberarsi da ciascuna di queste osservandole, contemplandole, calmandole e sentendoci felici. Essere liberi dagli stati d’animo spiacevoli è è senza dubbio qualcosa a cui tutti noi aspiriamo e che vorremmo che anche gli altri sperimentino. Ma esistono tra quelle 51 anche formazioni mentali che di per sé non sono negative, per esempio l’amore. Anche l’amore può essere fonte di sofferenza, per se stessi e per la persona che amiamo, da qui il motivo per cui quando si ama una persona bisogna fare che essa sia libera, bisogna lasciare quella persona libera. A volte accade invece che a causa del nostro forte amore induciamo in noi un attaccamento a volte ossessivo verso quella persona finendo per non lasciarla libera. Facendo così non la rendiamo infelice, anche se per assurdo la amiamo tantissimo. Capite l’importanza di liberare la nostra mente (in questo caso dall’attaccamento alla persona o dal troppo amore)? Così saremo più felici noi e anche le altre persone.

Sequenza di esercizi che compongono la pratica della consapevolezza dell’oggetto mentale nell’oggetto mentale.

Con questa pratica possiamo arrivare a contemplare l’inter-essere (vedi post sull’inter-essere) , il non SE (vedi post sul non SE), la consapevolezza, la compassione, l’impermanenza e molto altro. Ora vorrei soffermarmi sul primo esercizio: contemplare l’ impermanenza. Tutto cambia, niente rimane. Un fiore per esempio adesso è fresco, profumato, ma tra qualche giorno sarà appassito e non odorerà più di buono. Un altro esempio è questo: ci hanno detto che stasera faremo una cena seduti e ci sarà un discorso del nostro Maestro, ma all’improvviso però ci hanno avvisato che ceneremo nelle nostre camere e il Maestro non terrà il suo discorso: ci arrabbiamo, eppure dobbiamo sempre tenere a mente che esiste l’impermanenza. Se siamo consapevoli dell’impermanenza non saremo contrariati dai cambiamenti, dobbiamo trasformare il nostro essere per affrontare con serenità la quotidianità della nostra vita tenendo presente che tutto non può sempre andare come avevamo previsto e che tutto ad un tratto le condizioni di ciò che c’è intorno a noi possono cambiare. Non dobbiamo affogare davanti ad una improvvisa difficoltà: se notiamo l’impermanenza e ne siamo consapevoli possiamo superare serenamente ogni variabile, anche in negativo. Come abbiamo detto prima potremo avere giudicato male una persona, poi ci siamo seduti, siamo tornati al respiro, al corpo e alla mente, le abbiamo calmati, siamo più sereni, torniamo alla persona, la comprendiamo, la perdoniamo e adesso gli vogliamo bene: anche questo fa parte dell’impermanenza. Tutto può succedere, ad esempio siamo arrabbiati con i colleghi per via del lavoro, poi ci succede qualcosa di bello, diventiamo più felici e torniamo a lavorare sereni anche con i colleghi. Tutto questo senza nemmeno esserci seduti a contemplare; è avvenuto naturalmente, grazie all’impermanenza. In una situazione difficile, se siamo consapevoli che tutto cambia, che uno stato di sofferenza non rimarrà per sempre, riusciremo a superare il momento con più serenità. Dobbiamo fare esperienza con il cambiamento, dobbiamo sperimentare l’impermanenza anche delle altre persone, così riusciremo meglio a comprenderle e lasciare andare certi nostri stati di sofferenza che possono insorgere a causa loro. Ad esempio potremo arrovellarci il cervello perchè non riusciamo a capire come mai una persona al mattino ci ha sorriso e al pomeriggio, senza motivo non ci guarda nemmeno. Lasciamo stare, non preoccupiamoci degli altri, anche in loro esiste l’impermanenza; grazie ad essa ogni volta che abbiamo un pensiero negativo, possiamo svilupparne subito uno positivo. E lo stesso possono fare gli altri, magari adesso sono negativi con noi ma poi cambiano idea e ci trattano con amore: cambiano idea. Adesso la loro idea è un altra, perchè dobbiamo sempre guardare il passato, il cambiamento è già avvenuto, non è più la persona di prima con il suo atteggiamento ostile, ora è una persona amorevole, e possiamo perdonarla perché anche noi non siamo più come prima, l’impermanenza ha già avuto luogo, sta avvenendo e avverrà ancora. Tutto è in continuo mutamento.

Se ci rifugiamo in qualcosa credendo che sia permanente, che possa sempre rimanere uguale, finiremo per soffrire. Solo contemplando l’impermanenza con il primo esercizio potremo evitare che questo accada. Non dobbiamo rifugiarci nelle altre persone, che sono impermanenti, piuttosto rifugiamoci in qualcosa di più solido (anche se è pur sempre impermanente) come ad esempio la madre terra che è sempre qui per sostenerci e ospitarci.

Un giorno il maestro mi ha chiesto se la mente è permanente o impermanente. Io ho subito risposto che è impermanente e lui mi ha detto di fare pratica in modo tale da mantenere la mente più permanente possibile. In qul momento ho taciuto ma una domanda mi continuava a ronzare in testa: come è possibile mantenere la mente permanente? Se ci esercitiamo e facciamo pratica, vediamo come prenderci cura della nostra mente affinché sia permanente e questo è qualcosa che non si può capire con la semplice conoscenza, la si può realizzare solo con la pratica.

Nota personale: l’insegnamento del Maestro quindi è una forte raccomandazione nel fare pratica e non abbandonare mai la via della acquisizione della consapevolezza? Solo se non abbandoni mai la via della pratica non cambi, perché la tua mente è resa stabile: forse è questo che intendeva il Maestro con mente permanente. Se notiamo bene lui ha detto “esercitati come per farla diventare permanente”. L’insight è la parola esercitati. E’ per questo che lo scopo non è certo quello di rendere permanente una cosa che per sua natura non lo potrà mai diventare. Il vero scopo è la pratica, in un certo senso occorre impegnarsi per ottenere la stabilità, dove il termine stabilità è da intendersi qui come un sinonimo della parola permanenza. La stabilità da ottenere è quella della mente della persona che pratica nella consapevolezza e che grazie ad essa può sentirsi gioiosa e felice, con se stessa, con gli altri e con il mondo che la circonda. E’ a questo punto che non vogliamo più cambiare il nostro modo di essere, vogliamo rendere permanente la nostra mente consapevole perché ci fa sentire felici. E’ questo che stiamo cercando: la liberazione permanente dalla sofferenza.

Quando rendiamo stabile la nostra pratica siamo in grado di capire meglio le altre persone e sentendoci gioiosi e felici sviluppiamo il desiderio che anche altri possano raggiungere il nostro stato. Diventiamo più comprensivi, compassionevoli e trattiamo tutti con amorevole gentilezza: questo modo di agire è ciò che si definisce nel buddismo la Bodhicitta. La Bodhicitta è da nutrire affinché diventi stabile, nutrirla sviluppando una sorta di permanenza della nostra mente nella Bodhicitta. Fu così che arrivai a rispondere al mio Maestro e gli dissi che ora avevo capito come esercitarmi per mantenere la mia mente permanente.

Quando siamo consapevoli dell’impermanenza non sviluppiamo più nemmeno l’attaccamento alle cose, alle persone e ai pensieri (concetti). Come possiamo sviluppare il non attaccamento alle persone? Amandole adesso. Dal momento che non possiamo sapere cosa accadrà nel futuro, sia lontano ma anche prossimo (anche tra 5 minuti!), e che siamo consapevoli dell’impermanenza, che a volte tutto può cambiare totalmente e anche rapidamente, non attacchiamoci alle persone o al desiderio che rimangano sempre con noi o che il loro modo di comportarsi con noi (se è gentile) non cambi mai: semplicemente amiamole adesso, magari domani oppure tra cinque minuti potremo non avere più la possibilità di farlo, sia noi che loro potremo non essere più presenti l’uno per l’altro. Ecco quindi in che cosa consiste il secondo esercizio: contemplare l’assenza del desiderio.

Il nostro desiderio scompare a causa della nostra consapevolezza della natura impermanente delle cose. Anzi, la natura di tutti i fenomeni è il non-SE, è l’assenza di esistenza permanente, solida, indipendente da tutti gli altri fenomeni. Il SE esiste solo per mera imputazione, per permetterci di comunicare tra noi esseri umani e capire che cosa vogliamo intendere quando diciamo per esempio “portami una sedia”. Il se è una convenzione sociale. Tutti i fenomeni sono caratterizzati da una non nascita e una non morte perché tutto è in continua trasformazione. Ad esempio le nuvole (vedi post precedente sulla assenza del SE): appaiono originando dal vapore acqueo, scompaiono trasformandosi in gocce di pioggia che cadono fino a fare parte di un fiume dal quale noi preleviamo l’acqua per fare un caffè. Quindi il caffè è anche nuvola. Non nasce dal niente e non muore nemmeno. In seguito il caffè diventa cibo per le nostre cellule, probabilmente anche in quelle che danno origine agli ovuli di una donna in età fertile che darà la vita ad un altro essere umano. Il neonato è anche nuvola. Quando diventerà adulto e morirà diventerà cibo per i vermi della terra che a loro volta parteciperanno al processo di fertilizzazione che renderà possibile la crescita di bellissimi fiori e alberi dalle quali cadranno frutti buonissimi … E’ tutto collegato, ogni fenomeno è il risultato di cause e condizioni che si sono unite per originarlo, non c’è niente che nasce di per sé, come nuovo, dal nulla, e niente muore, tutto si trasforma. E’ questo il terzo esercizio: contemplare la non-nascita e la non-morte.

L’ultimo esercizio è la contemplazione sul lasciare andare. Cosa ti rende infelice, preoccupare o soffrire? Lascialo andare! Anche il pensiero, lascialo andare! Anche il tuo continuo pianificare, quello che ti aspetti che accada, lascialo andare! Quando lasci andare la tua mente diventa pacifica, e quando si calma comprendi in che modo puoi risolvere i problemi. Se continui a pensare e pensare la tua mente va in confusione, è turbolenta, un pensiero ne chiama un altro in un vortice senza fine. E’ così occupata da tutto questo che le impedisce di vedere le cose con chiarezza. Anche quando impariamo il Dharma, non dobbiamo accumulare conoscenza, mettiamolo in pratica. E’ tutto qui: la pratica, non hai bisogno di ricordare nulla sulla teoria, anche se non ricordi nulla pratica il lasciare andare e sari più felice e libero. Non devi ricordare a memoria tutto lo schema dei 16 esercizi, cosa c’è nel corpo, i 51 fattori mentali, ecc … quello che devi fare è esercitarti nella pratica, pratichiamo per comprendere una situazione e poi lasciamola andare: questo processo serve per liberare la mente in maniera da vedere più chiaramente le cose come sono nella realtà. Così, quando c’è una situazione che causa preoccupazioni e quando siamo bloccati non sapendo cosa fare, lasciamo andare per un pò, non prestiamo attenzione (questo è uno dei significati di lasciare andare) al problema, liberiamo la mente, calmiamoci e poi torniamo alla situazione problematica: con più calma e più spazio nella mente potremo vederne con maggior chiarezza la soluzione.

Lasciare andare è ben diverso da ciò che si intende con “dare un taglio”. Se hai una relazione difficile con un altra persona e sei abituato a scappare dal problema eliminandolo (in questo caso interrompi la relazione con la persona), è molto probabile che avendo lasciato qualcosa di irrisolto senza averlo compreso, tu possa in futuro ritrovarti in una analoga situazione e soffrire nuovamente. A furia di interrompere le relazioni alla fine rimarrai con il problema irrisolto e da solo con tua sofferenza anche quando sarai circondato da una folla di persone. Lasciare andare significa non prestare attenzione, non troncare. Per esempio se qualcuno ha detto qualcosa che ci offeso non pensiamoci, non gli diamo peso ma torniamo al respiro e al corpo e alla mente per prendercene cura, e poi prendiamoci cura del sentimento che si è manifestato, contempliamo. Lentamente calmiamolo, creiamo spazio nella mente e sentiamoci più liberi. Viene da se che con la mente libera proviamo gioia e felicità ed inizieremo anche ad amare quella persona (grazie alla meditazione sull’impermanenza e sul non-SE) riprendendo la relazione con maggior chiarezza e con una forte probabilità di appianare le divergenze. Avrai la possibilità di riconnetterti con gli gli altri, perché noi dipendiamo dagli altri: è questo il concetto dell’inter-essere. Non c’è io senza il tu. Ecco perché se tagli fuori, se abbandoni senza risolvere rimarrai solo. Quando ti senti connesso agli altri ti senti più forte di quando sei da solo. Per esempio meditare in gruppo, in una sala dove anche tutti gli altri stanno meditando migliora la qualità della tua contemplazione perché ti senti più forte.

Così come abbiamo fatto nella gestione di una relazione occorre a volte tornare a noi stessi e praticare allo stesso modo per eliminare le nostre sofferenze. E’ più doloroso non prendersene cura. Non dobbiamo ignorare la nostra sofferenza, sarebbe come dare un taglio netto ed abbiamo visto che non serve a risolvere il problema. La cosa giusta da fare è lasciare andare un pò senza prestare attenzione, giusto il tempo di guadagnare calma, di rigenerarsi con la gioia, di liberare la mente e per poi tornare alla contemplazione della situazione con maggior chiarezza.

Le quattro pratiche che abbiamo visto oggi, ciascuna con i sui quattro esercizi, sono i quattro fondamenti della consapevolezza. Servono per eliminare le sofferenze del corpo, delle sensazioni, della mente e quelle che originano dalle relazioni interpersonali. Quando abbiamo un dolore respiriamo, calmiamo il respiro, prestiamo attenzione al corpo, calmiamo il corpo, torniamo al dolore e lo abbracciamo. Quando abbiamo una sensazione spiacevole generiamo la gioia, la felicità, torniamo alla sensazione, prestiamo attenzione ad essa e calmiamola. Quando la mente è occupata da un pensiero fisso prestiamo attenzione alla mente, la calmiamo, ci concentriamo su di essa, torniamo sul pensiero e la liberiamo. Quando abbiamo un problema con gli altri contempliamo l’impermanenza, il non-SE, la non-nascita e non-morte, lasciamo andare e torniamo dalla persona con amore.

Dobbiamo nutrire attraverso la pratica la conoscenza di tutti gli esercizi che abbiamo visto, e dico attraverso la pratica perché la sola nozione teorica non ci permette di entrare in contatto con il vero significato di tutti gli aspetti che costituiscono i 4 pilastri della consapevolezza. Ad esempio la meditazione, sia che siamo seduti o che si cammini, si può conoscere solo praticandola, la si sviluppa solo facendola, ne vedremo i benefici solo se tutti i giorni la facciamo. E lo stesso vale anche per la contemplazione sulla impermanenza o per esempio sul lasciare andare. Certo, a livello teorico uno può avere un idea di base, ma solo durante la pratica la si conosce veramente, la si sviluppa e se ne traggono i benefici. Deve essere una abitudine alla pratica, all’inizio magari è difficoltoso e costa un pò di sforzo, questo è normale, ma se ci abituiamo la pratica entrerà a far parte del nostro essere, e sarà spontanea. Quando ci accorgiamo che diventiamo ogni giorno più liberi e felici, più in grado di affrontare i problemi, chi è quella persona che vedendo tali benefici ci rinuncia? Nessuno. Più si pratica più ci sentiamo liberi e felici nel nostro percorso verso l’illuminazione, che vi auguro possiate trovare presto. Grazie per avermi ascoltato.

Spunti dal Libro “La Mente che Mente”

Menzogna e verità

Solo le bugie possono essere inventate; non è possibile inventare la verità. La verità esiste già! La verità deve essere scoperta, non inventata. Le menzogne non si possono scoprire, devono essere inventate. La mente si sente a suo agio con le bugie, perché ne diventa l’inventore, “colui che agisce”. E quando la mente diventa colui che agisce, si crea l’ego. Con la verità non devi fare nulla, e poiché non hai nulla da fare, la mente si arresta, e con la mente scompare, evapora anche l’ego.

Le parole e il silenzio

Usare le parole è un gioco pericoloso, perché il significato resterà in chi parla, a voi arriveranno solo le parole; e voi darete loro il vostro significato, le vostre sfumature: non conterranno più la stessa verità che avrebbero dovuto contenere.Invece non è possibile fraintendere il silenzio: questa è la sua bellezza. La demarcazione è radicale: o lo capite, oppure semplicemente non lo capite; non c’è nulla da fraintendere.

No-thing

Quando la mente scompare, quando l’ego scompare, a quel punto cosa resta? Di certo resta qualcosa, ma non è possibile definirlo “qualcosa”, per cui Buddha lo chiama “il nulla” (nothing). Ma, per non fraintenderlo, lascia che ti ricordi questo: ogni volta che egli usa il termine “nulla”, vuol significare “nessun oggetto” (no thing in inglese). Spezza la parola in due, non usarla come un unico termine, inserisci un trattino tra “no” e “thing”, in questo caso saprai con precisione cosa significhi “nothing” (il nulla). La legge suprema non è una cosa. Non è un oggetto che si possa osservare. È la tua interiorità, è soggettività.

Diversi significati di “Dhamma”

  • Indica la “legge suprema”. Si intende la legge che tiene insieme l’intero universo. Un universo così infinito e così vasto, che procede così dolcemente e in modo tanto armonico, è una prova sufficiente che deve esistere un flusso sotterraneo che collega ogni cosa.
  • “giustizia”, “uguaglianza”,”esistenza non gerarchica”. Nell’esistenza non c’è alcuna gerarchia, non c’è nulla di piccolo e nulla di grande. La stella più grande e il più piccolo filo d’erba esistono entrambi su un piano di uguaglianza.
  • “virtù”, “equanimità”. L’esistenza è assolutamente virtuosa. Anche se trovi qualcosa che non riesci a definire virtù… dipende solo da un tuo fraintendimento. Altrimenti, l’esistenza è assolutamente virtuosa. Qualsiasi cosa accada in questa esistenza, accade sempre nel modo giusto. Non accade mai nulla di sbagliato. Forse a te sembra sbagliato perché hai un’idea precisa di cosa sia il giusto, ma quando guardi senza pregiudizio, nulla è sbagliato, tutto è giusto. La nascita è giusta, la morte è giusta. Il bello è giusto, il brutto è giusto.
  • Dhamma può volere significare anche “la tua interiorità”, la soggettività, la tua verità. Ricorda una cosa di estrema importanza, lascia che scenda in profondità nel tuo cuore: la verità non è mai una teoria, non è mai un’ipotesi, è sempre un’esperienza. Pertanto, la mia verità non potrà mai essere la tua verità. Non la possiamo spartire: la verità non si può spartire, né trasferire, non è comunicabile, è inesprimibile. Posso spiegarti come l’ho conseguita, ma non posso dire di cosa si tratti. Il “come” è spiegabile, ma non il “perché”. Si può mostrare la disciplina, non la meta. Ognuno deve arrivarci per suo conto e viene rivelata in estrema solitudine.

L’esistenza dal buco della serratura

Quando noi guardiamo l’esistenza: diciamo che qualcosa è nel futuro, poi diventa presente, e poi se ne va nel passato. Di fatto, il tempo è un’invenzione umana. È sempre qui-e-ora! L’esistenza non conosce passato, né futuro: conosce solo il presente; ma noi siamo seduti dietro al buco di una serratura e guardiamo da lì.
Una persona non c’è, poi compare all’improvviso; poi, così come è apparsa, in un baleno sparisce. In quel caso si deve creare il tempo. Prima di comparire, quella persona era nel futuro; esisteva, ma per te era nel futuro. Poi è apparsa, ora è nel presente… ed è la stessa persona! Poi non sei più in grado di vederla dal tuo piccolo buco della serratura, è diventata passato. Nulla è passato, nulla è futuro: tutto è sempre presente. Ma il nostro modo di percepire il reale è limitatissimo. Questo è la mente: un buco di serratura, ed è un buco piccolissimo. Paragonati alla vastità dell’universo, cosa sono
i nostri occhi, le orecchie, le mani? Cosa possiamo afferrare? Nulla di gran rilievo. E noi ci aggrappiamo disperatamente a quei minuscoli frammenti di verità. Se vedi il Tutto, tutto è come dovrebbe essere.

Comprendere a livello esistenziale, non solo teorico

Questi sutra sono stati redatti come Dhammapada: non devono essere compresi intellettualmente, ma esistenzialmente. Trasformati in una spugna: lascia che vengano assorbiti, lascia che sedimentino in te. Non
startene seduto a criticare, altrimenti ti lascerai sfuggire il Buddha. Non startene seduto a chiacchierare mentalmente, senza fermarti un attimo; non parlottare in te stesso, per decidere se siano veri o falsi: ti lascerai sfuggire il nocciolo della questione! Non preoccuparti se quanto viene detto è giusto o sbagliato.
La prima cosa, la cosa essenziale, è capire di cosa si tratta: cosa dice il Buddha, cosa cerca di esprimere. Ora come ora, non è necessario giudicare. La prima cosa, la vera necessità primaria, è comprendere con esattezza cosa egli intende. E la sua bellezza è questa: se comprendi con esattezza cosa intende, ti convincerai della sua verità, la conoscerai. La verità ha vie proprie per convincere la gente, non le occorrono altre prove.

Il Mondo Illusorio

Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri.
Con i nostri pensieri formiamo il mondo.
Parla o agisci con mente impura e sarai seguito da guai, così come la ruota segue il bue che tira il carro.
Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri.
Con i nostri pensieri formiamo il mondo.
Parla o agisci con mente pura e la felicità ti seguirà come ombra, inamovibile.
“Guarda come mi sfrutta e mi maltratta come mi malmena e mi deruba.”
Vivi con pensieri simili e vivrai nell'odio.
“Guarda come mi sfrutta e mi maltratta, come mi malmena e mi deruba.”
Abbandona questi pensieri, e vivi in amore.
In questo mondo l’odio non ha mai scacciato l’odio.
Solo l’amore scaccia l’odio.
Questa è la legge, antica e inesauribile.
Anche tu sei di passaggio.
Sapendolo, come puoi metterti a discutere?
Facilmente il vento sradica un alberello.
Cerca la felicità nei sensi, indulgi nel cibo e nel sonno, e anche tu verrai sradicato.
Il vento non può divellere una montagna.
La tentazione non può toccare l’uomo risvegliato, forte e umile, che è padrone di se stesso e osserva la legge.
Se i pensieri di un uomo sono oscuri, se egli non si cura delle conseguenze ed è pieno di sotterfugi, come potrà indossare la veste gialla?
Chiunque sia padrone della propria natura, luminoso, chiaro e sincero,
egli può indossare la veste gialla.

I mistici orientali credono che il mondo sia illusorio, ma non intendono il mondo oggettivo fatto di mari, monti e pianure, intendono il mondo che tu crei, che tessi e cuci nella tua mente, della ruota della mente che continua a girare e a intessere. Il “samsara” non ha nulla a che vedere con il mondo esterno. Le indicazioni del Buddha si rivolgono all’essenza più intima del tuo essere, e se non ti aiutasse ad allontanarti dalla trappola della mente, non conosceresti mai il mondo reale: la tua sostanza interiore. Egli afferma che, quando la mente si arresta, non rimane alcun sé: diventi universale, trabocchi oltre i limiti dell’ego, sei puro spazio, non contaminato da nulla. Sei solo uno specchio che non riflette nulla. Se vuoi conoscere veramente chi sei nella realtà devi imparare come arrestare il pensiero. La meditazione non è altro che questo: significa uscire dalla mente, spostarsi dalla mente alla non-mente (anatta, non sé).

Mente e non-mente

Ogni volta che il Buddha usa il termine “mente impura” intende la mente, perché tutta la mente è impura. La mente in quanto tale è impura, e la non-mente è pura. Purezza significa “non-mente”, mentre impurità significa mente. L’infelicità è una conseguenza, è l’ombra della mente illusoria. L’infelicità è un incubo. Soffri solo perché sei addormentato, se non ti svegli, l’incubo persisterà, come la ruota di un carro che segue il bue. L’infelicità è una conseguenza, e così la beatitudine. L’infelicità è una conseguenza dell’essere addormentato, la beatitudine è una conseguenza dell’essere sveglio. La beatitudine può essere conseguita solo da coloro che non la ricercano direttamente. Al contrario, essi cercano consapevolmente. E quando la consapevolezza sopravviene, la beatitudine viene di per sé, simile a un’ombra che segue sempre il corpo, inamovibile.

Odio e Amore, Oscurità e Luce

L’odio esiste col passato e il futuro… l’amore non ha bisogno di passato né di futuro. L’amore esiste nel presente. L’odio ha un riferimento nel passato: ieri qualcuno ti ha fatto un torto, e tu lo porti in te come una ferita, un ricordo; oppure temi che qualcuno ti farà del male domani… una paura, l’ombra di una paura. E ti stai già preparando, ti prepari ad affrontarla. L’odio dimora nel passato e nel futuro. Nel presente non puoi odiare, provaci e sarai assolutamente impotente: siedi in silenzio e odia qualcuno nel presente, senza rapporto col passato o col futuro… non lo puoi fare. Quest’uomo non ti ha fatto nulla e non ti farà nulla… quest’uomo sta semplicemente seduto per i fatti suoi, come puoi odiarlo? Tuttavia, lo puoi amare. L’amore non ha bisogno di alcun riferimento: questa è la bellezza dell’amore e la sua libertà. L’odio è un limite, è una prigionia imposta a te stesso da te stesso. E l’odio crea odio, l’odio provoca odio. Se odi qualcuno, crei odio verso di te nel cuore di quella persona. E il mondo esiste nell’odio, nella distruttività, nella violenza, nella gelosia, nella competitività. Ecco perché abbiamo trasformato questo mondo bellissimo in un inferno… mentre avrebbe potuto diventare un paradiso! Ama, e il mondo torna a essere un paradiso. E il bello dell’amore è che non ha riferimenti. L’amore sorge da te, senza motivo alcuno… è lo sprigionarsi della tua beatitudine, è la condivisione del tuo cuore. E la condivisione è felicità, per questo si condivide. La condivisione è fine a se stessa, non ha altre implicazioni. Ma l’amore che hai conosciuto in passato non è l’amore di cui parla il Buddha: è solo l’altro lato dell’odio, infatti ha un fuoco d’attenzione ben preciso (il sé, l’ego): ieri qualcuno è stato gentile con te, così gentile che ora tu provi per lui un amore immenso. Questo non è amore, è l’altra faccia dell’odio. Oppure, può succedere che qualcuno sarà gentile con te domani: il modo in cui ti sorride, il modo in cui ti parla, il modo in cui ti invita ad andare a casa sua domani… ti sta dimostrando amore; e in te sorge un amore immenso. Perfino i cosiddetti “grandi amanti” continuano a litigare, si aggrediscono, si punzecchiano, sono distruttivi. E la gente pensa che questo sia amore… e Invece, quando non accade nulla – nessuna lotta, nessuna discussione – la gente si sente vuota. Il litigio ti rende importante – la vita sembra avere un significato – qualcosa di orribile, ma perlomeno ha un senso. Il tuo amore non è vero amore: è il suo esatto opposto. è odio mascherato da amore. Il vero amore non ha alcun fuoco d’attenzione, non implica un partner. Non pensa a ieri e non pensa al domani. Il vero amore è uno zampillare spontaneo di gioia all’interno del tuo essere… e la condivisione… e l’irradiarla… senza motivo alcuno, senza altra ragione che non sia la semplice gioia di condividerla. Gli uccelli che cantano al mattino, questo cuculo che chiama in lontananza… senza motivo. Il cuore è così colmo di felicità che si eleva un canto, ecco tutto. Quando io parlo d’amore, parlo di questo amore; ricordalo. E se riesci a entrare nella dimensione di questo amore, sarai immediatamente in paradiso; e inizierai a creare un paradiso qui, sulla Terra. L’amore crea amore, proprio come l’odio crea odio. L’odio non scaccia mai l’odio. L’oscurità non potrà mai scacciare l’oscurità: solo l’amore scaccia l’odio. Solo la luce può scacciare l’oscurità: l’amore è luce, la luce del tuo essere, e l’odio è l’oscurità del tuo essere. Solo l’amore scaccia l’odio, solo la luce disperde l’oscurità. Di per sé, l’oscurità è solo uno stato negativo, in sé non esiste! Come potresti scacciarla? Contro l’oscurità non puoi fare nulla direttamente. Se vuoi fare qualcosa nei suoi confronti, dovrai operare attraverso la luce: introduci la luce e l’oscurità è svanita, togli la luce e appare l’oscurità; ma non puoi portare o togliere l’oscurità direttamente: nei suoi confronti non puoi fare nulla di nulla. I moralisti affermano che si deve lottare contro ciò che è negativo”; viceversa il vero Maestro, quello reale, vi insegna la legge positiva: non lottare contro l’oscurità, semplicemente accendi la luce! Immetti la luce… ma come è possibile immetterla nel proprio essere? Diventa silente, libero da pensieri, all’erta, consapevole, sveglio… in questo modo si introduce la luce nel proprio essere. E nel momento in cui sei attento, consapevole, non si troverà più odio. Prova a odiare qualcuno con consapevolezza… sono esperienze da mettere in pratica, non sono solo parole da comprendere: questi sono esperimenti da provare. Per questo ti dico: “Cerca di capire non solo intellettualmente: diventa uno sperimentatore esistenziale”. Prova a odiare qualcuno coscientemente, e scoprirai che è impossibile. O scompare la consapevolezza e puoi odiare, oppure, se sei consapevole, scompare l’odio: non possono coesistere. È impossibile la loro coesistenza: la luce e l’oscurità non possono esistere insieme, poiché l’oscurità non è altro che assenza di luce.

I 5 sensi e le fondamenta

Buddha dice: ricorda, se dipendi dai sensi, rimarrai fragilissimo, perché i sensi non ti possono dare alcuna forza. Non ti possono dare forza perché non sono in grado di darti fondamenta solide. Sono in un flusso continuo, tutto è mutamento. Dove puoi trovare dimora? Dove puoi fissare le fondamenta? Ora come ora, una donna ti sembra bella, l’istante successivo è un’altra donna. Se ti limiti a decidere attraverso i sensi, rimarrai in una costante agitazione: non puoi scegliere, perché i sensi continuano a mutare le loro opinioni. Buddha dice: non dipendere dai sensi, fondati sulla consapevolezza. La consapevolezza è un’entità nascosta dietro ai sensi. Non è l’occhio che vede… se vai da uno specialista degli occhi, ti dirà che è l’occhio a vedere, ma non è vero: è solo un meccanismo attraverso il quale qualcun altro guarda. L’occhio è solo una finestra, la finestra non è in grado di vedere. L’occhio è solo una finestra, un’apertura. Chi c’è dietro l’occhio? L’orecchio non sente: chi si trova dietro l’orecchio ad ascoltare? Chi è colui che percepisce? Continua a ricercare questo “qualcuno” e troverai fondamenta reali; altrimenti, la tua vita non sarà altro che una foglia secca nel vento. La meditazione ti renderà consapevole, forte e umile. La meditazione ti renderà consapevole, perché ti darà la prima esperienza di te stesso. Tu non sei il corpo, tu non sei la mente: tu sei la pura testimonianza della consapevolezza. E quando questa consapevolezza-testimone viene toccata, accade un grande risveglio: è come se qualcuno, che stava dormendo, venisse scosso e si svegliasse. All’improvviso si ha un grande risveglio interiore. Per la prima volta senti di essere. Per la prima volta percepisci la verità del tuo essere. Di certo questo ti rende forte; non sei più fragile, non sei più un alberello che qualsiasi alito di vento può sradicare. Ora puoi diventare una montagna! Ora puoi avere un fondamento, ora hai radici. Acquisti forza, sei sveglio, e tuttavia diventi umile. Questa forza non porta in te alcun ego. Diventi umile perché diventi consapevole. La stessa anima testimone esiste in chiunque, perfino negli animali, negli uccelli, nelle piante, nelle pietre. Una roccia ha un suo modo di dormire, un albero ha un modo diverso di dormire da un uccello, e così via; ma non si tratta altro che di questo: modi e metodi diversi di sonno, altrimenti – nel centro più intimo di ogni essere – vi è lo stesso testimone. Saperlo ti rende umile, perfino di fronte a una roccia sai di non essere nulla di speciale, perché l’intera esistenza è formata della stessa sostanza chiamata consapevolezza. E se sei sveglio, forte e umile, questo ti darà padronanza su te stesso.

La morte e la Vita

Buddha ha enfatizzato la morte: si tratta di un metodo. Se enfatizzi la morte, aiuta: la gente diventa sempre più consapevole della vita, in contrasto con la morte. E quando insisti con continuità nell’enfatizzare la morte, la gente ne trae un aiuto al risveglio. Si deve svegliare, perché la morte si sta avvicinando. Vi sono solo due sentieri possibili. Uno è questo: enfatizza la morte; e l’altro: enfatizza la vita. Perché questi sono i due soli elementi dell’esistenza! La vita e la morte. Buddha scelse la morte come simbolo. La mia enfasi va alla vita. Ma lo scopo è lo stesso. Io voglio che tu sia così appassionatamente innamorato della vita, che la tua stessa passione per la vita ti renda consapevole, la tua stessa intensità verso la vita ti renda sveglio. E la morte è nel futuro, mentre la vita è adesso. Per cui, se pensi alla morte, penserai al futuro. Se pensi alla morte, sarà un’illazione: vedrai sempre qualcun altro morire, non vedrai mai morire te stesso. Puoi immaginare, puoi ipotizzare, puoi pensare, ma sarà solo un pensiero.La vita non ha bisogno di essere pensata, può essere vissuta. Ti può aiutare meglio della morte a essere meno mentale. La vita esiste in questo preciso istante; non occorre che tu vada al cimitero. Tutto ciò che ti occorre, è essere sveglio, e la vita è ovunque… nei fiori, negli uccelli, nella gente intorno a te, nei bambini che ridono… e in te! E proprio ora! Non occorre che ci pensi, non occorre fare illazioni. Puoi semplicemente chiudere gli occhi e sentirla: puoi sentirne il pulsare, ne puoi sentire la presenza. Ma si possono usare entrambi i metodi: per farti diventare un meditatore si può usare la morte, oppure si può usare la vita.

Una sedia vuota

“Una sedia vuota…”. Certo, solo una sedia vuota può rappresentare un Buddha. Questa sedia è vuota,e quest’uomo che ti parla è vuoto, è uno spazio vuoto che si riversa in te. All’interno non esiste nessuno, solo un silenzio. La verità non può essere espressa a parole, non lo è mai stata, non lo sarà mai. Non può essere espressa a parole; può solo essere mostrata. L’assenza dell’“io” dentro di me può diventarne una prova indiscutibile. Io non sono una persona. La persona è morta molto tempo fa. È una presenza: un’assenza e una presenza. Io sono assente in quanto persona, in quanto individuo; sono presente come veicolo, come passaggio.

Le altre religioni presuppongono un dialogo, una dualità, una entità divina a cui rivolgersi attraverso la preghiera. Il buddhismo non è la religione della preghiera, è la religione della meditazione. E la differenza tra preghiera e meditazione è questa: la preghiera è un dialogo, la meditazione è un silenzio.

La verità che sfugge

Non puoi afferrare la verità – se ci provi, sarà oltremodo remota. Non puoi
possedere la verità – se ci provi ti ritroverai le mani completamente vuote. La verità giunge, non può essere portata. La verità accade, non ci puoi fare nulla; di fatto, colui che agisce è il problema, l’ostacolo, l’impedimento. Colui che agisce è l’ego. E se in qualche modo riesci a impedire a colui che
agisce di interferire, si ripresenta dalla porta sul retro, in
quanto sperimentatore, osservatore, colui che fa esperienza. Ecco perché, quando ne hai la sensazione, va perduta… colui che agisce, ora compare come colui che sente.

Non aver fretta di comprenderla o di sentirla: lascia semplicemente che sia
presente. Non devi far nulla in proposito. Se riesci a restare in uno stato di non-fare, di non-sforzo, di non-ego, comprenderai, sentirai, saprai, sarà tua… la puoi avere solo in maniera indiretta, non direttamente.

Il desiderio stesso di afferrarla è frutto dell’avidità, il desiderio stesso di
afferrarla è frutto della paura. Il desiderio stesso di afferrarla è un desiderio della mente; e allorché la mente entra in causa, la verità esce di scena. Ricorda: dico che ne vieni afferrato, ne sei posseduto,
non che la possiedi. Come puoi possedere un tramonto? Il tramonto ti possiede, ti riempie; ogni angolo del tuo essere straripa, colpito da tanta bellezza. Quindi andate, al mattino presto a vedere il sole che sorge,
sedetevi, nel mezzo della notte, a osservare il cielo colmo di
stelle, andate e sdraiatevi di fianco a un fiume, e ascoltatene il
suono, e quando un giorno la verità arriva non cercare
di fare nulla… non è necessario capire, non occorre osservare, non serve esaminare, non serve analizzare… lascia che sia presente! Siine posseduto! e sii totalmente unito a lei. Quello è il solo modo per conoscerla. Perché, con la sensazione, subentra l’io… e l’io è la distanza fra te e la verità. Più grande è l’io, maggiore è la distanza; più piccolo è l’io, minore è la distanza. Nessun io, nessuna distanza.

Vero o falso

La verità dev’essere scoperta, non inventata. E cosa ti impedisce di scoprirla? Ci sono state dette molte menzogne, ostacoli che continuano a falsificare la verità, che non permettono ai nostri cuori di riflettere ciò che è. La verità non è una conclusione logica. La verità è esistenza, realtà; ma se esiste già come mai non siamo in grado di trovarla? E’ perché fin all’infanzia ci vengono insegnate falsità, pregiudizi, ideologie, religioni, filosofie. Prova semplicemente a guardare dentro di te: qualsiasi cosa sai, ti è stata detta; non è frutto della tua conoscenza, non è autentica non ne sei un testimone, sei solo una vittima delle circostanze. Per puro caso sei nato in India, oppure in Inghilterra. È solo per un caso che nasci in una famiglia hindu oppure cristiana; a causa di questi eventi casuali, la tua natura
essenziale è andata perduta: vieni costretto con la forza a perderla. Se vuoi riconquistarla, dovrai rinascere.Rinascere ovviamente non vuol necessariamente morire fisicamente ma solo lasciar cadere tutto ciò che ti è stato insegnato. Lascia cadere tutto il tuo sapere e diventa innocente come un bambino appena nato.

Fraintendendo il falso per vero e il vero per falso,
ti lasci sfuggire il cuore e ti riempi di desiderio.

La mente non è altro che desiderio. Il cuore non conosce desiderio alcuno. Vi stupirà sentirlo dire, ma è così: tutti i desideri appartengono alla testa. Il cuore vive nel presente; pulsa, palpita, batte nel qui-e-ora. Il cuore conosce solo il presente, per questo è assolutamente puro. Non è inquinato
dai ricordi passati, dal sapere, dall’esperienza, da tutto ciò che vi è stato detto e insegnato. E non sa nulla del futuro, del domani. Per lui, il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora. È assolutamente qui, è
immediato. Ma la mente è esattamente l’opposto del cuore: la mente non è mai adesso, non è mai qui. O pensa alle splendide esperienze passate, oppure desidera le stesse splendide esperienze nel futuro. Continua a spostarsi tra il passato e il futuro, non si arresta mai nel presente. È del
tutto inconsapevole del presente. Per la mente, il presente non esiste. Osserva la situazione: il presente è la sola cosa che esista, ma per la mente il presente è la sola cosa che non esiste. La mente è desiderio, e tu continui a riempirti con una quantità sempre maggiore di desideri. Dimenticando
completamente che, dentro di te, esiste un cuore che palpita. I vostri cuori sono comunque nutriti dalla verità, ma voi non siete presenti a quella realtà, avete lasciato vuoto quello spazio: vivete nella testa.

Vedi il falso in quanto falso, il vero in quanto vero.
Guarda nel tuo cuore.
Segui la tua natura.

Buddha afferma che il falso sembra essere vero perché voi siete diventati falsi alla vostra stessa verità, al vostro stesso cuore. Tornate al cuore, allora sarete in grado di conoscere il vero in quanto vero e il falso in quanto falso.
Quello è illuminazione, quello è tornare a casa.

“Vedi il falso in quanto falso il vero in quanto vero”. Quando siete diventati consapevoli di ciò che è falso, all’improvviso diventate coscienti di ciò che è vero. Non vi può essere insegnato ciò che è vero, ma di certo vi può essere insegnato ciò che non è vero. Siete stati condizionati, potete essere decondizionati. La verità non viene insegnata, deve essere scoperta.

“Guarda nel tuo cuore, segui la tua natura”significa fluire con te stesso. Nascosta nelle profondità del tuo essere c’è una piccola voce silente… se diventi silenzioso verrai guidato da lei. Con “natura” Buddha intende il “dhamma”. Così come la natura dell’acqua è scorrere verso il basso, e la
natura del fuoco è elevarsi verso l’alto, allo stesso modo esiste, nascosta dentro di te, una particolare natura. E, se tutti i condizionamenti che ti sono stati imposti dalla società, e che ti hanno avvolto, vengono rimossi, all’improvviso scoprirai la tua natura. Diventare disponibile alla tua natura interiore è ciò che io chiamo meditazione. Ricorda queste due parole. “Carattere” è un’invenzione dei politici e dei preti; è una cospirazione
contro di te. “Consapevolezza” è la tua natura. Certo, un uomo di consapevolezza ha un carattere ben preciso, ma quel carattere è funzionale alla sua consapevolezza.il cosiddetto – uomo di carattere – è ingabbiato. Anche se le circostanze mutano, egli continua a reiterare lo stesso carattere, assomiglia a un pappagallo, è una macchina: non risponde, si limita a reagire. Un uomo di consapevolezza risponde, e le sue risposte sono spontanee. Egli è simile a uno specchio: riflette qualsiasi cosa gli si pari davanti. Da questa spontaneità, da questa consapevolezza, nasce una nuova forma di azione. Quell’azione ti libera. Se ascolti la tua natura, resti libero.

Non riesci a comprendere parole così elementari come “Vai dentro di te”?
So che capisci le parole, ma l’entrare dentro di te è diventata una cosa difficilissima, perché ti è stato insegnato solo a uscire all’esterno, sai solo fare quello. Pensare è uscire all’esterno: non pensare è entrare in se stessi. Pensa, e hai iniziato ad allontanarti da te stesso. Il pensiero è la via che ti porta sempre più lontano da te. Il pensiero è una proiezione. Non pensiero e all’improvviso sei dentro di te. Senza pensiero non puoi uscire all’esterno,
senza desiderio non puoi uscire all’esterno. Per uscire dal tuo essere hai bisogno del combustibile del desiderio e del veicolo del pensiero.
Seduto in silenzio, senza far nulla… neppure pensare, neppure desiderare… e dove sarai? Entrare in se stessi, di fatto, non è un andare dentro di
sé; è semplicemente smettere di uscire all’esterno… e all’improvviso ti ritrovi dentro di te.

“andare” vuole comunque dire “andare all’esterno”: smetti di andare! Smetti di andare da qualsiasi parte! Non puoi stare seduto in silenzio, senza andare da qualche parte? Certo, fisicamente puoi sederti, non è una cosa difficile ma il problema è questo: cosa fai dentro di te? Desideri, pensieri, ricordi, immaginazioni, ogni sorta di proiezione? Arresta anche quelle!
Come arrestarle? Diventa semplicemente indifferente, non badarci. Se anche sono presenti, non prestare loro attenzione. Anche se sono presenti, non dare loro alcuna importanza. Anche se sono presenti, lascia che lo siano. Siedi in silenzio, all’interno del tuo essere, e osserva. Ricorda questa parola: “osservare”, sii un testimone, sii semplicemente attento, presente, all’erta.
E man mano che questo stato di osservazione cresce, diventa più profondo, la stessa energia che si trasformava in desideri e pensieri e ricordi e immaginazione, la stessa energia viene assorbita in questa nuova profondità: la stessa energia è usata da questo scendere in profondità,
all’interno. Allora saprai cosa intendo dire, quando dico: “Vai dentro di te”

Entra in te stesso! E la via è questa: osserva i tuoi pensieri e non identificarti con loro. Resta un semplice testimone, del tutto indifferente, né a favore né contro. Non giudicare, perché qualsiasi giudizio comporta un’identificazione.
Non dire: “Questi pensieri sono sbagliati”, e non dire: “Questi pensieri sono buoni”. Non commentare i tuoi pensieri. Lascia semplicemente che scorrano, come fosse lo scorrere del traffico che vedi stando discosto, sul ciglio della strada: lo osservi distaccato, per nulla coinvolto.
Non importa cosa passi: un autobus, un camion, una bicicletta. Se riesci a osservare il processo dei pensieri che scorrono nella tua mente con lo stesso distacco, con la stessa indifferenza, non è lontano il giorno in cui l’intero
traffico scomparirà… perché quel traffico può esistere solo se tu continui a dargli energia. Se smetti di dargli energia… e osservare è proprio questo: smettere di dargli energia, impedire all’energia di scorrere nel traffico; è la tua energia che fa muovere questi pensieri. Quando la tua energia non
entra in gioco, essi iniziano a cadere; da soli non riescono a stare in piedi.
E quando la strada della mente è assolutamente vuota, sei dentro di te. Questo è ciò che intendo dire quando dico: “Vai dentro di te”. E questo è ciò che intende il Buddha, quando dice: Segui la tua natura.

Una mente priva di riflessione è un ben misero tetto.
La passione, come pioggia, inonda la casa.

Con “riflessione”, Buddha intende semplicemente questo: “riflessione”, nonpensiero; parla di riflesso, nel senso di uno specchio che riflette. Quando ti metti davanti a uno specchio, questi non pensa a te, si limita a rifletterti!
Una mente priva di riflessione è una mente che ha dimenticato come riflettere Sappiamo solo pensare, non sappiamo come riflettere.
Prova a pensare a un bambino: viene al mondo e apre
per la prima volta gli occhi… vede gli alberi, ma non sarà in
grado di dire a se stesso: “Questi sono alberi”. Vede la luce,
ma non sarà in grado di dire a se stesso: “Questa è luce
elettrica”. Vede il rosso di una rosa, ma non sarà in grado di
dire: “Questa è una rosa, e il suo colore è rosso”. Vede ogni
cosa, ma dentro di sé non dirà nulla. Quello è riflettere: egli
sarà semplicemente uno specchio. Una mente che ha dimenticato come riflettere la verità è sempre vittima del desiderio; una vittima della testa, una vittima del futuro, una vittima del costante e continuo aspirare a questo e a quello. E nessun desiderio potrà mai essere appagato. Allorché un desiderio è appagato, la mente ne ha creati dieci altri. Stai attento! Inizia a ripulire il tuo specchio, in modo che tu possa riflettere.

La passione, come pioggia, inonda la casa.
Ma se il tetto è solido, allora puoi ripararti.

Se sai come riflettere la realtà, allora hai un riparo. Sei al sicuro, perché sei parte della verità.

Chiunque segua pensieri impuri soffre in questo mondo e nel prossimo.
In entrambi i mondi egli soffre, e quanto immensamente, allorché vede il male che ha fatto.

Tutti i pensieri sono impuri. Il Buddha parla di “pensieri impuri”, ma intende sempre i pensieri: tutti i pensieri sono impuri, perché un
pensiero presuppone sempre che stai pensando all’altro… è sorto un desiderio. E ogni volta che dice “un pensiero puro”, intende “un nonpensiero”.
Solo un nonpensiero è puro, perché in quel caso sei assolutamente te stesso, solo, senza alcunché che interferisca.

Ma chiunque segua la legge è felice qui ed è felice là.
Egli gioisce in entrambi i mondi, e quanto immensamente,
allorché vede il bene che ha fatto.

In retrospettiva, quando vedi che hai creato un inferno
a te stesso – nessun altro tranne te ne è responsabile: “Sono stato così
sciocco. Nessuno mi ha fatto soffrire. Gli unici responsabili sono i miei pensieri. Viceversa, se segui la tua essenza più intima, la tua natura, sarai al settimo cielo dalla gioia, sia qui che là. Buddha non si interessa molto al “là”. Tuttavia, egli dice: “Se sei felice qui, è inevitabile che tu sia felice là”. Se
gioisci in questo momento, il prossimo gioirai ancor di più, perché il prossimo istante scaturirà da questo.

Se soffri in questo momento, il successivo soffrirai ancor di più, poiché stai imparando le vie della sofferenza, ti stai abituando a soffrire. Creerai una sofferenza maggiore nel’istante successivo, perché stai diventando sempre più efficiente nel creare sofferenza. Non preoccuparti del momento successivo, o della prossima vita, o del prossimo mondo. Rendi questo istante una festa, rendi questo istante un istante di beatitudine, e il
prossimo seguirà, e così la prossima vita, e il prossimo mondo.

Poiché grande è il raccolto in questo mondo, e ancor più grande nel prossimo.
Per quante parole sacre tu legga, per quanto tu ne parli,
quale bene potranno mai farti, se non agisci di conseguenza?

L’azione e solo l’azione può essere d’aiuto: devi coinvolgerti, devi impegnarti! Se qualche verità ti convince, agisci di conseguenza, e agisci immediatamente! Perché la mente è molto astuta, e la più grande astuzia della mente è rimandare. Dice: “Domani…”, e il domani non arriva mai.

Sei tu un pastore che conta le pecore di un altro, senza mai condividere la via?

Nel mondo esterno l’ineguaglianza è la legge; nel mondo esterno tutti sono
diseguali. Qualcuno è più forte di te, qualcuno è più intelligente, qualcuno è più bello, qualcuno ha più talento, qualcuno è un genio… la gente è diversa, e non può essere costretta all’uguaglianza; farlo distruggerebbe l’umanità. E
la gente rimarrà disuguale.
Ma nel mondo interiore, man mano che scendi dentro di te, l’ineguaglianza inizia a scomparire. Nell’essenza più intima dell’essere esiste un’assoluta eguaglianza. All’interno, l’ego scompare, la personalità scompare, esiste solo una pura consapevolezza. E due consapevolezze non sono superiori o
inferiori. Non continuare a contare le pecore altrui; entra in te stesso! Non continuare a leggere i testi sacri; entra in te stesso! Non continuare ad ascoltare le parole degli altri… condividi la via!
Buddha dicevadi non limitarsi ad ascoltare le sue parole. Segui la via, condividi la via!

Leggi il minor numero di parole possibile ed esprimine ancor meno con la voce.
Ma agisci in funzione della legge.

La parola “legge” ha connotazioni sbagliate. È una traduzione di “dhamma”: la legge eterna. “Agisci in funzione della legge” non vuol dire “Agisci
rispettando il codice penale”. “Agisci in funzione della legge” significa: agisci in armonia con la tua natura interiore.

Abbandona le vecchie modalità: passione, inimicizia, follia.
Conosci la verità e trova la pace.
Condividi la via.

Cosa sono le “vecchie modalità”? Sono la via del desiderio, la via dell’odio e la via della stupidità. Quando lasci cadere il passato, per qualche giorno sei
spaesato, disorientato, non sai cosa fare, come agire. Vivrai in un limbo… quel limbo deve essere attraversato. È doloroso… quello è il prezzo che dobbiamo pagare per acquisire il vero. Una volta attraversato quel limbo, quello spazio vuoto… Conosci la verità e trova la pace. Allora si conosce
la verità, e la verità segue la pace come un’ombra.

Numerose religioni

Ogni individuo deve raggiungere Dio a modo suo, ecco perché i Buddha possono solo indicare, possono solo dare spunti. Non possono darvi mappe precise e definite: solo spunti, alcuni accenni. E quegli spunti non
devono essere presi molto seriamente, bensì con estremo senso del gioco. Non dovete diventare fanatici; se lo diventate non siete più religiosi. La varietà è bella, ti permette di scegliere in base al tipo di uomo che tu sei. La religione non è decisa per nascita. Puoi essere nato da genitori hindu, ma se i tuoi genitori ti amano veramente, non ti convertiranno all’induismo. Certo, ti diranno tutto ciò che hanno conosciuto e sperimentato, ma ti lasceranno libero. E ti diranno: “Diventa più attento, più consapevole, più
maturo, e quando sarai cresciuto abbastanza e vorrai decidere, scegli la tua religione”.

Abbiamo bisogno di ogni sorta di linguaggio. L’inglese è necessario per la sua precisione, per la sua accuratezza. Ogni parola ha un significato: senza un linguaggio come questo, la scienza non può svilupparsi.

L’arabo ha una profonda qualità seduttiva, riecheggia quasi con ossessione. Se lo canti, creerà un riverbero nel tuo cuore. Smetti di cantare, e il canto continuerà nel cuore. L’arabo ha in sé quella qualità, perché è una lingua del deserto: tutte le lingue del deserto hanno questa qualità. Quando chiami qualcuno in un deserto, a distanza remota, devi chiamarlo in un certo modo… e nel deserto puoi chiamare le persone da molto lontano; se le chiami con un suono ritmico, giungerà fino a loro. il Corano è un libro da cantare. Non è un libro da studiare: è un libro da danzare, solo in questo caso ne toccherete lo spirito interiore. Non c’è nulla di male nel fatto
che esistano molte religioni. Certo, c’è qualcosa di male nel loro continuare a discutere. Sono diventate fatti politici; insistono nel cercare di
convertire, perché il numero crea potere. Se a me piace una rosa non devi convincermi che dovrebbero piacermi le margherite. Dovresti solo accettare che a me piacciono le rose. La gente ha comprensioni diverse, modi diversi di guardare le cose, interpretazioni diverse. E questa libertà
dev’essere loro concessa…

L’ego

Se dici a qualcuno: “Io sono speciale”, non lo puoi convincere, perché l’altro sa di essere lui quello speciale. l’ego è veleno, puro veleno. Perdi contatto, ti separi dal flusso vitale; non sei più all’interno del flusso dell’esistenza, diventi una roccia nel fiume. l’ego è così infingardo, così astuto che può darti questo nuovo programma: “Sei così speciale che puoi diventare semplicemente un uomo comune, ordinario. Ma nella tua ordinarietà saprai di essere l’uomo ordinario più straordinario che ci sia. le cosiddette persone umili. Dicono: “Sono l’uomo più umile che ci sia”. Ma non lo intendono affatto! Non dire loro: “So che non lo sei”, altrimenti non te lo perdoneranno mai. Si aspettano che tu dica: “Sì, sei l’uomo più umile che io abbia mai visto”, solo così saranno soddisfatte, si sentiranno appagate. È ego che si nasconde dietro all’umiltà… Ricorda questo: qualsiasi cosa pensi di te stesso, pensala di chiunque altro, e l’ego scomparirà. L’ego è l’illusione creata dal pensare a se stessi in un modo e dal pensare agli altri in un altro; si tratta di un doppio pensare: se lasci cadere il doppio pensare, l’ego muore d’acchito.

Sentirsi vicini a Dio ma non sentirlo

di certo porti nella tua mente un’immagine ben precisa di Dio; per questo ti sfugge. E continuerà a sfuggirti, se non lasci cadere quell’immagine. Dio può essere conosciuto solo da coloro che riescono a lasciar cadere qualsiasi idea su Dio. Le idee sono frutto della tua ignoranza, è sono un ostacolo. Lascia cadere qualsiasi idea su Dio e chiediti: “Esiste un qualsiasi luogo in cui
Dio non esiste?”. In quel caso, vedrai qualcosa di incredibilmente straordinario nella semplice ordinarietà delle cose. In questo modo l’uomo si avvicina al divino, e il divino si avvicina all’uomo; l’umano e il divino scompaiono l’uno nell’altro; il mondo e Dio scompaiono l’uno nell’altro. Allora non cerchi più un Dio che è separato, che vive nel settimo paradiso; in quel caso egli vive nel circondario in cui tu vivi, ha il volto del tuo vicino. In quel caso egli è umano, è un animale, è un vegetale, è un minerale… è tutto. Dio non si nasconde alla tua vista, sei tu a tenere gli occhi chiusi a causa di tanti pregiudizi. Dio è fermo, ritto sulla porta, ma tu non lo puoi sentire perché la tua mente è così colma di agitazione, è così piena di pensieri… milioni di pensieri che furoreggiano stordendoti. La tua mente è così rumorosa che non puoi sentire il battito silente alla porta. Sii silente.

Egli osserva

Essere svegli è la via alla vita.
Lo sciocco dorme come se fosse già morto;
ma il Maestro è sveglio e vive per sempre.
Egli osserva.
Egli ha chiarezza.
Come è felice! Perché vede che l’essere svegli è vita.
Come è felice, seguendo il cammino del risveglio.
Con grande perseveranza egli medita, cercando libertà e felicità.
Perciò svegliati, rifletti, osserva.
Lavora con cura e attenzione.
Vivi seguendo il sentiero e la luce crescerà in te.
Osservando e lavorando il Maestro costruisce per sé un’isola che la marea non può sommergere.

Se c’è una cosa da saper dell’essere umano è questa: “egli è addormentato. Anche quando crede di essere sveglio, non lo è”. Non siate così sciocchi da credere che solo aprendo gli occhi siete svegli. L’intero insegnamento di tutti i Buddha può essere contenuto in un’unica parola: svegliati!

Non farai mai alcuno sforzo per svegliarti se credi di esserlo già. Il silenzio è lo spazio in cui ci si sveglia, e la mente rumorosa è lo spazio in cui si resta addormentati. Se la tua mente continua a chiacchierare, sei addormentato… Seduto in silenzio, se la mente scompare affiora la consapevolezza. Il silenzio non è all’esterno e non viene dall’esterno: sorge in te, cresce in te. In caso contrario, ricorda: stai dormendo.

Se hai una mente perdi la consapevolezza. Perciò, l’unico lavoro da fare è questo: come ritrovare la consapevolezza e perdere la mente. Quando hai una mente, perdi la consapevolezza: mente significa sonno, frastuono,
automatismi. Devi eliminare dal tuo sistema tutto ciò che hai raccolto in quanto sapere. È il sapere a tenerti addormentato; pertanto, più una persona è istruita, più è addormentata.

Essere svegli è la via alla vita. 

Sei vivo solo nella misura in cui sei consapevole. La consapevolezza è la differenza tra la vita e la morte. Diventa più attento, e sarai più vivo. La vita è la meta, e la consapevolezza è la metodologia, la tecnica per raggiungerla.

Lo sciocco dorme come se fosse già morto;
ma il Maestro è sveglio e vive per sempre.

Tu agisci nel sonno; ecco perché continui a fare cose che non vuoi fare, che hai deciso di non fare, che sai non essere giuste e a non fare cose che sai essere giuste. Come mai? Perché continui a perderti? E’ perché non sei sveglio. Non sei in grado di vedere! Non sei in grado di sentire! Certo, hai le orecchie per sentire e gli occhi per guardare, ma dentro di te non c’è nessuno in grado di comprendere. La prima cosa che devi lasciar penetrare profondamente nel tuo essere è questa verità: tu sei addormentato.

La psicologia moderna ha scoperto alcune cose estremamente significative; oggi, grazie a Freud possiamo parlare di mente conscia, una cosa fragilissima, la parte più piccola del tuo essere. Dietro la mente conscia vi è la mente subconscia, qualcosa di vago che puoi sentir bisbigliare, ma che non puoi comprendere; è sempre lì, dietro la mente conscia, che fa vibrare le sue corde. In terzo luogo, abbiamo la mente inconscia, che incontri solo nei sogni. Se scendi ancora più in profondità, arriverai all’inconscio collettivo che racchiude l’intero genere umano, e ancora più in profondità arriverai all’inconscio cosmico. L’inconscio cosmico è la natura.

Freud è penetrato negli abissi, ma Sri Aurobindo ha cercato di raggiungere le vette. Al di sopra della nostra mente cosiddetta cosciente, esiste la vera mente cosciente: la si raggiunge solo grazie alla meditazione. Quando alla tua normale mente cosciente aggiungi la meditazione, quando oltre alla normale mente cosciente è presente in te la meditazione, questa mente
diventa la vera mente consapevole. Oltre alla vera mente cosciente, esiste la mente della super-consapevolezza. Quando mediti, hai solo dei barlumi. Certo, si aprono delle finestre, ma ricadi subito indietro, continuamente. Mentre possedere una mente super-consapevole (Samadhi ) significa che hai raggiunto una capacità di percezione cristallina, una consapevolezza totale che ora non puoi più caderne al di sotto. Al di là della mente super-consapevole, si trova il super-conscio collettivo; il super-conscio collettivo, nelle nostre religioni, è conosciuto come “le divinità”. E oltre si
ha la super-consapevolezza cosmica, che va al di là anche delle divinità. Buddha lo chiama Nirvana, ma tu puoi chiamarlo la verità.

Questi sono i nove stati del tuo essere, e tu vivi rannicchiato in un angolino minuscolo: la piccola mente conscia… è come se qualcuno possedesse un palazzo, e si fosse completamente dimenticato di averlo, e vivesse sotto il
porticato… credendo di non avere altro!

Se studi Freud, egli parla di qualcosa al di sotto di te, il che non ti crea alcun imbarazzo: tu sai che sei cosciente e che al di sotto esiste l’inconscio, e l’inconscio collettivo. Ma tutti quegli stati della mente sono al di sotto di te; tu sei in cima, e la cosa ti fa sentire molto bene. Viceversa, se studi Sri Aurobindo, ti sentirai a disagio, perché al di sopra del tuo stato di coscienza esistono altri stati più elevati e l’ego dell’uomo non vuole mai accettare che esista qualcosa di superiore a sé.

Se rimani inconsapevole, addormentato, dovrai morire ancora. Se vuoi
liberarti dalla ruota della nascita e della morte, dovrai conseguire un pieno e assoluto risveglio. Dovrai raggiungere vette di consapevolezza sempre più elevate. E queste cose non devono essere accettate su basi intellettuali: queste cose devono diventare esperienza, queste cose devono diventare esistenziali. Non dovete convincervi da un punto di vista filosofico, perché non porta a nulla, . I veri frutti si hanno solo quando operi in te uno sforzo immane per giungere al risveglio.

Egli osserva.
Egli ha chiarezza.

L’unica cosa che si deve imparare è l’arte dell’osservazione. Guarda! Osserva ogni azione che compi. Osserva ogni pensiero che scorre nella tua mente. Osserva ogni desiderio che prende possesso di te. Osserva anche i
più piccoli gesti – camminare, parlare, mangiare, fare il bagno. Continua a osservare ogni cosa. Lascia che ogni cosa diventi un’occasione per osservare. Mangia lentamente, osservando, ogni boccone deve essere masticato, assaporato. Odora, tocca, senti la brezza e i raggi del sole. Osserva la Luna… e diventa un semplice specchio d’acqua silente che osserva.

Ricorda una cosa: quando ti rendi conto che ti sei dimenticato di osservare, non rammaricartene, non dispiacertene; altrimenti stai di nuovo perdendo tempo. Non sentirti infelice per aver mancato un’altra occasione; non
lasciarti travolgere dal sentirti un peccatore. Non iniziare a condannarti, a biasimarti perché tutto ti sembra essere solo uno spreco di tempo… perché ti senti un caso senza speranza! Non pentirti mai per il passato! Vivi nel momento.

Quando osservi, nasce chiarezza, poiché la chiarezza è frutto dell’osservazione. Più diventi osservatore, più la fretta diminuisce. Diventi più gentile, più aggraziato. Mentre osservi, la tua mente bisbetica
chiacchiera meno: l’energia che si manifestava in chiacchiere, ora si trasforma, diventa osservazione e la mente non avrà più il suo nutrimento. I pensieri inizieranno a farsi più flebili, inizieranno a perdere di spessore e di rilievo… a poco a poco, inizieranno a morire. Man mano che i pensieri moriranno, nascerà la chiarezza. A quel punto, la tua mente diventa uno specchio.

Come è felice! Perché vede che l’essere svegli è vita.
Come è felice, seguendo il cammino del risveglio.
Con grande perseveranza egli medita, cercando libertà e felicità.

Ascolta queste parole molto attentamente: Con grande perseveranza… Se non compi uno sforzo totale per risvegliarti, non accadrà. La consapevolezza genera interiorità, ti rende introverso; ti porta all’interno, sempre più in profondità. E “sempre più in profondità” significa anche “sempre più in alto”: queste due dimensioni crescono di pari passo. Proprio
come cresce un albero: tu lo vedi crescere solo verso l’alto, non vedi le radici che affondano nel suolo. Ma, come prima cosa, le radici devono affondare nel suolo, per permettere all’albero di crescere in altezza. Se un albero vuole raggiungere il cielo, dovrà far affondare le sue radici in
profondità, dovrà raggiungere la massima profondità. L’albero cresce contemporaneamente in entrambe le direzioni.

Ho parlato di nove stati di consapevolezza. I rami della tua consapevolezza andranno verso l’alto: dalla mente conscia a ciò che è veramente alla mente consapevole; da ciò che è veramente consapevole alla super-consapevolezza; dalla super-consapevolezza alla coscienza collettiva; dalla
coscienza collettiva alla coscienza cosmica.
E le tue radici cresceranno dal cosiddetto conscio al subconscio, dal subconscio all’inconscio, dall’inconscio all’inconscio collettivo, dall’inconscio collettivo all’inconscio cosmico.

Tu vivi come se fossi ubriaco, pertanto ti si può perdonare se ricadi
continuamente. Ma non appena te ne rendi conto, non appena arriva un raggio di luce e te ne ricordi, torna a impegnarti con tutte le tue forze… non restare uno sciocco, non restare addormentato, non restare ubriaco. Dovrai liberarti da molti strati di ubriachezza. L’avidità è uno stato di ubriachezza, la mente chiede sempre di più, non smette mai di chiedere. Se corri dietro ai soldi, vorrai averne di più, se corri dietro al successo, vorrai averne di più. Se sei interessato a diventare umile, vorrai più umiltà, perché devi diventare l’uomo più umile del mondo. Non c’è mai fine a questa domanda costante della mente: sempre di più…
La stessa cosa è vera per la rabbia. Non hai mai osservato che, quando sei in
collera, fai cose che normalmente non faresti? Dici cose di cui poi ti penti amaramente? E in seguito non riesci a credere di aver detto simili stupidaggini, di aver potuto dire tali idiozie… Cosa succede quando sei arrabbiato? Sei in uno stato di ubriachezza. Osserva di più, e in te ci sarà meno rabbia, ci sarà meno avidità, ci sarà meno gelosia.

Quando in voi affiora la rabbia, sedetevi nella vostra stanza,
chiudete le porte, e osservatela. Voi conoscete due sole modalità: o siete in collera, diventate violenti, distruttivi, oppure vi reprimete. Non conoscete la terza modalità, quella dei Buddha: non esplodere e non reprimere: osserva. La repressione ti aiuta a diventare una persona socialmente migliore, ma crea dentro di te una ferita, una vera e propria ferita, dentro di te la
follia aumenta a vista d’occhio.

Perciò svegliati, rifletti, osserva.
Lavora con cura e attenzione.
Vivi seguendo il sentiero e la luce crescerà in te.

La luce cresce spontaneamente. Diventa semplicemente più silenzioso, osserva con maggior attenzione, sii più meditativo… e la luce scenderà in te.
Spontaneamente! Non devi andare da nessuna parte.

Osservando e lavorando il Maestro costruisce per sé un’isola che la marea non può sommergere.

Il tuo osservare diventa un’isola che nessuna passione, nessuna cupidigia, nessuna avidità, nessuna rabbia può più dominare.Con quell’isola, per la prima volta diventi un uomo totale, un essere umano. Questo essere umano oggi è assolutamente indispensabile, questo è il nuovo essere umano.

Domande e risposte

Non ci sono risposte, esiste solo la risposta. La mente ha risposte su risposte, ma non ha la risposta. La puoi conoscere, ma non la puoi ridurre a
sapere, non la puoi esprimere verbalmente. È luce che illumina semplicemente la tua interiorità. Non è una risposta a una domanda specifica. È la fine di ogni interrogarsi, non si relaziona affatto a una domanda. Dissolve semplicemente tutte le domande e resta uno stato
privo di qualsiasi interrogativo.

È inevitabile che in te sorgano delle domande, poiché ancora non sono state tagliate le radici. Le radici sono tagliate solo quando sconnetti te stesso dalla mente, quando tutte le identificazioni con la mente sono lasciate cadere, quando sei testimone, che osserva, che guarda, ma che non si identifica con alcunché – buono o cattivo, peccatore o santo, questo o quello – in quella testimonianza, ogni interrogativo si dissolve. Scivola fuori dalla mente! È uno stato di assoluto silenzio, di pace, di non-pensiero. Buddha lo chiama “giusta presenza attenta” – “sammasati”. E dichiara che a quanti sono
pienamente consapevoli, attenti, all’erta, la verità giunge spontaneamente.

Essere in silenzio, significa avere la risposta. Essere in silenzio significa essere privi di domande… La mente è l’unico nemico; non ne esistono altri. Il Diavolo non è qualcuno esterno a te; è la tua mente che continua a tentarti, che continua a ingannarti, a manipolarti, a crearti sempre nuove illusioni. Stai attento, osserva la mente! E nell’osservare, le domande compaiono… non ricevono una risposta. Il Buddha non conosce alcuna risposta… non è che sia arrivato alla conclusione di ogni interrogativo; no, niente affatto! Al contrario, non ha più interrogativi.

Le informazioni le puoi ottenere ovunque, devi disimparare qualsiasi cosa tu abbia imparato finora, devi funzionare da uno stato di non-conoscenza, agire spontaneamente, non in funzione del passato e delle conclusioni a cui sei giunto. E quando sarai silente, senza che alcun sapere rumoreggi all’interno, la tua percezione sarà limpida, non ci sarà più polvere sullo specchio… rifletterai ciò che è. E da quel riflesso, qualsiasi azione insorga è virtuosa.

Disciplina e individualismo

Domanda: “Disciplina e individualismo sono diametralmente opposti?”

Disciplina non significa farsi dominare, ma assumersi le proprie responsabilità. E’ solo attraverso le responsabilità che si cresce. La crescita diviene possibile nell’adempiere in pieno le proprie responsabilità.

L’individualista non è ancora un individuo. L’individualista che crede nell’individualismo è solo un egoista. Ed essere egoisti non equivale a essere un individuo: l’individuo non ha ego alcuno.

Individuo significa indivisibile, indica un essere integro. Tutti hanno l’ego! La cosa straordinaria è l’assenza dell’ego. L’ego è una falsa entità, non ti permette di essere reale, è falso, è un inganno, è un’illusione. Tu non sei separato dall’esistenza, ma l’ego continua a fingere la separazione tra te e l’esistenza.

Per rispondere alla domanda iniziale: “Disciplina e individualismo non sono diametralmente opposti?”. Non lo sono! Un individuo è sempre un essere disciplinato. Una persona priva di disciplina non è un individuo: è solo un caos, è multi-frammentario. Tutti i suoi frammenti funzionano separatamente, in opposizione l’uno con l’altro. Ed è così che la gente vive normalmente: una parte della mente va a sud, un’altra parte va a nord; una parte dice una cosa, l’altra parte dice l’opposto. Una parte dice: “Fai questo”. Un’altra immediatamente replica: “No!”. Qualcosa dice: “Sì”, e
qualcosa subito lo distrugge immediatamente, dicendo: “No”.

Un individuo è un essere che funziona come una totalità. Può accadere solo attraverso una disciplina consapevole. Questo è ciò che Buddha mette in evidenza: perseveranza, sforzo, uno sforzo deliberato e consapevole per crescere. Certo, a volte è doloroso, ma tutto dipende da come lo interpreti: Se veramente vuoi crescere, non è doloroso; è enormemente piacevole. Ogni passo fatto più in profondità nella disciplina procura una gioia sempre più grande, perché ti dona sempre di più un’anima, un essere vero.

Per diventare disciplinato devii sapere che il primo principio della disciplina è la resa. Apparentemente sembra una contraddizione, perché ti hanno insegnato che se ti arrendi non sarai mai più un individuo. Invece è il contrario: se non sei in grado di arrenderti, non sarai affatto un individuo. Solo un individuo può arrendersi. La resa è un fenomeno così grande che solo un uomo di grande volontà riesce a operarla: è la forma più evoluta della volontà. Abbandonare la tua volontà richiederà inevitabilmente una volontà totale. La disciplina è la via per creare
individualità (essere un individuo integro).

Ma ricorda: essere un individuo non vuol dire essere individualista. L’individualismo è un’espressione dell’ego. E le persone che credono nell’individualismo non sono individui.

Liberarsi dal Pattume

Domanda: “Maestro, come faccio a liberarmi da questo pattume?”

Se è pattume, sapendo che si tratta di immondizia, lasciala andare! Ma sembra che tu l’affermi solo per averlo sentito dire da me. In te è diventata una credenza; non è qualcosa che sai tu, non è una tua esperienza… Ti limiti semplicemente a cambiare l’oggetto della tua fede, ma la professione di fede rimane: la stessa mente che crede! Ti dico di lasciar cadere ogni fede e di iniziare a vedere. È una tua comprensione la sensazione che sia pattume? In questo caso non chiederesti come fare per liberartene: nessuno chiede come fare a liberarsi dall’immondizia. Vedere che è immondizia è liberarsene; riconoscere che è immondizia è liberarsene! L’immondizia non si aggrappa a te… tu ti aggrappi a lei! L’immondizia non si preoccupa minimamente di te, se te ne liberi, non protesterà, non dirà una sola parola. Perché qualcuno si aggrappa a qualcosa? Perché in cuor suo continua a credere che sia preziosa.

Domanda: “Perché ho la sensazione che mi manchi qualcosa?”

Perché fin dalla tua infanzia ti è stato insegnato che sei intrinsecamente indegno. Il valore deve essere conseguito, il merito deve essere provato. E il modo migliore per distruggere un bambino è annientare la sua fiducia in se
stesso. Per distruggere la fiducia che il bambino ha in se stesso, gli devi dimostrare che il merito non è un dato di fatto, deve essere conseguito nella vita e lo si può mancare. Se non lavori, se non sei oltremodo ambizioso, se non lotti allora non otterrai. Sei stato condizionato a essere violento, ambizioso, pieno di desideri: avere più soldi, avere più potere, avere più prestigio. Poiché ti è stato detto che, da un punto di vista intrinseco, non hai alcun valore, è sorto questo problema. Ma io affermo che voi siete meritevoli in voi stessi, nascete in quanto Buddha. Siete inconsapevoli della realtà del vostro essere, ma voi siete divinità nascoste.

Avete creduto troppo ai vostri genitori, ai vostri insegnanti e avete
raccolto qualsiasi cosa vi abbiano detto. È immondizia, ma vi siete tirati dietro quel pattume così a lungo che ora lasciarlo cadere d’acchito sembra impossibile. Io vi dico: liberatevene, e siate dei Buddha da questo preciso istante! Non si tratta di realizzare, si tratta solo di essere coscienti, all’erta, svegli… non è affatto qualcosa da conseguire.

E a questo punto, tu mi ascolti… una parte della tua mente dice: “Certo, il Maestro deve aver ragione!”. Quando mi sei vicino, inizi a sentire che è vero. Quando ti allontani, la mente ripiomba in scena e ti sopraffà ed ovviamente, è molto potente, per questo distrugge la tua intelligenza.

L’intelligenza non ha nulla a che vedere con la mente; l’intelligenza ha a che fare col cuore. È una qualità del cuore, mentre l’intelletto è una qualità della mente, è cerebrale. Il tuo intelletto è carico di immondizia, e io sto
cercando di risvegliare la tua intelligenza. L’intera società ha cercato di renderti inconsapevole della tua intelligenza. Essa è contro l’intelligenza: vuole che voi siate mediocri, perché solo le persone mediocri possono essere buoni schiavi. Non vuole che siate intelligenti, ma stupidi, perché
solo gli stupidi possono essere dominati. Intelligenza vuol dire che iniziate
a pensare in prima persona, iniziate a guardarvi intorno con i vostri occhi. Non crederete più ai profeti, ai testi sacri, crederete solo alla vostra esperienza. Esperimenta, medita, fai esperienza… se non diventa una tua comprensione, non servirà a nulla.

Perché ti manca qualcosa? Perché ti è sempre stato ripetuto che devi
trovare qualcosa. E poiché tu non lo trovi, ecco che sorge in te la sensazione che ti manchi qualcosa. E io ti dico che lo possiedi già! Guarda semplicemente dentro di te, e troverai tesori infiniti di gioia, amore, estasi. Se guardi dentro di te, vedrai che non ti manca nulla; ma se continui a cercare all’esterno, ti sentirai sempre più frustrato. Man mano che invecchi, avrai la sensazione che ancora non hai trovato nulla. E l’ironia della storia è che non hai mai perso nulla. È sempre stato dentro di te. Ma non credermi, io non sono qui per creare dei fedeli, sono qui per aiutarti a sperimentare. Nel momento in cui diventa la tua esperienza, ti libera. La verità libera. Certo, la verità libera, ma la verità deve essere vostra. Nessuna verità di qualcun altro potrà mai liberarvi…

Concludendo io non posso aiutarti a liberarti da questa immondizia, posso solo aiutarti a essere più consapevole. E se sei consapevole quella immondizia cadrà da sola. Un giorno, all’improvviso, scoprirai che è scomparsa, che è svanita. Man mano che la consapevolezza acquista profondità, ogni pattume scompare…

L’Inno dell’amore e lo specchio

Amato Maestro, spesso leggo l’“Inno dell’amore”, nel Nuovo Testamento. A me sembra che questo sia esattamente il tuo messaggio.

Il messaggio di tutti i Buddha è sempre lo stesso, perché la verità è una. Milioni di dita possono indicare la stessa Luna.

Se parlo le lingue degli uomini e anche quelle degli angeli, ma non ho amore, sono un metallo che rimbomba, uno strumento che suona a vuoto.
Se ho il dono d’essere profeta e di conoscere tutti i misteri, se possiedo tutta la scienza e anche una fede da smuovere i monti, ma non ho amore, io non sono niente.
Se do ai poveri tutti i miei averi, se offro il mio corpo alle fiamme, ma non ho amore, non mi serve a nulla.

Chi ama è paziente e generoso.
Chi ama non è invidioso, non si vanta e non si gonfia di orgoglio.
Chi ama è rispettoso, non cerca il proprio interesse, non cede alla collera e dimentica i torti.
Chi ama non gode nell'ingiustizia, la verità è la sua gioia.
Chi ama tutto scusa di tutti ha fiducia, tutto sopporta mai perde la  speranza.

L’amore non tramonta mai: cesserà il dono delle lingue, la profezia,  passerà, finirà il dono della scienza.
La scienza è imperfetta, la profezia è limitata, ma verrà ciò che è perfetto ed esse svaniranno.

Quando ero bambino parlavo da bambino, come un bambino pensavo e ragionavo. Da quando sono uomo, ho smesso di agire così.
Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio; ma un giorno saremo a faccia a faccia dinanzi a Dio.
Ora lo conosco solo in parte, ma un giorno lo conoscerò come lui mi conosce.

Ecco dunque le tre cose che contano: fede, speranza, amore.
Ma più grande di tutte è l’amore. 

Queste sono le qualità essenziali di una persona religiosa. Chiunque abbia detto quelle cose deve essere stato un illuminato. Tuttavia, non continuare a ripeterlo, non limitarti a leggerlo: non è sufficiente. Mettilo in pratica. una preghiera non è qualcosa da leggere, bensì da vivere. Vivila!

Le scritture possono essere comprese solo se, come prima cosa, vengono messe in pratica. La gente fa l’esatto opposto: legge i testi sacri e cerca di comprenderli. Da un punto di vista intellettuale non è difficile capire queste
scritture, sono semplici. Le persone diventano veri esperti, maestri nel ripetere questi testi… e non vanno oltre. La poesia non ti può liberare, a meno che non diventi la tua esperienza personale.

Le tue interpretazioni rifletteranno sempre e soltanto te. Quando guardi in uno specchio, vedrai il tuo volto, vedrai te stesso. Non puoi vedere lo specchio, puoi solo vedere il tuo volto riflesso in lui. Sarai in grado di vedere lo specchio solo quando avrai perso il tuo volto, quando avrai perso la tua testa. Quando sarai diventato un nessuno, allora mettiti di fronte a uno specchio, e vedrai lo specchio e il suo riflettere, ma tu non verrai rispecchiato. Non sarai presente in quello specchio… prima di diventare un’assenza, non serve mettersi di fronte allo specchio. Ed è ciò che la gente continua a fare: legge la Bibbia, il Corano, il Dhammapada… e legge se stessa.

Non puoi capire Gesù, Mosè, Zarathustra… la tua “faccia” interferirà troppo. Non puoi affrontare direttamente i detti dei Buddha. Come prima cosa dovrai entrare in te stesso. “Non importa il nome del Buddha, chiunque le abbia dette era un Buddha!”. E io lo ripeto a te, perché anch’io lo so. Una volta che hai assaporato il vero, lo sai. In qualsiasi forma la verità si presenti, la riconosci immediatamente. Ma come prima cosa, diventane un testimone.

Solo un passo?

Domanda: “Amato Maestro, solo un passo?”

…di fatto, neppure quello… perché non dobbiamo andare da nessuna parte. Dico: “solo un passo” per consolarvi, perché se non ci fosse neppure un passo, sareste troppo perplessi. Riduco tutto al singolo passo, così che vi resti qualcosa da fare, perché voi capite solo il linguaggio del fare. Se dicessi: “Non si deve fare nulla, non si deve fare neppure un singolo passo”, sareste incapaci di dare un senso a ciò che dico. Un singolo passo! Serve solo a farvi capire che nessun agire è essenziale. Per conseguire l’essere, il fare è del tutto inessenziale. Non occorre fare neppure un passo”, perché non ci stiamo muovendo verso l’esterno. I passi sono necessari per muoversi all’esterno, non ne occorrono per entrare dentro di noi.

Fatalisti, esistenzialisti e le qualità dell’uomo nuovo

L’uomo è libero di scegliere. La libertà che l’uomo ha è, al tempo stesso, una
maledizione e una benedizione. Nessun altro essere ha la libertà di scegliere. Le vite di tutti gli altri esseri viventi sono predeterminate, meccaniche, automatiche, e questa è la parte orribile della loro realtà.
L’uomo non è ancora un essere, nel vero senso della parola. È solo un divenire, è sulla strada. Sta ricercando, indaga. Per questo non sa chi egli sia, come può conoscere chi egli sia? Prima che si possa conoscere, deve
accadere l’essere. E l’essere è possibile solo se scegli nel modo giusto, consapevolmente, in piena coscienza.

Quando una persona trova il proprio essere, è un Buddha. Ma il requisito fondamentale è questo: scegli la tua vita con consapevolezza. In ogni caso, devi scegliere. Tu non sei libero di non scegliere: perfino non scegliere diventerà una scelta. Alle moltitudini che si perdono, ciò accade perché non
scelgono, perché si limitano ad aspettare e a sperare che qualcosa accada; e alla fine nulla accade mai.

Nel mondo esistono due scuole di filosofi. Una crede che l’uomo sia nato come essenza, che nasca già pronto, fatto e finito… questa è l’idea dei fatalisti. L’altra crede che l’uomo non sia nato in quanto essenza, ma solo in quanto esistenza. Questa scuola è quella degli esistenzialisti.

Qual è la differenza? L’essenza è predeterminata. Non hai alcuna
possibilità di creare te stesso, sei già fatto. L’esistenza invece non è già presente, è un divenire: devi trovare mezzi e modi per diventare, per essere. La nascita fisica non è la vera nascita; per essere devi prima rinascere un’altra volta. Ovviamente per rinascere non occorre morire fisicamente, devi morire in quanto ego, in quanto personalità; in quanto passato; devi morire in quanto mente, solo quando si muore come mente, si nasce come essere.

Il primo dono della vita avviene attraverso i genitori, il secondo dono dovete darvelo voi stessi. Ci sono tre dimensioni da potere scegliere. Se scegliete una dimensione, conseguirete una particolare integrità, ma
poiché è unidimensionale, non sarà totale. La prima dimensione è quella della scienza, del mondo oggettivo, degli oggetti, delle cose. La seconda dimensione è l’estetica: il mondo della musica, della poesia, della pittura, della scultura, il mondo dell’immaginazione. E la terza dimensione è quella della religione… soggettiva, interiore. Scienza e religione sono polarità opposte: la scienza è estroversa, la religione è introversa. E tra le due si estende il mondo dell’estetica. È il ponte: È scientifica, nel senso che l’arte crea oggetti, ed è religiosa nel senso che, qualsiasi cosa l’arte crei, come
prima cosa viene visualizzata nell’essere interiore di una persona.

Io propongo la quarta via. Il vero uomo sarà simultaneamente tutte e tre le cose: sarà uno scienziato, un artista, e un religioso. E definisco questo quarto uomo “l’uomo spirituale”. Buddha è un Maestro del regno interiore, ma non dà un contributo al mondo, Albert Einstein non contribuisce per nulla riguardo al regno interiore. Il mio sforzo è creare la quarta via: un uomo che riunisca in sé tutte e tre queste dimensioni della vita, che abbia tanta mente logica, quanta ne occorre per essere scientifici, ma che abbia anche tanta poesia, quanta ne occorre per avere senso estetico, e che
abbia anche tanta meditazione e presenza attenta, quanta tutti i Buddha hanno proposto. Il quarto uomo è la speranza del mondo.

Osservare costantemente la mente

Lo sciocco è incurante.
Ma colui che è sovrano della propria vita coltiva con costanza la propria osservazione: è il suo tesoro più prezioso.

Buddha definisce “sciocco” l’uomo, non perché sia ignorante, ma se è inconsapevole, se si comporta inconsapevolmente, se vive nel sonno. Inconsapevolezza = assenza di presenza cosciente. L’essere inconsapevole si muove nella vita come un legno alla deriva, in balia dei venti. Non sa chi è, da dove viene, dove sta andando. Non possiede una ricerca cosciente dell’essere, della verità o della realtà. Si limita a seguire la massa, non ha alcuna idea del perché esiste, per quale scopo, né di cosa fa, e perché lo fa, ma si limita a reprimere il suo dubbio, perché gli crea disagio.

Buddha stesso non è molto colto, né lo è Gesù, né lo è Maometto. Essi sono
semplici, ma la loro semplicità sono tali da aver permesso loro di penetrare l’essenza più intima dell’essere. Sono riusciti a conoscere la propria verità, a raggiungere l’essenza più intima della loro esistenza. Essi sanno, ma non sono colti: la loro sapienza scaturisce da una osservazione attenta e consapevole. La vera sapienza nasce dalla meditazione, dalla presenza attenta, dalla consapevolezza, dall’essere totalmente coscienti, dall’osservazione, dall’essere un testimone.

Se vuoi veramente conoscere, dovrai lasciar cadere tutto il tuo sapere, dovrai tornare a essere simile a un bambino, assolutamente all’erta. Lo sciocco non può stare disoccupato neppure per un solo istante, e questo perché quando non fa nulla, quando è solo, inizia a confrontarsi con se stesso… e la cosa lo terrorizza. Non vuole scendere nell’abisso del proprio essere. Si aggrappa al mondo esterno perché in esso egli è qualcuno. Nel mondo interiore non è nessuno. Prova a osservare la gente! Di fatto è il maggior spettacolo che esista: mettiti sul lato della strada e osserva
semplicemente i passanti. Cosa fanno? Perché lo fanno? Inseguono ombre, inseguono cose di cui non hanno bisogno, si impegnano in sforzi sovrumani per conseguire qualcosa e, una volta raggiuntala, non sanno cosa farsene. E poi osserva te stesso – cosa fai tu? E perché? Stai facendo lo stesso?

L’uomo saggio si muove con determinazione, compie ogni passo in piena coscienza. La sua vita è una costante ricerca del vero. Non è mai dispersivo; rimane all’erta in ogni sua azione… non a causa degli altri; è all’erta perché solo così acquisterà una integrità. Lo sciocco è incurante. Il saggio è attento: attento a se stesso, alla propria vita, e anche agli altri. Si prende cura di
ogni cosa, perché valorizza la propria vita e quella degli altri.

Osserva la gente e osserva te stesso, e ti stupirai di quanto inconsapevoli siamo! Quanto siamo disattenti! Non ascoltiamo cosa viene detto, non vediamo ciò che abbiamo davanti agli occhi. I nostri occhi sono annebbiati, le nostre menti confuse, i nostri esseri non hanno alcuna chiarezza.
Continuiamo a dire cose che non avremmo mai voluto dire, e poi soffriamo a causa loro. Continuiamo a fare cose – perfino mentre le facciamo, non vorremmo farle, eppure continuiamo… una forza inconscia continua a spingerci. A volte decidiamo perfino di non fare una certa cosa, di non dire una certa cosa – ma poi la facciamo, anche se contrasta con la nostra decisione. Non abbiamo alcuna determinazione, non abbiamo alcuna risolutezza, non abbiamo alcuna volontà.

Lo sciocco è incurante.
Ma colui che è sovrano della propria vita coltiva con costanza la propria osservazione: è il suo tesoro più prezioso.

Lo sciocco resta uno schiavo degli istinti, dei desideri inconsci, dei capricci, schiavo della società in cui è nato, schiavo delle mode. Si limita a collezionare gesti imitativi… se il vicino compra una casa in collina, deve comprarla anche lui. Troverà difficoltà a mettere insieme i soldi, forse dovrà prendere del denaro in prestito, gli ci vorranno anni per pagare il debito, ma deve comprarla. Il suo ego è ferito.

L’uomo che osserva diventa padrone della propria vita. Vive in funzione della propria luce, non in base alla vita degli altri. Vive in funzione dei propri bisogni. Se sei saggio, se osservi in piena coscienza, vivrai una vita appagata, semplicissima e attorniato da pochi oggetti. Continuate a
osservare… qualsiasi cosa vi sia necessaria, abbiatela; e qualsiasi cosa non vi sia necessaria, dimenticatevene. Prima di iniziare a desiderare una cosa, pensateci tre volte… e rimarrete sorpresi: su cento cose che desiderate,
novantanove sono assolutamente inutili, servono solo a tenervi occupati, a tenervi lontani da voi stessi; quella è la loro unica funzione. Sono pericolose: ed è a causa di queste cose inutili che sprecherete la vostra vita.

…colui che è sovrano della propria vita coltiva con costanza la propria osservazione…

Vivi osservando attentamente e non verrai intrappolato. Vivi inconsapevolmente e verrai intrappolato a ogni passo; la tua vita diventerà una prigione. E nessuno ne sarà responsabile, a eccezione di te. Il saggio, qualsiasi cosa fa, la fa con piena consapevolezza. Qualsiasi cosa fate voi, la fate praticamente da automi, meccanicamente. Dovrete deautomatizzare voi stessi. E la meditazione non è altro che questo: un processo di
deautomatizzazione.

La luce della consapevolezza che rende preziose le cose, le piccole cose
non sono più piccole, anche un comune sasso sulla spiaggia diventa un diamante. Se invece tocchi un diamante nel tuo stato di inconsapevolezza, si riduce a un sasso. La tua vita avrà tanta profondità e tanto significato, quanta sarà la tua consapevolezza.
Oggi, in tutto il mondo, la gente chiede: “Qual è il significato della vita?”. Ovviamente, il significato è perduto perché avete perso la strada, e quella
strada si chiama consapevolezza… il suo tesoro più prezioso.

Egli non si lascia mai sedurre dal desiderio. Egli medita.

Cosa intende Buddha con “desiderio”? Nella terminologia di Buddha, il desiderio è la mente. Desiderio significa non essere qui e ora, significa spostarsi altrove, indica i mille modi con cui si sfugge dal presente. Come crei il futuro nella tua mente? Desiderando che vuoi fare qualcosa domani devi creare un domani psicologico. Il desiderio ti allontana dal qui e ora, e il qui-e-ora è la sola realtà. Per questo Buddha dice: Egli non si lascia mai sedurre dal desiderio. Non si sposta mai nel futuro, vive nel presente. L’uomo che vive nel futuro, vive una vita falsa. Non vive veramente, finge solo di vivere. Spera di vivere, desidera vivere, ma non vive mai. E il domani non arriva mai… è sempre e solo oggi, è sempre e solo qui e ora, Quell’uomo non sa come vivere qui-e-ora; sa solo fuggire dal qui-e-ora. La via per fuggire è chiamata “desiderio”, “tanha”… questa è la parola che Buddha usa per indicare la fuga dal presente, dal reale all’irreale.
L’uomo che desidera è un escapista. La cosa stranissima è che i meditatori vengono ritenuti escapisti perché si sostiene che si tratta di una fuga dalla
realtà. E’ una assurdità: meditazione significa uscire dal meccanismo desiderio, uscire dai pensieri, dalla mente, rilassarsi nel momento presente. Egli torna a riportare se stesso al presente, continuamente e ripetutamente. In continuazione la mente torna a mettersi in funzione, e sempre egli la riporta al presente. Pian piano, inizia ad accadere: la finestra si schiude, per la prima volta vedi il cielo per ciò che è, per la prima volta senti il vento, la pioggia e il sole nella loro immediatezza, perché tu diventi meditativo. Inizi a toccare la vita. In questo caso, la vita non è più una parola, bensì una realtà tangibile che è appunto qui e ora. La meditazione è uno stato di non-mente è la sola via che può condurti oltre ciò che sei, il solo modo per trascendere se stessi.

Il Buddha chiama la meditazione “Sammasati”, ma nelle lingue occidentali non esiste una traduzione che ne comprenda tutte le sfumature. È stato tradotto come “meditazione”, come “giusta presenza attenta”, come “presenza cosciente”, come “consapevolezza”, come “stato di all’erta”, come
“osservazione cosciente”. “Sammasati” significa: è presente la consapevolezza ma senza un contenuto. Non c’è pensiero, nessun desiderio,
nulla che si agiti dentro di te. Non stai contemplando e neppure sei concentrato su un oggetto in particolare, non stai facendo nulla di nulla. La mente è assolutamente vuota, e tu sei semplicemente presente in quel vuoto. Una sorta di presenza, una presenza pura, senza alcuna meta da
raggiungere… assolutamente rilassato in te stesso, a riposo, a casa. Quello è il significato che Buddha dà alla parola “meditazione”.

Egli non si lascia mai sedurre dal desiderio.
Egli medita.
E nella forza del suo proposito scopre la vera felicità

La beatitudine è vera felicità. Ciò che voi definite felicità è semplice miseria, sotto mentite spoglie. Ciò che definite felicità, non è altro che piacere, svago,
divertimento. È momentaneo, non può essere vero. La verità deve avere una qualità, e cioè il sapore dell’eterno. Se qualcosa è vero, è eterno; se è falso, è momentaneo. La vera felicità si trova solo quando la mente arresta
del tutto le proprie funzioni.

Egli vince il desiderio e dalla torre di saggezza guarda verso il basso con distacco imparziale la folla immersa nell'afflizione.
Egli guarda verso il basso coloro che vivono attaccati al suolo

Allorché si diventa un Buddha – vinto il desiderio, vinta la mente, vinto il tempo, trasceso l’ego – non si è più parte di questa Terra. Si vive ancora sulla Terra, ma l’anima si libra così in alto che, dalle vette assolate del suo essere, il Buddha può vedere la folla disperata che vaga nelle valli oscure della vita muovendosi a tentoni, ubriaca, lottando, persa nell’ambizione, nell’avidità, nella rabbia, nella violenza… un vero e proprio spreco di opportunità immense. Nel suo essere affiora un’immensa compassione..

Passione vuol dire usare l’altro come uno strumento… Usare qualcuno
come uno strumento… significa sfruttarla. Quando inizi a meditare, ti sposti su un secondo livello, il disincanto e l’amore scompare. Per un momento, in quell’intervallo, l’uomo che si sta incamminando verso la Buddhità, diventa assolutamente freddo, privo di qualsiasi passione.
E poi si raggiunge il terzo stadio, cioè quando si è conseguita la beatitudine e l’amore ritorna…

Con presenza cosciente tra gente incosciente, risvegliato mentre gli altri sognano, veloce come un cavallo da corsa egli distanzia la folla.

Un Buddha è risvegliato. Perfino mentre dorme non sogna. Quando il desiderio scompare, scompaiono anche i sogni. I sogni sono desideri tradotti nel linguaggio del sonno. Un Buddha dorme in piena consapevolezza. Noi dormiamo anche quando siamo svegli: egli è
sveglio anche quando dorme.

Con l’osservazione Indra divenne il re degli dei.
Quale meraviglia è l’osservazione, quale follia è dormire.
Il bhikkhu che osserva con attenzione la propria
mente e disdegna la caparbietà dei propri pensieri
distrugge col fuoco della propria coscienza vigile
tutti i vincoli del mondo.

La meditazione è fuoco: arde i tuoi pensieri, i tuoi desideri, i tuoi ricordi; incenerisce il passato e il futuro. Brucia la tua mente e l’ego. Ti sottrae tutto ciò che pensi di essere. È una morte e una rinascita. Rinasci di nuovo. Perdi totalmente la tua identità, e consegui una nuova visione della vita.

La mente è confusione. Pensieri e pensieri… dentro di te, esiste una folla che rumoreggia, una continua lotta fratricida. I pensieri lottano tra
loro, i pensieri vogliono tutti che tu li appaghi. È una gran confusione… ed è ciò che tu definisci “mente”. Ma se sei consapevole che la mente è confusione, e non ti identifichi con la mente, non cadrai mai. La mente diventerà impotente; e poiché tu osserverai incessantemente, le tue energie si allontaneranno dalla mente e non le daranno più alcun nutrimento. E allorché la mente morirà, tu nascerai come non-mente. Quella nascita è l’illuminazione, ti porta per la prima volta nella regione in cui dimora la pace. Altrimenti, rimarrai un inferno, come adesso. Ma se prendi una decisione, se decidi, se scegli la consapevolezza, in questo
preciso istante puoi fare un salto, un balzo dall’inferno al paradiso.

L’inferno non costa nulla. Il paradiso richiede un grande sforzo, perseveranza, determinazione. L’inferno significa che puoi restare inconsapevole, puoi restare così come sei. Il paradiso significa che devi elevarti al di sopra di te stesso, devi trascendere. Devi spostarti dalle valli verso le vette. Osserva, sii consapevole, medita, e un giorno ti troverai su quei picchi assolati. Quella è liberazione, quello è Nirvana… l’arresto dell’ego e la nascita di Dio. Voi tutti avete le qualità per essere divinità. Ascoltate Buddha; e non limitatevi ad ascoltare lui, agite, dedicatevi a una vita di consapevolezza, osservate costantemente.

Estetica, scienza e religione: le tre dimensioni dell’essere.

Con la parola “estetica” qui si intende una qualità del tuo essere, una sensibilità per il sapore delle cose una consapevolezza di tutto quello che sta intorno a noi (non solo oggetti), per esempio si intende anche un silenzio che ascolta questo cuculo che chiama da lontano… è l’essenza più intima dell’esistenza. L’estetica non è altro che un approccio artistico nei confronti della vita, una visione poetica. Significa vedere i colori con tanta totalità che ogni albero diventa un quadro, ogni colore è più intenso, tu non ignori più la luminosità delle cose, resti all’erta e consapevole in questo modo riesci ad accogliere in te l’intera esistenza. E’ questo l’approccio estetico alla vita.

E’ inclusa anche la musica, non solo i colori. Un uomo può esistere in quanto caos, oppure come un cosmo. La musica è il sentiero che conduce dal caos al cosmo. Un uomo può esistere in quanto disordine (caos) o come un sacro silenzio, in cui si ode una musica celestiale che sgorga da se stessa. È presente nel tuo essere; non devi andare da nessuna parte, per sentirla, è la musica del tuo stesso essere, il mormorio della tua stessa esistenza (cosmo). Se non riesci a sentirla, sei sordo. Devi diventare un artista della vita.

Una donna cieca e sorda dovette trovare nuovi modi per sentire la vita. E a volte le disgrazie si rivelano benedizioni. Quella donna toccava l’acqua, e ne sentiva la quiete, il fluire, la vita, la vibrazione. Voi non la sentirete mai, poiché siete in grado di vedere l’acqua. Poiché lei non poteva vederla, poteva solo percepirne la trama… voi potete vedere, e ve la lasciate
sfuggire, non ne sentite la sostanza, la trama interiore. A volte può essere incredibilmente significativo chiudere gli occhi e toccare semplicemente una pietra, Rimarrete sorpresi… preparatevi a una grande meraviglia. Per la prima volta vedrete la trama della pietra, nella dimensione che le è
propria. Poiché quella donna non aveva occhi, né orecchie, possedeva un senso estetico sviluppatissimo. Era un artista della vita.

Un altro esempio a proposito del diventare artisti della vita ce lo rende lo psicologo Jung: egli sosteneva che se eri in grado di dipingere i tuoi incubi te ne liberi più facilmente. Qualsiasi cosa venga fatta affiorare alla sfera cosciente dall’inconscio, implica un liberarsene. Invece per secoli ci è stato detto di reprimere le paure, facevamo l’esatto opposto, affondavamo il cosciente nell’inconscio, poteva sembrare di essercene liberati, ma di
fatto non era così. In realtà, quelle cose sono scese più in profondità dentro di te, sono affondate in te ancor più profondamente. E ti creeranno ancor più preoccupazioni. Adesso ti controlleranno dall’inconscio, e tu non ne sarai neppure consapevole.

Dipingere significa far affiorare i tuoi sogni alla luce. Ho la sensazione che, se a Picasso fosse stato impedito di dipingere, sarebbe impazzito. I suoi quadri lo hanno salvato… ma di certo i suoi quadri hanno la qualità della follia. Se vivi in una stanza in cui su tutte le pareti sono appesi dipinti di Picasso, ci sarà l’enorme pericolo che quei quadri provocheranno la tua follia. Pertanto, puoi evitare le gallerie d’arte, ma non puoi scavalcare la dimensione estetica del tuo essere, altrimenti rimarrai impoverito, qualcosa in te mancherà.

dovete essere degli esteti, ma per avvicinarsi al mondo oggettivo, nel modo giusto, la sola metodologia da usare è la scienza. Se la Bibbia dice che la Terra non è rotonda, ma piatta, non credeteci: siate scientifici. La Bibbia non ha alcun diritto di dire alcunché su una cosa oggettiva; è un libro religioso, ha una propria dimensione… non confondete queste dimensioni.

A causa di questa confusione, è sorto un forte conflitto tra scienza e religione. Non è necessario: la scienza ha un proprio regno, un proprio territorio. Dapprima furono i preti che iniziarono a interferire con la scienza; ora la storia si ripete nell’ordine opposto… adesso gli scienziati cercano di interferire col mondo della religione. Sarebbe altrettanto stupido chiedere a un grande poeta qualcosa sulla tua malattia solo perché è un grande poeta, infatti non andrai da un grande poeta a farti fare una diagnosi, solo perché è famoso! Andrai da un dottore, che potrebbe non essere affatto un poeta. Lo stesso concetto è altrettanto vero a proposito dello scienziato che non ha nessun diritto di dire alcunché sulla sfera interiore dell’essere umano che è una dimensione religiosa.

Nell’antichità tutti i testi sacri contenevano affermazioni non scientifiche, per una ragione ben precisa: all’epoca non esisteva una scienza in quanto fenomeno separato. I testi religiosi erano gli unici disponibili; pertanto, in essi si raccoglieva ogni cosa: qualsiasi sapere veniva raccolto nelle scritture. Ora la scienza ha un proprio mondo.

Per concludere vorrei che voi foste scientifici per ciò che riguarda
il mondo e per ciò che riguarda la realtà interiore, siate religiosi. Tra questi due mondi ne esiste un altro, un mondo crepuscolare, in cui la sfera oggettiva e quella soggettiva si incontrano: è il mondo dell’estetica. In
quel caso, siate un artista, un musicista, un poeta. Adempiendo tutte e tre queste dimensioni, diventerete esseri spirituali; arricchendovi in tutte e tre queste dimensioni, diventerete il quarto uomo, l’uomo spirituale.

Il rilassamento

Il rilassamento totale è il massimo. È il momento in cui si diventa un Buddha. È il momento in cui ci si realizza, ci si illumina, si consegue la consapevolezza. Inizia a rilassarti. Parti dalla circonferenza, è lì che esistiamo, e possiamo iniziare solo dal punto in cui siamo. Rilassa la circonferenza del tuo essere cioè il tuo corpo, rilassa il tuo comportamento, rilassa le tue azioni. Cammina in maniera rilassata, mangia in maniera rilassata, parla in maniera rilassata. Rallenta ogni processo. Non aver
fretta e non essere in furia. Muoviti come se l’intera eternità fosse a tua disposizione.

Tensione significa fretta, paura, dubbio ed un continuo sforzo per essere
sicuri, per essere protetti. Tensione vuol dire prepararsi oggi per il domani, essere timorosi che domani non si sarà in grado di confrontarsi con la
realtà, pertanto ci si prepara. Tensione vuol dire che il passato non è stato veramente vissuto, ma in qualche modo solo scavalcato (parzialmente vissuto); pertanto, ti è rimasto appiccicato, è un postumo, ti circonda, ti tortura, ti perseguita, attira la tua attenzione. Dice: “Cosa ne farai di
me? Sono ancora incompleta… completami!”. Questo succede perché ti sei mosso come un sonnambulo, hai camminato nel sonno. Pertanto il
passato resta in sospeso, e il futuro crea paura. E tra il passato e il futuro è schiacciato il tuo presente, la tua sola realtà.

Dovrai iniziare a rilassarti, partendo dalla circonferenza. Il primo passo è rilassare il corpo. Ricordati di guardare il corpo, osserva se esiste in lui qualche tensione, da qualche parte: rilassale consapevolmente. Vai
semplicemente in quella parte del corpo, e dille con amore: “Rilassati!”.
E ti stupirà, ma se ti avvicini così a qualsiasi parte del corpo, ti ascolta, ti segue: è il tuo corpo! Lascia che esista un dialogo tra te e il tuo corpo. Digli di rilassarsi, e digli: “Non c’è nulla da temere. Non aver paura. Io sono qui per prendermi cura di te – ti puoi rilassare”. Pian piano, imparerai questo trucco, e a quel punto il corpo si rilasserà. Allora fai un altro passo, un po’ più profondo: di’ alla mente di rilassarsi. E se il corpo ascolta, anche la mente ascolta, ma non puoi partire dalla mente – devi iniziare dal
giusto principio, dal corpo.

Se riesci a rilassare il corpo volontariamente, sarai in grado di aiutare la tua mente a rilassarsi volontariamente. Con la mente ci vorrà un po’ di più, ma
accade. Quando la mente è rilassata, inizia a rilassare il tuo cuore, il mondo delle sensazioni e delle emozioni… si tratta di un fenomeno ancor più complesso, ancor più sottile. Ma ora ti starai muovendo con grande fiducia, avrai una profonda fiducia in te stesso. Ora saprai che è possibile. Se è possibile col corpo e se è possibile con la mente, è possibile anche col cuore. E solo allora, solo quando hai superato questi tre passi, puoi fare il quarto. Ora puoi entrare nell’essenza più intima del tuo essere, che si trova oltre il corpo, la mente e il cuore: il centro stesso della tua esistenza. E potrai rilassare anche quella. Quel rilassamento di certo ti dona la gioia più grande che esista, l’estasi per eccellenza, l’accettazione.

Buddha ripeteva sempre: “Camminate molto lentamente, e fate ogni passo
in piena consapevolezza”. Se fai ogni passo con consapevolezza, inevitabilmente camminerai con estrema lentezza e si sprigionerà in te una qualità di consapevolezza nuova. Mangia lentamente e rimarrai sorpreso… insorgerà un profondo rilassamento. Fai ogni cosa molto lentamente… fallo, semplicemente per cambiare vecchi schemi, solo per uscire da vecchie abitudini.

Domandati se sei consapevole di una tensione profonda all’interno del tuo essere e che in realtà forse non sei mai stato rilassato. Questa è la situazione in cui si trova ogni essere umano. È un bene che tu ne sia consapevole: milioni di persone non ne sono consapevoli. Per il semplice fatto che ne sei consapevole si può fare qualcosa. Se non ne fossi consapevole, non si potrebbe fare nulla. La consapevolezza è l’inizio della trasformazione.

Il rilassamento è un fenomeno multidimensionale, ne fanno parte il lasciarsi andare, aver fiducia, arrendersi, amare, accettare, seguire il flusso, unione con l’esistenza, assenza di ego, estasi. Tutte queste iniziano ad accadere se apprendi le vie del rilassamento.

Seduto nella grotta del cuore

Come l’arciere lavora le sue frecce per renderle diritte,
così il Maestro orienta i suoi pensieri fuorvianti.
Come un pesce gettato a secco, si dibatte sulla riva,
tremano e si dibattono i pensieri.
Come potrebbero mai scacciare il desiderio?
Tremano, sono instabili, vagabondano a loro piacimento.
È bene controllarli.
E padroneggiarli porta felicità.
Ma quanto sono sottili, quanto elusivi!
Il compito è acquietarli, e governandoli trovare la felicità.
Con determinazione costante il Maestro doma i suoi pensieri.
Arresta il loro andirivieni.
Seduto nella grotta del cuore, egli trova la libertà.

La libertà è la meta della vita. Con “libertà” si intende la libertà dal tempo, libertà dalla mente, libertà dal desiderio. Nel momento in cui la mente non è più, sei unito all’universo, sei vasto quanto l’universo stesso. La mente è l’ostacolo fra te e la realtà, e a causa di questa barriera, resti confinato in un cella oscura dove non arriva mai una luce, e dove non potrà mai penetrare gioia alcuna.

Buddha dice che “tanha”, il desiderio, è la causa alla radice di ogni nostra miseria, poiché il desiderio crea la mente. Desiderio vuol dire proiettare se stessi nel futuro, chiamare in causa il domani. Metti in gioco il domani, e l’oggi scompare, non lo puoi più vedere. Chiama in causa il domani e dovrai portarti dietro il peso di tutti i tuoi ieri, perché ogni desiderio nasce dal passato, e ogni desiderio è proiettato nel futuro. Tutta la tua mente è composta da passato e futuro; analizza la mente, scomponila, e vedrai
solo due cose: il passato e il futuro. Non vedrai una sola briciola del tuo presente. E il presente è l’unica realtà, la sola esistenza, l’unica danza che esista.

Il presente può essere trovato solo quando la mente si è acquietata completamente. Quando il passato non ti domina più, e il futuro non ti possiede più, quando sei sconnesso dai ricordi e dalle immaginazioni… in quel momento, chi sei? In quel momento non sei nessuno. E nessuno ti può ferire quando non sei nessuno, non puoi essere colpito – mentre l’ego è dispostissimo a ricevere ferite. L’ego è praticamente alla ricerca di ferite,
cerca il modo di essere ferito; esiste attraverso le ferite: l’intera sua esistenza dipende dall’infelicità, dal dolore.
Quando sei un nessuno, non può esistere l’angoscia esiste un profondo silenzio; Il passato è svanito, il futuro è scomparso, cosa potrebbe creare frastuono? E il silenzio che si sente è celestiale, è sacro. Per la prima volta, in quegli spazi di non-mente, diventi consapevole della sostanza di
cui è composta l’esistenza.

Ad eccezione dell’uomo, l’intera esistenza è estatica. Solo l’uomo è uscito da quella sintonia, si è perso. Solo l’uomo può perdersi, perché solo lui possiede una consapevolezza. Infatti, la consapevolezza ha due possibilità:

1) diventare pura consapevolezza. Se potessi semplicemente mettere in disparte la mente, diventeresti consapevole del gioco cosmico. Allora sei solo energia, e l’energia è qui-e-ora, non lascia mai il qui-e-ora.
2) diventare conscio di te stesso. In questo caso cadi, diventi un’entità separata dal mondo. Diventi un’isola, definita, ben delimitata; sei
confinato, perché ogni definizione delimita.

Essere consci di sé diventa un limite; il sé è confinato; mentre la semplice consapevolezza diventa libertà. Lascia cadere il sé, e sii consapevole! Il messaggio è tutto qui: questo è il messaggio di tutti i Buddha di tutte le
epoche, passate, presenti, future. L’essenza del messaggio è semplicissima: lascia cadere il sé, l’ego, la mente, e sii.

L’arte di mettere in disparte la mente racchiude in sé l’intero segreto della religione, poiché, ponendo la mente in disparte ti apri, e a quel punto l’intera bellezza dell’esistenza – che è infinita! – è tua. Il silenzio ti dà l’opportunità di fonderti, di scioglierti, di scomparire, di evaporare. E quando non sei, sei: per la prima volta, esisti. L’uomo è diventato conscio di sé: è qui che si è perso, questo è il suo peccato originale l’uomo mangia il frutto dell’albero della conoscenza. Quando mangi questo frutto, diventi conscio di te stesso.

Buddha nel Dhammapada, ripete due affermazioni. La prima: “Aes dhammo sanantano, questa è la legge suprema della vita”, e cioè che tu scompaia per trovare te stesso. Lasciando cadere il sé, si diventa il Sé supremo. E l’altra è: “Aes dhammo visuddhya, questa è la legge della purezza”, e cioè de-identificati dalla mente, non pensare a te stesso in quanto mente. Non che Buddha sia contro la mente, non che non la voglia usare, in realtà vuole usarla, ma non vuole esserne usato. E, di solito, si
verifica proprio questo: la mente ti sta usando. Sei diventato uno schiavo. Il padrone è diventato schiavo, e lo schiavo è diventato il padrone.

Le vostre società vi hanno insegnato a lottare,perché se non lotti verrai sopraffatto… Il termine usato da Buddha, “tanha”, implica tutti i significati di desiderio, ambizione, realizzazione. Questi sono i nutrimenti della mente. Se continuate a nutrire la mente, vi avvelenate. E la mente si ingigantirà sempre di più. E quando diventate consapevoli di essere voi le cause della vostra infelicità, le cose iniziano a cambiare. Non sosterrete più la vostra miseria, non le darete più nutrimento. E quando diventerete consapevoli di non essere la vostra mente, ma un testimone che la osserva, iniziate a elevarvi al di sopra della mente, non ne siete più impastoiati.

Questi sutra parlano di come diventare padroni della propria mente. Essi contengono la scienza del diventare il Maestro.

Come l’arciere lavora le sue frecce per renderle diritte,
così il Maestro orienta i suoi pensieri fuorvianti.

Sono i vostri pensieri a dirigervi, o siete voi a dirigere i vostri pensieri? Molto dipende da quell’intuizione. Sono loro a muovere le fila della vostra vita, e voi siete solo degli schiavi? Oppure, voi siete il padrone, e potete dire loro di fermarsi, ed essi vi obbediscono… siete in grado di accenderli e spegnerli? La gente non medita mai su questa realtà, perché li umilia tremendamente. Dimostra la loro impotenza: non sono neppure in grado di fermare i pensieri, i propri pensieri.

Una Parabola Tibetana:

Un uomo servì un Maestro per moltissimi anni. Il suo servizio non era puro, in esso c’era una motivazione: voleva strappare al Maestro un segreto. Aveva sentito dire che il Maestro possedeva… il segreto di fare miracoli. L’uomo aspettava questa opportunità. Disse: “Voglio il segreto per fare miracoli”. Il maestro disse: “Il segreto è molto semplice, ma perché non me lo hai detto subito? Eccotelo…”. Prese un pezzo di carta e scrisse un mantra, composto da sole tre righe: “vado ai piedi del Buddha, vado ai piedi della
Comune del Buddha, vado ai piedi del dhamma, la legge suprema”.
E il Maestro disse a quell’uomo: “Prendi con te questo mantra, ripetilo cinque volte, è sufficiente… è un processo molto semplice. Ricordati solo questa condizione: per ripeterlo, fai un bagno, chiudi la porta, siediti in silenzio… e mentre lo ripeti, per favore non ricordarti mai delle scimmie”.
L’uomo commentò: “Che assurdità dici? Perché mai dovrei ricordarmi delle scimmie? Non le ho mai ricordate in tutta la mia vita!”. L’uomo corse a casa, ma si sentì profondamente imbarazzato: già lungo la strada, nella sua testa erano iniziate a comparire delle scimmie. Ne vide di diversi tipi: piccole e grandi, con la bocca nera e con la bocca rossa… Ci provò per tutta la notte… tornò a farsi un bagno, e tornò a raccogliersi; ma invano, fallì miseramente.
Al mattino, andò dal Maestro, gli riportò il mantra e disse: “Tieniti questo mantra. Mi sta facendo impazzire! Non voglio più fare alcun miracolo, ma ti prego, aiutami a liberarmi da tutte queste scimmie!”.

È praticamente impossibile liberarsi da un singolo pensiero! Se te ne vuoi liberare, diventa ancor più difficile; perché quando decidi di liberarti da un pensiero sorge una questione che rende quel momento decisivo: chi è il
padrone? La mente o tu? La mente cercherà in ogni modo di dimostrare la propria signoria. Adesso lo schiavo non può rinunciare a tutti i suoi privilegi tanto facilmente. La mente ti opporrà una strenua resistenza. Tu ora ridi di quel poveretto, ma rimarrai sorpreso: tu sei quell’uomo!

La gente non guarda dentro di sé. Sa che è meglio non guardare dentro di sé, perché è estremamente umiliante. Vedere se stessi come uno schiavo è umiliante. E la mente è stata sul trono così a lungo che si è abituata a essere il padrone, e non lo è!
Sei nato in quanto consapevolezza, non come una mente. La tua essenza più intima è consapevolezza, non la mente. La mente non è altro che un cumulo di pensieri, pattume del passato. Tu sei qualcosa di totalmente diverso
da tutto ciò.
Osservandolo, pian piano ne vedi la distanza. In te sorge un pensiero, osservalo. Osservalo senza giudicare. Non essere né a favore né contro, guardalo semplicemente, proprio come fossi uno specchio che lo riflette. Una cosa diventerà ovvia: si tratta di qualcosa separato da te. Viene e va, e tu permani sempre. Il riflesso nello specchio non è lo specchio. Molti riflessi vanno e vengono, ma lo specchio rimane. Lo specchio è solo la capacità di riflettere. È presente un pensiero – rabbia, avidità, gelosia – è presente un pensiero, un pensiero qualsiasi… non sei tu!

Purtroppo l’intero nostro addestramento, tutto il nostro condizionamento, è fondamentalmente sbagliato. I nostri linguaggi sono fondamentalmente sbagliati, perché ci danno false nozioni. Quando vedi il pensiero della fame sorgere nella tua mente, subito dici: “Ho fame”, ed è una pura e semplice assurdità. La consapevolezza non ha nulla a che vedere con la fame, ciò che accade è questo: il corpo è affamato, tu ne sei consapevole. Ti limiti semplicemente a riflettere la situazione in cui si trova il corpo. Si dovrebbe dire: “Sono consapevole che il mio corpo ha fame, vedo che il mio corpo
ha bisogno di cibo”.

Uno dei più grandi mistici indiani visitò l’America, si chiamava Ram. Egli parlava sempre di sé in terza persona, non usava mai la parola “io”. Si limitava a chiamarsi “Ram”. Diceva: “Ram ha fame. Ram ha sete. Ram ha sonno”. Qualcuno che non aveva familiarità con questo modo di parlare, un giorno chiese: “Chi è questo Ram?”. E di nuovo lui disse: “Questo corpo è
Ram, questa mente è Ram, e io ne sono l’osservatore proprio come lo siete voi. Così come voi vedete questo corpo che corre nudo nel sole mattutino, anch’io lo osservo. Voi lo osservate dall’esterno, io lo osservo dall’interno… siamo tutti osservatori”. Questo è il modo per de identificarsi dalla mente: sii un osservatore!

Come l’arciere lavora le sue frecce per renderle diritte,
così il Maestro orienta i suoi pensieri fuorvianti.

Quando sei diventato un osservatore, quando hai ridotto i tuoi pensieri a
oggetti osservati, il contenuto della mente non è più potente. La mente è il meccanismo più sofisticato dell’intera esistenza, e la mente umana lo è più di qualsiasi altra. È la macchina più evoluta, può essere usata per grandi cose; ma tu devi esserne il padrone, solo allora la puoi usare. Il primo sforzo deve essere simile a quello dell’arciere che lavora le sue frecce, per renderle diritte. Le vostre menti sono in un caos, Osserva quanto sono contraddittori i tuoi pensieri. Una parte dice di sì, l’altra dice immediatamente di no, dire
sì e no nello stesso tempo è uno spreco di energia. Dicendo di sì e di no contemporaneamente, o alternativamente dove potrai mai arrivare? Rimarrai bloccato nello stesso posto. Raddrizza i tuoi pensieri.

“Il Maestro orienta i suoi pensieri fuorvianti”. Non permette ai
pensieri di guidarlo: è lui a dirigerli. A ogni passo del suo viaggio, egli è perfettamente consapevole di dove si trova; Ciò che definite “esseri umani
normali” non sono affatto normali. Certo, sono normalmente pazzi; sono affetti dallo stesso tipo di follia, per questo sono normali. Guardati semplicemente intorno, limitati a osservare la gente, e rimarrai stupito nel vedere lo stato di assoluta follia che viene riconosciuto come normalità.

Come un pesce gettato a secco, si dibatte sulla riva, tremano e si dibattono i pensieri.
Come potrebbero mai scacciare il desiderio?

I pensieri non possono vivere al di fuori dei desideri, così come un pesce non può vivere fuori dal mare. Fondamentalmente i pensieri sono strumenti di uno stato dell’essere che desidera. E noi desideriamo in
continuazione, desideriamo una cosa o l’altra. Non possiamo smettere di pensare, se continuiamo a desiderare. Come prima cosa si deve tagliare il desiderio, la radice in quanto tale. MA cosa c’è da desiderare nella vita? Coloro che hanno compreso, coloro che hanno realizzato la vita, affermano
che nella vita non c’è nulla che valga la pena desiderare. Vivila! Il desiderio ti porta fuori, lontano, è fuorviante, perché ti conduce nel futuro. Dovrai imparare a rilassarti nel momento presente.Non permettere a te stesso di spostarti dal presente.

La mente corre in continuazione da un oggetto all’altro, da una persona all’altra. Hai una moglie, ma la mente insegue le mogli altrui. Hai dei bambini, ma non ti sembrano mai belli come quelli degli altri. L’erba del vicino è sempre più verde… tutti sembrano più felici di te. Poi, ovviamente, fai un deduzione logica: “Essi hanno case più grandi, bambini più belli, una moglie più bella, più soldi, più potere, più prestigio, pertanto anch’io ho bisogno per essere felice”. Poni delle condizioni alla tua felicità. E nel
momento in cui un uomo pone delle condizioni alla sua felicità, è condannato: rimarrà infelice per il resto della sua vita. La felicità non è condizionabile: non occorre nulla per essere felici. Occorre solo essere vivi – e lo sei, tu sei già vivo! Occorre solo essere consapevoli – e tu lo sei già.
Pertanto, i mistici e i Buddha affermano che la beatitudine è la nostra stessa natura. Ma la mente è un corridore e continua a trascinarti al suo seguito…

La mente è sempre in giro che corre. Non si siede mai, non si può sedere, perché le parrebbe di morire, La gente zen dice di sedere semplicemente in silenzio, senza fare nulla. La cosa più difficile al mondo è sedere semplicemente in silenzio senza fare nulla. Se continui a sederti per alcuni
mesi, senza far nulla, molti pensieri si affolleranno nella tua mente,
molte cose accadranno e la mente dirà: “Perché sprechi il tuo tempo? La mente ti darà mille e un argomento, farà tutto ciò che è possibile per spingerti a non stare semplicemente seduto. Ma se persisti, se perseveri, un giorno sorgerà il Sole. Un giorno accade, non ti senti assonnato, la mente si è stancata di te, è stufa di te, ha lasciato cadere l’idea di poterti intrappolare, e semplicemente la fa finita! E tutto è silenzio,

Tremano, sono instabili, vagabondano a loro piacimento.
È bene controllarli.
E padroneggiarli porta felicità.

Osserva, e vedrai la mente tremante, i pensieri che si agitano e si inseguono l’un l’altro, che corrono in tutte le direzioni possibili: logici, illogici, significativi, insignificanti.
Prova, un giorno, a sederti in camera tua, chiudi la porta e inizia a scrivere i pensieri che affiorano in te. Scrivi qualsiasi cosa affiori per quindici minuti,
continua a scrivere, poi leggi, e rimarrai perplesso: sei pazzo o cosa? Ogni
cosa porta a qualsiasi altra, e il tutto è puramente casuale. Se osservi i pensieri, capirai quanto sia vero quello che dice Buddha:”Tremano, sono instabili, vagabondano a loro piacimento…”, non ti ascoltano, hanno una volontà propria e insistono per restare se stessi. Non vogliono essere confusi con altri, che tu interferisca. Se interferisci, resiste, protesta. E questi milioni di pensieri che fluttuano nella tua testa distruggono la tua
individualità, perché tutti rivendicano la propria. Se non vengono controllati, dice Buddha, non ti potrà mai accadere alcuna beatitudine. Rimarrai in un caos, rimarrai immerso nella confusione.

Libertà significa avere il controllo sulla propria mente, sulla tua cosiddetta mente, che non è tua, perché ti è stata data dagli altri, in singoli frammenti, infatti tu, in prima persona, non sai cosa sia giusto e cosa sia sbagliato; giudichi in base a ciò che dicono gli altri. Dovrai diventare più consapevole, più attento, osservare di più. Se osservi con attenzione, rimarrai sorpreso: non hai una mente davvero “tua”: tutto è preso in prestito! Diventi un essere umano solo quando inizi a riflettere sulle cose in prima persona, direttamente. Quando osservi.

Ma quanto sono sottili, quanto elusivi!
Il compito è acquietarli, e governandoli trovare la felicità.

Non è un lavoro semplice. È arduo, perché la mente è oltremodo astuta e i pensieri sono molto sottili. La mente è astutissima, riesce sempre a trovare nuovi modi per restare la stessa vecchia mente di sempre. State attenti! La mente non è un fenomeno semplice, è molto complesso, sottile, estremamente elusivo. Se cercate di afferrarlo, vi troverete in difficoltà. Se lo spingete fuori dalla porta principale, rientrerà dal retro. Se la volete
controllare e reprimere, inizierà a operare dall’inconscio – la qual cosa è ancor più pericolosa – perché anche in quel caso vi controllerà, ma ne sarete del tutto inconsapevoli. Il compito è acquietarli… pertanto, ricordatelo, non si deve reprimerli, non devono essere inseguiti e presi! Il
compito è acquietarli, e governandoli trovare la felicità. È acquietandoli che si governano, non è governandoli che si acquietano.

Come prima cosa dovete acquietarli, come prima cosa dovete fermarli.
E per fermarli, si devono semplicemente osservare in silenzio, senza giudizio, senza dire: “Questo è buono, questo è cattivo”. Nel momento in cui li definisci “buono”, oppure “cattivo”, sei balzato nel pantano.

Sii innocente! Osserva semplicemente, osserva entrambe le cose. Una parte della mente dice: “Uccidi quell’uomo, ti ha insultato!”. Un’altra parte della mente dice: “Questo è male, questo è immorale. Precipiterai nell’inferno, soffrirai nella tua prossima incarnazione, verrai punito!”. Sappi che anche questo secondo pensiero è parte della mente, e non c’è scelta tra due frammenti della stessa mente. Osservali entrambi, goditi entrambe le cose.
Osserva la contraddizione della mente, non identificarti con nessuna delle due parti. Ricorda, l’ego vuole essere identificato con la parte buona, la parte morale. Si sente a meraviglia: “Guardate, io sono contro l’assassinio!

L’uomo veramente libero è libero sia dal bene che dal male. È oltre il bene e oltre il male. È semplice consapevolezza, null’altro che questo. Egli osserva
semplicemente. E se anche tu riesci semplicemente a osservare, senza essere identificato, pian piano vedrai che la tua mente si acquieta, e in quell’acquietarsi sta il tuo potere.

Con determinazione costante il Maestro doma i suoi pensieri.               Arresta il loro andirivieni. 
Seduto nella grotta del cuore, egli trova la libertà.

All’improvviso, quando la mente non esiste più, entrerai nel cuore. Scivoli fuori dalla mente, fuori dalla presa della mente. E a quel punto, il cuore, la grotta del cuore, sarà il tuo palazzo. Ciò è possibile solo se operi con determinazione e costanza nell’acquietare la mente, nell’essere consapevole
della mente, nell’essere assoluta osservazione, senza alcun giudizio e senza alcuna identificazione.

Né passato, né futuro

Dice Buddha: così come l’ombra ti segue, il futuro ti segue. Se il tuo presente è orribile, il futuro sarà un inferno; se il tuo presente è bello, il futuro sarà un paradiso. L’insegnamento è semplicissimo, dritto al punto essenziale: vivi momento per momento, muori al passato, non proiettare alcun futuro godi il silenzio, la gioia, la bellezza di questo momento. E da questo, nascerà quello. Nasce spontaneamente.

Ferma la mente, spegni il desiderio

Esistono tre modi di agire di fronte al desiderio nei riguardi di oggetto sensuale (che soddisferebbe uno o più dei nostri cinque sensi: 1 – rimanere con la sensazione di disagio che inevitabilmente si verrebbe a a creare 2- sforzarsi ad evitare anche solo di avere questo desiderio 3 – continuamente abbandonarsi ad esso.

Bisogna avere la capacità di acquisire la consapevolezza di possedere un desiderio insoddisfatto e di rimanere con la sensazione di disagio che inevitabilmente si viene a creare. Non bisogna sforzarsi ad evitare anche solo di avere dei desideri e cercare spasmodicamente la maniera di come fare per non averli o giudicarsi con troppa severità per il fatto di averli. Nemmeno continuamente abbandonarsi ai desideri sviluppando volta per volta maggiore attaccamento fino a diventarne totalmente dipendente è la maniera corretta di agire.

Le ultime due modalità di atteggiamento sono due vie estreme, in entrambi i casi conducono alla sofferenza, ad una sensazione di maggiore disagio. Nel caso avessimo ceduto per esempio possiamo sviluppare anche un senso di colpa, perdere fiducia in noi stessi per avere ceduto. Nel caso invece ci sforzassimo di rinunciare al desiderio otterremo l’effetto di dare un importanza sempre maggiore all’oggetto non avendo compreso che il problema non è l’oggetto in se stesso, ma è il nostro desiderio, è come la nostra mente lo percepisce, come si illude che si possa trovare felicità duratura in un oggetto che una volta conseguito si esaurisce e ci lascerebbe con la sensazione di insoddisfazione e desiderio di provarlo nuovamente o provare qualcosa di più forte. Quella della consapevolezza, di accettare il desiderio, di riconoscere semplicemente: “Ecco! c’è questa sensazione”, è la via di mezzo, che non porta alla sofferenza.

A livello pratico si tratta di riconoscere che è normale e umano possedere un desiderio e che se questo rimane insoddisfatto ci condurrebbe ad una sensazione di disagio. Quello che bisogna fare è riconoscerne il sorgere del desiderio ed accettare la sua esistenza nella nostra mente per un po’ e poi lasciarlo andare. Ma come? Osservando la nostra mente, imparare a stare con la sensazione momento per momento, in questo senso va intesa la osservazione. Inizialmente la mente è molto agitata e c’è l’impulso di possedere a tutti costi l’oggetto del desiderio (bramosia), si pensa a come fare per averlo e a tutte le giustificazioni che possiamo trovare perché abbiamo paura del nostro giudizio negativo nel caso decidessimo di lì a breve di cedere ad esso. Attraverso l’osservazione di quel turbinio di pensieri l’agitazione dopo un po’ comincia ad attenuarsi fino ad arrivare a scomparire. Con la mente finalmente calma ci accorgiamo che anche il desiderio è quasi del tutto scomparso. A questo punto dobbiamo continuare a tenere ferma la mente (se noi rimaniamo fermi prima o poi qualcosa accadrà lì fuori) fino a che il desiderio così come è arrivato se ne va, lasciandoci con una sensazione di serenità, con una mente maggiormente attenta e più pronta a ricominciare di nuovo l’intero processo fino al sorgere di un altro desiderio.

Davide

Resumè del buddhista laico

le quattro nobili verità

1 c’è la sofferenza
2 c’è la causa della sofferenza
3 c’è la cessazione della sofferenza
4 c’è il sentiero per la liberazione dalla sofferenza


ottuplice sentiero

Saggezza (pañña)
1 Retta Comprensione (samma ditthi)
2 Retta Aspirazione (samma sankappa)
Moralità (sila)
3 Retta Parola (samma vaca)
4 Retta Azione (samma kammanta)
5 Retti Mezzi di Sostentamento (samma ajiva)
Concentrazione (samadhi)
6 Retto Sforzo (samma vayama)
7 Retta Consapevolezza (samma sati)
8 Retta Concentrazione (samma samadhi)


i dodici anelli dell’interdipendenza

1-Ignoranza
2-Karma/volizioni/azioni/formazioni karmiche
3-Coscienza
4-Nome e forma/organismo psico-fisico
5-Percezioni
6-Contatto
7-Sensazioni
8-Desiderio
9-Attaccamento/brama
10-Divenire/esistenza
11-Rinascita
12-Morte

Un altro modo di schematizzare il processo dell’originazione interdipendente é questo:vita precedente 1,2,3,8,9,10 vita attuale 11,4,5,6,7,12


i tre veleni mentali principali

1 ignoranza
2 odio
3 attaccamento


le otto preoccupazioni mondane

1 Essere compiaciuti per i guadagni
2 Essere dispiaciuti per le perdite
3 Essere compiaciuti quando sperimentiamo piacere
4 Essere dispiaciuti quando sperimentiamo sofferenza
5 Essere compiaciuti per la buona reputazione
6 Essere dispiaciuti per la cattiva reputazione
7 Essere compiaciuti quando riceviamo lodi
8 Essere dispiaciuti quando riceviamo critiche


le dieci azioni non virtuose e i loro antidoti

del corpo
1 Uccidere/essere gentile e compassionevole verso tutti gli esseri viventi
2 rubare/onestà
3 cattiva condotta sessuale/celibato(fedeltà partner)
della parola
4 menzogna/sincerità
5 linguaggio aspro/gentilezza
6 dividere/Concordia
7 Spettegolare/Dire ciò che è buono
della mente
8 brama/non desiderare la ricchezza e la proprietà di altrui
9 malevolenza/Senza cattiveria
10 Errata comprensione/Retta comprensione:


le sei perfezioni (paramita)

1 generosità
2 etica
3 pazienza
4 perseveranza
5 concentrazione
6 saggezza (di comprendere la vacuità e l’interdipendenza)


le quattro caratteristiche del karma

1 una volta che una azione è stata commessa se ne sperimenteranno sicuramente i risultati
2 moltiplica la sua potenza col passare del tempo
3 non si sperimentano effetti karmici di una azione non commessa da noi
4 non si estingue mai ( a meno di non purificarlo se è negativo)


I sette fattori del risveglio

1 Consapevolezza
2 Raccoglimento (esame dei fenomeni)
3 Forza
4 Serenità gioiosa
5 Calma
6 Concentrazione
7 Equanimità


Otto versi x addestrare la mente

1 considerare tutti gli esserei viventi estremamente importanti
2 quando sono insieme agli altri devo considerarli superiori a me
3 imparare a scorgere nella mia mente il sorgere di emozioni che possono danneggiare gli altri e placarle
4 amare esseri maligni e coloro che sono oppressi da forti emozioni negative come prezioso tesoro
5 quando mi si rivolgono insulti calunnie o abusi cedere a coloro che me le rivolgono la vittoria
6 considerare colui al quale abbiamo fatto del bene e che ora ci danneggia come mia preziosa guida spirituale
7 offrire a tutti il mio aiuto e rispettosamente prendere su di me le loro sofferenze
8 comprendendo l’illusorietà dei fenomeni possa essere libero dall’attaccamento.


I cinque precetti buddisti per i laici

1 Astenersi dall’uccidere, dal far del male o molestare gli altri esseri viventi (animali e insetti compresi), e dal danneggiare le altrui proprietà
2 Astenersi dal rubare e dal prendere il non dato
3 Astenersi da una condotta sessuale moralmente irresponsabile, tradire il proprio partner, guardare gli altri con pensieri libidinosi
4 Astenersi dal mentire, dall’offesa, dai pettegolezzi e dalle calunnie; evitare il più possibile un giudizio superficiale sulle altre persone
5 Astenersi dall’uso di sostanze inebrianti come l’alcool o droghe che impedirebbero la


i quattro sigilli della visione

1 tutti i fenomeni composti sono impermanenti,
2 tutto ciò che è impuro ( ad es. gli aggregati e il corpo, sorti come risultato delle afflizioni mentali e karma) sono nella natura della sofferenza,
3 tutti i fenomeni sono vacui, privi di una esistenza intrinseca (non hanno identità propria, non esistono in senso assoluto, di per se, no sono indipendenti da ogni altra cosa)
4 aldilà della sofferenza c’è la pace (comprendendo la visione di vacuità e l’eliminazione della concezione dell’aggrapparsi al sé)


I cinque dyanhi Buddha

1 Buddha Vairochana insegnamento – pone fine alla visione dualistica (io e gli aggregati, io e gli altri, io e i fenomeni)
2 Buddha Akshobhya indistruttibilmente sereno – incrollabile fiducia che ci si può liberare dal samsara
3 Buddha Ratnasambhava budda della generositá – realizza tutti i voti
4 Buddha Amitabha buddha della compassione – desiderare che gli altri si liberino dalla sofferenza
5 Buddha Amoghasiddhi buddha della saggezza – unica sua preoccupazione é aiutare gli altri


Le cinque illusioni che non sono visioni (illusioni principali/ostacoli)1 Ignoranza
2 Avversione/odio/accidia
3 Attaccamento/desiderio/brama
4 Orgoglio/superbia
5 Il dubbio
e le altre cinque illusioni che sono visioni (dovute all’ignoranza dell’individuo)
6. Errata visione del sé (considerare il sé come fenomeno indipendente e immutabile)
7. Visione estrema passata e futura (non si crede alle vite passate e future)
8. Errata visione delle 10 azioni non virtuose
9. Considerare la propria visione come la migliore
10. Errata visione del comportamento etico

I 5 fattori mentali onnipresenti

di Lama Michel Rinpoce

https://www.youtube.com/watch?v=s2DotsyxpMg&t=16s

Tutto quello che leggete è quello che penso di avere capito dall’ascolto dell’insegnamento, messo nero su bianco per tornare a riflettere su alcuni punti senza avere il bisogno di ri-ascoltare l’intero video.

Davide

La mente non si spegne mai, ha sempre un oggetto di percezione. La mente collega il mondo esterno con quello interno, percepisce quello che arriva dai 6 sensi: i 5 sensi più la mente (mente di tipo cognitivo: ad esempio un ricordo è un oggetto di percezione cognitivo, non ne entro in contatto ma esiste nella mente).

La percezione diretta riguarda i 5 sensi, è ciò con cui entro in contatto. La cognizione inferenziale è quando credo di percepire l’oggetto ma quello che io percepisco in realtà è l’immagine mentale che io mi sono creato dentro di me. E’ una percezione mentale basata sul ragionamento inferenziale  in cui si arriva a una conclusione sulla base di altri oggetti (se vedo il fumo dietro la montagna so che a valle c’è anche un fuoco. Non vedo il fuoco, ma so che c’è ). Questo va così perché questo è così. Noi normalmente non siamo in grado di discriminare l’immagine mentale dall’oggetto stesso, crediamo che l’oggetto a cui penso sia così ma se poi la mia aspettativa non viene soddisfatta posso rimanerci male oppure piacevolmente sorpreso ( es: se io penso al letto mi immagino il letto ma se quando torno a casa il letto è andato a fuoco e mi si propone un altro letto l’immagine mentale che io mi sono fatto viene a mancare, anche se io comunque sempre in un letto andrò a dormire).

La natura della mente:

Mente primaria è quella parte di mente che percepisce i sensi e che a sua volta è costituita dai fattori mentali; essi sono aspetti della mente che hanno delle particolarità e che tutti insieme vanno a costituire la mente primaria. Un pensiero è sempre suddivisibile in vari aspetti che formano la mente. (per approfondire: insegnamento Buddha abidharma sui 51 fattori mentali).

I fattori mentali sono 51 divisi in 5 fattori mentali onnipresenti, 5 fattori mentali determinanti, 11 fattori mentali positivi,6 fattori mentali negativi radice, 20 fattori mentali negativi secondari e 4 fattori mentali variabili.

Non esiste nessun pensiero che non sia composto almeno dai 5 fattori mentali onnipresenti, poi possono essercene di più ma questi 5 ci sono sempre. I 5 fattori mentali sono: sensazione, discernimento, intenzione, attenzione e contatto. Essi sono sempre simultanei ma tra un pensiero e l’altro si relazionano.

Adesso li presentiamo come se ci fosse una relazione di causa ed effetto temporale tra l’uno e l’altro:

Contatto: è la base di tutto insieme di oggetto di percezione sensoriale + potere sensoriale + coscienza sensoriale. Ad esempio, forma (vista), occhi e parte della mente che li gestisce. Dal contatto nasce la

Sensazione: piacevole, spiacevole, neutra. E’ la base attraverso la quale sperimentiamo il mondo, è la base di giudizio (ad esempio una vacanza è andata bene se ci è piaciuta e non avremo mai voluto che finisse).

Discernimento: quando entro in contatto con qualcosa gli diamo un nome.

Intenzione: cosa voglio fare davanti a quell’oggetto di percezione? È la reazione: attrazione, avversione, indifferenza. È la base di tutte le azioni, è il karma, è il mio direzionarsi davanti ad una percezione, quello che mi spinge verso l’oggetto.

Attenzione: come fare per ottenere quello che voglio. L’intenzione è generica, la attenzione è specifica: dopo che sono entrato in contatto, che ho una sensazione, gli ho dato un nome e ho sviluppato una intenzione la attenzione è trovare il modo con il quale interagire in base ai 4 fattori precedenti.

Tutti i momenti abbiamo questi 5 fattori mentali. I pensieri sono tutti collegati, il pensiero di adesso si collega con quello dopo perciò ad esempio l’intenzione che ho adesso influenzerà la mia intenzione di dopo.

Noi spesso viviamo come se fossimo il risultato del mondo che ci circonda, ad esempio quando sono felice c’è qualcosa intorno a noi che ci fa sentire felice e lo stesso quando qualcuno sta male. Vogliamo sapere perché qualcuno sta male e quello che poi facciamo è cercare la soluzione mettendo a posto il mondo attorno a noi. Cercare di eliminare la sofferenza mettendo a posto il mondo attorno a noi è come tentare di svuotare l’oceano con un bicchiere versandone il contenuto dietro di noi. La realtà non esiste solo fuori, è direttamente collegata alla nostra mente, non possiamo percepire nulla indipendentemente dalla nostra mente. La percezione della realtà è diversa in ogni individuo (o in ogni mente). Un suono percepito non è uguale per tutti, perché sono diversi i fattori mentali. Allora bisogna chiedersi: siamo il risultato del mondo che ci circonda o siamo interdipendenti da quello che ci circonda? Siamo interdipendenti! La realtà esterna non esiste indipendentemente dalla realtà interna in ciascuno di noi. Ognuno di noi percepisce la realtà in modo diverso, ci sono delle minime differenze ma le realtà sono diverse per ciascuno di noi.

La libertà di scegliere la nostra vita:

Dove abbiamo la libertà all’interno dei 5 fattori mentali? Nel reagire, quindi nell’intenzione: anche se qualcosa magari mi piace, posso sempre scegliere se farmi attrarre oppure no. Possiamo direzionare la nostra intenzione, la nostra mente: dopo la direzione che voglio prendere c’è la azione, la parola. Quando siamo davanti ad un oggetto la nostra attitudine è quella di agire in base a come siamo abituati: davanti ad una cosa piacevole il comportamento naturale è sviluppare attaccamento: siccome mi piace ne voglio di più. Se qualcosa per esempio mi piace.Invece potrei provare gratitudine, ri-gioire per le cose belle. Abbiamo la possibilità di direzionare la mente! All’inizio è una cosa che può sembrare molto artificiale ma poi pian piano viene naturale. Quando siamo davanti a una situazione ho un primo impulso ma devo chiedermi se posso agire in modo diverso. Il modo con cui vedo può non essere sbagliato, comunque non è l’unico modo. La domanda non è qual è il modo giusto di vedere ma vedere cosa mi conviene di più. Se vedo una persona violenta posso generare nell’immediato avversione e rabbia, ma se ci penso bene è meglio provare compassione. Dobbiamo creare interdipendenza positiva. Il potere della mia azione dipende dalla mia intenzione, motivazione.

Dove abbiamo la libertà all’interno dei 5 fattori mentali?  Anche nel discernimento! Il potere mentale del discernimento è potere scegliere, quando vediamo che stiamo dando un nome e che ci stiamo relazionando con qualcosa chiediamoci sempre se abbiamo diverse possibilità. Esempio della campana usata come bicchiere: io ho una immagine mentale della campana e vediamo qualcuno che la usa per bere dell’acqua. Noi la vediamo come bicchiere o come campana usata come bicchiere? Pensiamo:  va quello che pirla, usa la campana per bere! Noi la vediamo come campana, perché per noi il nome campana è relativo ad un oggetto con determinate caratteristiche. Ma che cosa fa la differenza tra campana o bicchiere? E’ il nome che io attribuisco! E’ il valore che noi diamo all’oggetto, per esempio potrei benissimo usare la campana come bicchiere, in base al valore che io attribuisco. E’ difficile perchè normalmente non siamo consapevoli di tutto questo.  Dipende tutto dal modo con cui io vado a relazionarmi, interdipendente con la nostra mente. La realtà esiste ma non esiste in maniera indipendente dal modo con cui io stesso la vedo. Che non vuol dire che il modo in cui la vedo sia sbagliato, ma non è l’unico modo giusto, devo vedere quello che mi fa più bene, a me e a chi mi sta intorno. Ecco perché il potere del discernimento è importante: così pian piano vediamo che noi non siamo il risultato del mondo che ci circonda, ma siamo anche noi che interagiamo per creare questo mondo.

Spesso siamo abituati a vivere come le foglie al vento, sono così perché è successo questo, o mi comporto così perché è successo quell’altro, ma in realtà noi possiamo scegliere la nostra vita! Non abbiamo la possibilità di scegliere quello che accade ma abbiamo la libertà del modo in cui vivere quello che accade, la reazione, la direzione da prendere, in questo modo dopo l’intenzione segue la azione e poi sorgeranno i risultati: ecco il senso dello scegliere la nostra vita: se scelgo quello che fa bene a me e agli altri cambio anche la mia vita. Il risultato è una vita migliore. Imparare gradualmente ad agire invece di reagire.

I tempi della comprensione sono diversi dai tempi della realizzazione interiore:  non basta comprendere, bisogna agire: la nostra mente agisce in base all’esperienza, non alla comprensione. Capire che arrabbiarsi fa male non basta: cosa fare dunque? Davanti all’oggetto di rabbia fare lo sforzo di agire in modo diverso. All’inizio farò uno sforzo enorme, ma poi più mi comporto in una maniera che fa bene  a me e agli altri più verrà naturale comportarmi così.

Cercare di capire come quando qualcosa ci appare come permanente e noi ci aggrappiamo ad essa questo ci causi sofferenza. La realtà e gli oggetti sono impermanenti, se mi sforzo di capirlo allora smetto di soffrire e accetto quella cosa. Devo generare la non avversione davanti all’oggetto di rabbia, e non basta capirlo bisogna sentirlo nella esperienza che facciamo. All’inizio la persona violenta mi fa arrabbiare, poi mi diventa indifferente, poi sviluppo compassione e alla fine genero amore.  Il concetto, la comprensione aiuta a indurre un sentimento, ma ciò con cui devo familiarizzare non è il concetto, ma l’esperienza del sentimento, perché la mente agisce in base all’esperienza.

8 versi per addestrare la mente

Con la determinazione di compiere il supremo benessere di tutti gli esseri senzienti,
che supera anche il gioiello appagatore,
imparerò a considerare tutti loro estremamente importanti.

Ogni volta che frequenterò gli altri,
imparerò a pensare a me stesso come al più infimo tra tutti
e rispettosamente considererò gli altri superiori
dal profondo del mio cuore.

In tutte le azioni imparerò a cercare nella mia mente
e, appena emerge un’emozione perturbatrice
che può danneggiare me e gli altri,
mi impegnerò ad affrontarla e vincerla.

Imparerò ad amare gli esseri maligni
e quelli che sono oppressi da forti azioni negative e da sofferenze,
come se avessi trovato un prezioso
tesoro difficile da trovare.

Quando gli altri, spinti dall’invidia, mi trattano male
con abusi, calunnie e cose simili,
imparerò a prendere su di me tutte le sconfitte
e a offrire loro la vittoria.

Quando colui al quale avevo recato beneficio con grande speranza
mi ferisce con cattiveria, senza ragione,
imparerò a vedere questa persona
come un eccellente guida spirituale.

In breve, imparerò a offrire a tutti, senza eccezione
direttamente e indirettamente, tutto l’aiuto e la felicità
e rispettosamente prenderò su di me
tutti i guai e le sofferenze delle mie madri.

Imparerò a mantenere tutte queste pratiche
incontaminate dagli otto interessi mondani
e, attraverso la comprensione dell’illusorietà dei fenomeni,
possa essere liberato dal sentimento di attaccamento.