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Ajahn Sucitto – Le perfezioni – Equanimità (cap. 10)

Equanimità o equilibrio mentale è la mente che si astiene dal diletto e dalla sofferenza, dagli alti e dai bassi. Come pratica è profonda, attenta e piena. Va considerata alla luce di quello che la mente fa di solito, e di come è motivata a ottenere il piacevole e l’eccitante, e ad allontanarsi dal dolore, dal biasimo e dalla perdita.

Nel capitolo precedente abbiamo esaminato la gentilezza e la compassione, e queste sono le primi due delle quattro dimore divine, che sono quegli stati mentali nobili, abbondanti e spaziosi nei quali includiamo gli altri come noi stessi. Il terzo è la gioia empatica, l’intenzione di apprezzare la buona fortuna e la felicità degli altri. Ma il più profondo dei è l’equanimità. In questo contesto, è un atteggiamento mentale equilibrato di accettazione di se stessi e degli altri. Con l’equanimità possiamo entrare in sintonia con gli altri, siano essi allegri o depressi, e questo non cambia la nostra empatia verso di loro. Inoltre, ciò si accompagna alla comprensione che qualsiasi cosa essi ora vivano cambierà, e noi confidiamo nella loro capacità di superare quella fase. In questo senso è un’immensa offerta di rispetto. Con l’equanimità possiamo permettere a noi stessi e agli altri di andare oltre qualunque punto di vista o prospettiva. Inoltre non c’è panico, difesa, pretesa, rifiuto, deplorazione, preoccupazione, dubbio o tesaurizzazione; l’equanimità permette a tutto questo di svuotarsi.

Inclusione, non indifferenza

Equanimità in termini di sensazione, può significare “neutralità”; può dare l’impressione che si è indifferenti e non ci si preoccupa (atteggiamento noncurante, che lascia fare). Ma questa è un’equanimità scorretta: in essa non c’è nessun incoraggiamento a migliorare. La noncuranza è una illusione che non riconosce pienamente le sensazioni o le conseguenze degli stati mentali. È una fuga che ci rende incerti e confusi; è una difesa, un non voler sentire. Così la gente, invece di essere solidale ed empatica, commenta, filosofeggia o parla della sofferenza come se fosse una statistica.

Normalmente, quando c’è un contatto sgradevole, noi lo blocchiamo, guardiamo da un’altra parte, prendiamo una pillola, oppure lo filtriamo in modo che non ci getti in uno stato che non siamo in grado di gestire. Ad esempio con la malattia, all’inizio pensiamo che la nostra mente possa essere ragionevole e stoica. Ma se la malattia perdura settimana dopo settimana e non mostra alcun segno di miglioramento, o addirittura peggiora, pone fine alla nostra imperturbabilità e al nostro equilibrio e possiamo diventare depressi e disperati. Anche senza una malattia fisica, se la mente diventa ansiosa o stressata fino al punto in cui non possiamo dormire, allora cominciano a manifestarsi stati d’animo alterati o istinti suicidi. Le persone che sono moribonde o che sono affette da demenza senile, smarriscono gli aspetti a noi noti della loro mente, perdono la capacità di formulare frasi o provano panico e rabbia; questo è il disfacimento di altri esseri umani, è crudo ma è questo che accade. In contesti come questi, sentendo le sensazioni e lasciandole muoversi attraverso di noi, abbiamo la possibilità di sviluppare e conoscere il valore dell’equanimità.

Questa pāramī è realmente utile in ogni momento, perché, anche quando viviamo in un ambiente tutelato dove possiamo essere puliti e adeguatamente nutriti e ospitati, le cose non rimangono a lungo comode o interessanti. Non solo perché le situazioni cambiano sempre in modo radicale, ma anche per la natura mutevole delle nostre sensazioni e percezioni – per le quali l’“interessante” o il “confortevole” diventa “noioso”. In una situazione abbastanza gradevole, diamo le cose per scontate, ci annoiamo, sentiamo di perdere tempo, e così via. Stare semplicemente con le cose così come sono, in un contesto relativamente
neutro, è una pratica importante del Dhamma. L’ho visto io stesso nei monasteri dove gli oggetti necessari sono forniti gratuitamente e viviamo con persone che osservano i precetti e sono dedite al Risveglio – ma “Come canta questo qui è insopportabile… e il discorso di Dhamma è così noioso…se soltanto gli altri fossero d’accordo con me…”, sono solo alcuni dei pensieri che emergono.

La mente trova sempre qualcosa da cui essere irritata o affascinata; scopre sempre qualcosa di cui ha bisogno, di cui preoccuparsi o addolorarsi. Questo perché la mente riceve dati in termini di percezioni e sensazioni che registrano l’esperienza come piacevole o sgradevole – il che è abbastanza naturale. Ma poi una mente non coltivata sovrappone a tutto ciò attività mentali e programmi di desiderio, avversione e interesse personale. Questi sono le tendenze latenti proliferanti che sono radicate nella consapevolezza della mente e prendono forma quando la mente “sorge” nelle sue attività. Con queste tendenze, la spaziosità e la visione del nostro cuore si contraggono. Perdiamo il contatto con la nostra buona fortuna e con la nozione di come potrebbe andar peggio; dimentichiamo e perdiamo l’empatia per la sfortuna degli altri.

Pertanto la situazione che ci dà sicurezza è solo una percentuale di quello che accade realmente. Il resto si trova dall’altra parte del confine, dove, non appena entriamo in contatto con esso, c’è un riflesso inquieto, perché la mente non è in grado di restare con quella paura, quel dolore o quella inadeguatezza. E tale debolezza viene ignorata. Tendiamo invece a una mentalità che si immagina il meglio, vuole la cosa migliore e desidera essere vincente. Questo è il messaggio della società. E tutto ciò che non riesce a soddisfare questi criteri è inferiore e da escludere. La società in generale tende a emarginare i poveri, gli analfabeti e gli incapaci. Così noi li respingiamo; poi li temiamo; e finiamo per respingerli ancor di più. Questo tipo di mentalità che esclude è rivolta anche verso noi stessi. Visti attraverso queste lenti, noi non possiamo mai essere abbastanza bravi, forti, intelligenti, calmi; ed è colpa nostra. Così respingiamo noi stessi, ci togliamo il sostegno del calore del cuore e continuiamo a pretendere di raggiungere la vetta.

La stabilità mentale empatica

L’unica via d’uscita passa da un approccio diverso: sviluppare l’equanimità come auto-accettazione. La sua coltivazione è uno dei temi sempre presenti nella pratica del Dhamma. Per esempio in meditazione: quando sorgono ricordi dolorosi o stati mentali sgradevoli, facciamo una pausa, accantoniamo l’opinione su come le cose dovrebbero essere e lasciamo andare il tentativo di analizzare o fissare la mente. Nel controllare queste reazioni (senza giudicarle), nella mente si diffonde un’empatia equanime. Non c’è bisogno di lottare: “Posso stare con questo”.

Mi piace descrivere questo processo in quanto composto da tre fasi: dapprima facciamo attenzione; poi incontriamo ciò che sorge; infine includiamo tutto. Vale a dire, sentiamo i pensieri, le sensazioni e le emozioni così come sono; ampliamo la focalizzazione per sentire l’effetto che essi hanno sul corpo; e lasciamo che l’attenzione empatica si riposi sull’insieme. Non ci diamo da fare, né ci aspettiamo che le cose finiscano, altrimenti non sarebbe un’inclusione completa: al contrario ammorbidiamo questi atteggiamenti e includiamo tutto. E lasciamo che questo processo continui con qualsiasi cosa sorga in seguito. Ci sarà una liberazione – che potrebbe non essere quella che ci aspettavamo. Tuttavia, seguendo questo processo, cominciamo a fidarci dell’effetto della consapevolezza equanime. E questo è il vero punto di svolta. Perché quando abbiamo gli strumenti, diventiamo impazienti di includere tutta la nostra vita nella pratica del Dhamma. Vogliamo vedere dove diventiamo smaniosi e difensivi, e badiamo ai segni che rivelano agitazione e contrazione – dato che, se facciamo attenzione, ampliamo, ammorbidiamo e includiamo tutto, il movimento verso il Risveglio continua.

Come perfezione, allora, l’equanimità è un’intenzione o un “muscolo mentale” piuttosto che una sensazione. È il grande Cuore che può mantenere saldamente le emozioni e le percezioni nella piena consapevolezza senza farsi scuotere da esse. Ed essa si rafforza in uno stato mentale quando è sostenuta dalle altre pāramī. L’equanimità consente a una sensazione di entrare, di essere sentita pienamente e di passare oltre. Questo è quanto la rende estremamente utile: noi non rifiutiamo il mondo, ma acquisiamo un cuore abbastanza grande da abbracciarlo. E con ciò perveniamo anche alla realizzazione che il mondo – le forme, le sensazioni, le percezioni, le attività mentali e persino la coscienza – è qualcosa che passa e che non ci possiede. Perciò non c’è alcun bisogno di correre, e non c’è niente da bloccare. L’equanimità è allora il tagliafuoco che accompagna tutte le pāramī nel momento in cui il fuoco divampa. Ad esempio la mente protesta quando si tratta di essere pazienti, “Perché dovrei?”; quando si tratta di essere generosi, “Forse non se lo meritano”; quando si tratta di rinunciare a qualcosa, “Ma si, cosa vuoi che sia, da domani però basta”. Con l’equanimità, non siamo colpiti e trascinati via quando incontriamo questi flutti, essa è come un bravo timoniere.

Le tre conoscenze (realizzazioni)

Come introduzione alle riflessioni sulle pāramī, ho menzionato la storia del futuro Buddha seduto sotto l’albero della bodhi, che incontra, e poi respinge, l’esercito di Māra, chiamando la Terra a testimone dell’enorme pratica di perfezioni accumulata nelle vite passate. Un altro passo canonico spiega il ruolo dell’equanimità in questo evento. In questa narrazione (Majjhimanikāya, I, 249-250), il Buddha dice di aver avuto tre realizzazioni successive: quella delle sue vite precedenti, quella della natura del bene, del male e delle loro conseguenze, e quella della fine dei preconcetti e dei flutti che causano la sofferenza.

Prima realizzazione: il panorama delle sue numerose vite. Ora, limitiamoci a immaginare di focalizzare mentalmente l’intera e unica vita che possiamo ricordarci (quella attuale), o applichiamola a un periodo più limitato, a un progetto o a una relazione, e contempliamo le svolte, le curve a gomito, le salite, le discese, insomma tutte e le contorsioni del suo dramma: ora si eccita, ora lotta, ora perde tempo, ora persevera, fa delle scelte, si sente male per un colpo di sfortuna, poi si sente bene per una pausa favorevole… e così via. Possiamo farlo senza reagire, sussultare o diventare nostalgici? Possiamo fermare i tribunali giudiziari e andare oltre l’identità di vittima o di protagonismo? Se riusciamo ad andare avanti e a essere presenti a tutto ciò con equanimità, possiamo dire che questa vita è positiva o negativa? Oppure è semplicemente quella che stata, così com’è. Ecco la prima fase dell’equanimità saggia. Con l’assenza di un giudizio finale, la mente rimane aperta e l’apprendimento si approfondisce.

La seconda realizzazione avvenne con un ulteriore ampliamento e approfondimento: estendendosi oltre la riflessione su se stesso, egli contemplò tutti gli esseri che avevano sperimentato gli alti e bassi della vita come aveva fatto lui, mietendo il risultato delle azioni. Questa fu la realizzazione del kamma: ogni azione, anche se mentale, ha delle conseguenze. È la legge di causa ed effetto. È impersonale e non attribuisce nessuna colpa. La legge dice che le azioni, i pensieri e la parola ci sollevano in uno stato luminoso o ci precipitano in uno stato buio, secondo la qualità etica dell’intenzione che li genera. L’intenzione sceglie il paradiso, l’inferno o qualche luogo nel mezzo – un momento per volta. E se superiamo le reazioni e le spiegazioni, entriamo in contatto con l’intenzione della mente. Allora possiamo indagare e impostare la rotta corretta.

Così l’intenzione dell’equanimità crea una forza imparziale che ci dà la possibilità di vedere più chiaramente. Anche che gli altri traggano beneficio attraverso la inter-relazione con un essere equanime: ad esempio tempo fa un mio amico sfruttava con l’inganno una prescrizione medica per acquistare droghe che generavano dipendenza. Sua moglie lo sapeva e naturalmente era molto preoccupata. Ma, invece di limitarsi a criticarlo, aspettò il momento opportuno per fargli notare con calma e in modo premuroso che le sue azioni gli avrebbero procurato grossi problemi: avrebbe perso il rispetto di se stesso e il suo benessere psicologico, e avrebbe avuto guai legali. Tuttavia, ella affermò che la decisione spettava a lui. Il tono non veemente della moglie, il suo non drammatizzare e l’assenza di biasimo ebbero un effetto profondo. Questo incoraggiamento a considerare attentamente le cause e gli effetti lo indusse a cambiare subito il suo comportamento.

L’equanimità non è un invito a essere passivi e a non valutare le azioni. L’applicazione dell’equanimità ci fa sentire invece meno colpevoli, meno sulla difensiva e meno reattivi. Può sorgere una naturale sensibilità della coscienza per guidarci verso quello che, nel profondo del cuore, sappiamo essere giusto e significativo. Un approccio oppressivo semplicemente chiude la mente in difesa o scatena una reazione contraria. D’altra parte un approccio totalmente passivo, in cui accettiamo tutto e non teniamo conto di saggi consigli e riscontri, ci lascia in preda ai nostri impulsi e a cieche abitudini. La via di mezzo del Buddha esamina la conoscenza della causa e dell’effetto e riconosce come proprietaria dell’azione l’intenzione, piuttosto che il sé. L’insegnamento del Buddha ci offre quindi linee-guida chiare e serene che rispettano il nostro senso morale innato, piuttosto che virtuosi sproloqui, i quali ci rappresentano come minorenni irrimediabilmente corrotti.

La terza realizzazione: per essere presenti a tutte le nostre azioni, è necessaria l’attenzione irremovibile e stabile di un’equanimità continua. Così è questione di un’auto-accettazione incondizionata: questo è ciò che siamo stati, e quello che abbiamo fatto nel bene e nel male. Nessuna censura, nessuna giustificazione, semplicemente rimaniamo sintonizzati. Allora la mente può operare al di fuori dei tribunali e delle rassegne dei punti di vista del sé. C’è un approfondimento nel vedere che quanto ognuno di noi sperimenta come “me stesso” è in realtà, nel bene e nel male, la corrente di causa ed effetto. È il kamma, non il destino cieco o un “Io” imperfetto, che porta avanti la mente e crea una storia “personale”. Il futuro Buddha non si fermò a quella realizzazione, ma penetrò più in profondità. Rinunciando alla sofferenza o all’esultanza per quello che aveva compreso, la sua mente si immerse nel profondo per riesaminare i presupposti che sostengono il kamma sono: 1) la ricerca della felicità mediante l’acquisizione o l’eliminazione; 2) l’andare in cerca della sicurezza con l’ottenimento di un punto di vista filosofico o religioso; 3) la stretta che tiene avvinta la mente come se fosse un sé immutabile; 4) il non ammettere giorno dopo giorno l’insoddisfazione generata da questo comportamento. Come abbiamo visto, questi sono i flutti della passione, dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza. L’andare oltre questi pregiudizi e vederli per quello che sono è l’essenza della terza realizzazione.

Non c’è bisogno di difendere o di sostenere una persona: tale sforzo incoraggia i punti di vista, l’identificazione e il conflitto. Tuttavia è sicuramente possibile dare un giudizio e avere una reazione. Ma la risposta viene da una mente che è equanime circa l’identità e consente al discernimento di parlare chiaramente di azioni e comportamenti, non di personalità. Le cose sono viste essere “così”, “semplicemente così”. Il Buddha (il risvegliato), o il Tathagata (colui che è “Così andato”), vede anche la verità essere “così” senza attaccamento.

Perciò l’equanimità è un’umiltà profonda che consente alla mente di evitare di adottare qualsiasi identità, punto di vista o giudizio. Con l’imparzialità della mente le intenzioni della saggezza e della rinuncia compiono la scelta di abbandonare la causa della sofferenza, e la gentilezza e la compassione incoraggiano gli altri a fare lo stesso.

Sviluppare l’imparzialità nella meditazione

Come per le altre perfezioni, la pratica dell’equanimità inizia da se stessi ed acquistano il loro pieno potere solo quando sono radicate nell’intima attenzione della meditazione. In parole semplici, la pratica della meditazione sviluppa l’equanimità in due modi. Il primo si avvale della stabilizzazione dell’energia mentale che avviene con la mente calma che si focalizza su un tema; in questo processo essa leviga e rafforza la sua energia. Inoltre, quando la mente accantona il contatto sensoriale esterno, e l’agitazione, l’avversione, la speculazione, la preoccupazione, l’inquietudine e la fascinazione che l’accompagnano, l’energia della mente si assesta e si unifica con l’energia del corpo. Una tale mente può quindi gioire della propria vitalità e ampliare maggiormente la consapevolezza senza perdere di vista il centro. Questo è il samādhi; e, a mano a mano che si approfondisce, la compostezza e l’agio della mente si raffinano e si stabilizzano, donando chiarezza ed equanimità. Questa è una sorta di “mente saggia”, che non è più in balia dei flutti dell’energia che trema o si irrigidisce, aumenta o si irradia, secondo le percezioni e le sensazioni.

Pertanto, nella meditazione, noi impariamo a conoscere l’aspetto energetico della mente, ed espandendolo e purificandolo possiamo rimanere in quell’elemento, piuttosto che in tutti i viavai. Allora la nostra mente resta equanime: non è tirata fuori, spinta dentro o scossa dagli eventi. E, di conseguenza, la mente si assesta su questa base elementare; in mezzo al mondo, si sente ancora bene, integra e sana.

Il secondo modo in cui la pratica meditativa sviluppa l’equanimità è tramite la capacità intelligente e intuitiva della mente. Questo è un aspetto della saggezza che consiste in una conoscenza penetrante che può sapere: “Questo è un pensiero, questa è una sensazione, questo è uno stato d’animo. Questa è attrazione, questa è repulsione. Questo è il ricordo, questa è la dimenticanza”. Tale discernimento può essere addestrato
all’equanimità e all’imparzialità; benché sia toccato dai pensieri, dalle sensazioni e dagli stati mentali, può essere allenato a non desistere, non millantare, non congratularsi o biasimare.

Più abbiamo la capacità di ricevere l’esperienza e riflettere su di essa, più la vediamo come causata (e quindi soggetta alla dissoluzione), mutevole e non appartenente a nessuno. Questa focalizzazione intuitiva (questa è vipassanā) vede l’esperienza che è caratterizzata da: l’assenza di desiderio, l’assenza di segni e l’assenza di un sé. In un certo senso, tutte pervengono allo stesso risultato, una visione corretta di come normalmente caratterizziamo le cose o le percepiamo. Senza questa visione corretta, noi etichettiamo inconsciamente le cose nei termini della loro desiderabilità, cioè del loro carattere piacevole o spiacevole. E così cerchiamo di ottenere il piacevole e di allontanarci dallo spiacevole. Ma in meditazione scopriamo che non possiamo possedere ciò che sorge o fuggirlo. Più vogliamo avere la pace e la tranquillità, più diventiamo tesi e agitati. Più cerchiamo di liberarci dei momenti mentali brutti e stupidi, più quelli ci assalgono con insistenza. Dopo un po’ scopriamo che l’unica vera opzione è prestare attenzione in modo diligente e adottare un’equanimità che osserva. Poi la materia bollente comincia a raffreddarsi e, mentre l’intenzione pacifica dell’equanimità si diffonde nella mente, è possibile realizzare una tranquillità interiore naturale.

La mente “etichettatrice” creatrice dei segni

L’intuizione penetra nel processo percettivo che etichetta o “segna” ogni cosa. La percezione è l’attività di riconoscere un oggetto come qualcosa di conosciuto. È il manager dei minuscoli promemoria mentali che etichettano le cose: “Questo è terribile, quest’altro è divertente, quello è una minaccia, quell’altro è fantastico” e così via. Ma quando noi riconosciamo che quanto sperimentiamo è impermanente e mutevole, allora vediamo che tutte le etichette della memoria non sono vere in modo definitivo e duraturo. In altre parole, il segnare le cose come se fossero sempre in questo modo o in quello, cambia con i nostri stati d’animo, le prospettive e il contesto in cui le sperimentiamo. Perciò le cose sono desiderabili secondo il nostro desiderio, non in maniera innata, in se stesse. Per esempio, la musica briosa è magnifica quando si balla, ma è terribile quando cerchiamo di dormire. La focalizzazione accompagnata dall’equanimità sulla natura impermanente dell’esperienza, un momento alla volta mette a tacere l’irrequietezza e l’irritazione, così l’intuizione sposta i segni verso la realizzazione dell’assenza di segni.

Talvolta la percezione (l’etichettatrice), ad esempio in una situazione in cui c’è conflitto, diventa frenetica nel definire il giusto e lo sbagliato, il che fa sorgere la necessità di schierarsi. Questo a sua volta ci conduce a formulare punti di vista netti: approviamo o condanniamo le persone come buone o cattive (ci comportiamo in questo modo anche verso noi stessi). In ogni situazione e in qualsiasi periodo, c’è sempre qualcuno che può essere schernito o denigrato, come il tiranno del momento o il ministro corrotto di quel dato periodo. E poi ci sono i cavalieri senza macchia, ma in seguito si scopre che i cavalieri senza macchia sono imbrattati dai propri interessi.Questa è la storia della politica, non è vero? Di come le potenze occidentali sembrino liberare altri paesi dai loro regimi tirannici – e poi si rivelino motivate dai propri interessi economici. E di come i nostri alleati vengano scoperti mentre indulgono nello stesso tipo di corruzione dei nostri nemici. Ci focalizziamo sul segno del bene e ignoriamo gli altri segni, o facciamo lo stesso con il segno del male. Ma quando il discernimento è equanime, noi riconosciamo che la percezione è influenzata dall’interesse personale: “Il mio popolo, la mia religione contrapposti a quelli degli altri”. L’intuizione rivela il pregiudizio del sé.

Ricevetti una lezione di assenza di segni e assenza di sé mentre assistevo a un “funerale celeste” in Tibet. Nel funerale celeste, il cadavere è disteso a terra e squarciato per attirare gli avvoltoi che scendono in stormi a divorarne la carne. Le ossa sono poi ridotte in polvere e disperse. All’inizio la mente “segna” questi corpi come “persone addormentate”. Poi, quando i macellai cominciano a tagliarli e quando, dopo pochi minuti, uno stormo di uccelli affamati li copre completamente in una massa ondeggiante… e dopo breve tempo se ne va, lasciando solo un mucchio di ossa sparpagliate… le etichette assegnate ai corpi delle “persone” (il padre e/o la madre di qualcuno), balenano nella mente con intensità emotiva e poi scompaiono. Tutto ciò che rimane è una chiarezza sobria e vuota. Allora guardiamo il nostro corpo e quello delle persone intorno a noi: vecchi, giovani, maschi, femmine, grassi, magri. E diciamo: “Chi sono questi?”. Di per sé, all’improvviso ci accorgiamo che un corpo non è qualcosa né un nulla. Ma certamente non è “io”, “mio”.,”tuo”, “suo”, sua madre o tuo fratello… qui c’è un doppio segno, “tuo” e “fratello”… E quando riconosciamo che un oggetto non è come lo etichettiamo, l’etichettatura si interrompe; c’è l’assenza di segni e la non identificazione con l’oggetto.

Questo ha anche un profondo effetto sull’agente mentale (l’intuizione?) che costruisce i segni, quel frettoloso segretario interiore che ci porge sempre il nome, l’opinione, il segno. Si dà da fare, non è vero? Ma quando tutti i segni sono visti come relativi, e quando l’interesse personale compulsivo è accantonato, il segretario può fare una pausa. Con l’etichettatrice in vacanza, possiamo avere un assaggio della pace profonda. Questa è chiamata “condizione del non-creare-quello” (atammayatā), la realizzazione della sorgente della mente. Non c’è identificazione, nemmeno con il conoscere, che è l’ultimo nascondiglio del punto di vista del sé. Non c’è il bisogno interiore di conoscere e descrivere alcunché, eppure c’è una chiara consapevolezza. Questo è il cessare del “nome”, che è sinonimo di completo Risveglio.

L’equanimità, incorniciata dalle altre perfezioni e applicata alla mente in meditazione, continua ad abbandonare le preferenze che formano il nostro mondo fino a giungere allo stato più profondo della consapevolezza dove non c’è l’etichettare né alcuna intenzione. In questo stato la mente è priva di turbamenti, e il suo discernimento è chiaro, ma non crea alcun segno. La liberazione della mente e la liberazione della saggezza si sono unite. Non c’è alcuna vibrazione a cui reagire o da scacciare, e non ci sono idee a cui aggrapparsi. Si realizza uno stato più profondo, l’“elemento del Nibbāna”.

Suggerimenti sull’equanimità

Lo sviluppo della equanimità è basato sulla comprensione e sull’allentamento delle reazioni e delle proiezioni mentali circa le sensazioni piacevoli o spiacevoli. In esse si devono affrontare il disappunto o l’eccitazione che giungono insieme alla frustrazione o alla realizzazione di un obiettivo. In tali scenari, è bene riflettere sul fatto che molti fattori diversi dalla propria abilità o intenzione influiscono sul risultato. Persino un ottimo atleta può essere sconfitto da una malattia o battuto dal cattivo tempo. Quanto può essere “soltanto nostro” un fallimento o un successo? Aggrapparci a essi crea solo stress e agitazione inutili.

Delle due basi della sensazione (fisica e psicologica) quella che ci tocca di più è quella psicologica. La sensazione piacevole o spiacevole è il fattore che attiverà le reazioni mentali del “sentirsi inadeguati”, “dilemma insopportabile”, “impulso irresistibile”, “annoiato a morte” ecc. La sensazione, si riferisce a un’esperienza di piacere, dispiacere o neutralità, che, se è seguita, innesca le energie emotive (saṅkhāra) chiamate in italiano “le mie sensazioni”. Considerando che solo un terzo delle sensazioni sarà piacevole, e che anche quel terzo è incline a evocare il desiderio per averne di più, è saggio considerare le diverse basi da cui una sensazione potrebbe dipendere prima di seguirla. Ci sono cioè sensazioni gradevoli basate su strutture mentali e punti di vista salutari (come la generosità, la compassione, la sincerità e la calma). E, benché alcune sensazioni spiacevoli debbano essere sopportate (come per esempio nella malattia), e altre siano un avvertimento di pericolo, ci sono sensazioni aspre, basate sul desiderio o su rancori, che dovrebbero essere abbandonate – con una diligente coltivazione.

Prendere questa comprensione e applicarla nella meditazione condurrà alla equanimità sublime, piuttosto che alla indifferenza o alla noia. Questa è l’equanimità basata su uno stato mentale unificato. Il culmine della pratica “non fare” è una completa non identificazione persino con una mente piena di pace; è sinonimo di abbandono dell’intenzione, e di realizzazione del Nibbāna.

Riflessione

Immaginate uno scenario spiacevole: siete in ritardo al lavoro; perdete il lavoro; vi ammalate; ecc. Mantenete attentamente lo spazio e lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’agitazione lo attraversino. Notate lo stato mentale dove l’agitazione cessa. Eccovi qui. Ora fate lo stesso con uno scenario molto positivo: ricevete una ricompensa; incontrate il partner perfetto; ecc. Come prima, lasciate che le emozioni, le immagini mentali e l’eccitazione passino oltre; e notate gli stati mentali quando cessano. Eccovi qui. Familiarizzatevi con il territorio mentale in cui sentite: “Be’, dopo tutto, eccomi qui”.

Poi applicatelo alla situazione di un’altra persona: potete offrirle la ferma fiducia che anche questo passerà?

Azione

L’equanimità nei termini dell’azione può essere sviluppata applicando l’attenzione e lo sforzo in modo uniforme a tutte le fasi di un’azione, dalla preparazione al completamento. In questo modo, la mente non è solo predisposta a “fare” le cose al momento necessario, ma rifletterci prima durante e anche dopo l’esecuzione. Questo è particolarmente utile quando non si raggiungono i propri obiettivi! Possiamo fermarci, mettere ordine, riflettere e provare un altro approccio. È anche utile riflettere sull’esito di “ottenere risultati”: quanto dura la soddisfazione? Se l’importante per noi è quanto applichiamo la mente in modo uniforme, e la serenità che ne deriva, allora, sia che noi vinciamo, perdiamo o pareggiamo, possiamo dimorare nel risultato dell’equanimità.

Meditazione

La coltivazione dell’equanimità nella meditazione dipende da due principi: 1) inerente alla saggezza: la mente può fare un passo indietro rispetto a ciò che sperimenta; 2) inerente all’empatia: il crescente grado di calma fornisce una fonte più profonda di soddisfazione rispetto a quella procurata dai piaceri dei sensi. E’ come rispondere alla domanda: “Cosa mi farà sentire soddisfatto?”. Questi esercizi di saggezza e di empatia richiedono costanza per continuare a eseguirli, ma il risultato è un profondo senso di equanimità e pace.

Nella pratica:

  • stabilizzate la sensazione, rivolgendo l’attenzione a un oggetto calmante, come il respiro
  • con la saggezza passate in rassegna il processo della sensazione per imparare a non restarne catturati
  • lasciando che il respiro si dispieghi completamente e venga percepito in tutto il corpo, cominciate con il “conoscere” pienamente l’oggetto della meditazione
  • sintonizzatevi sul piacere salutare che nasce dal non essere circoscritti e dalla calma. Quando questa sensazione diviene il tema dominante,
  • valutate il piacere che proviene dalla calma come più sostenibile e soddisfacente dell’attrazione più grossolana e vacillante per il piacere dei sensi.

Ciò conduce alla comprensione del beneficio della quiete, e a una solida base nel piacere salutare interiore per contrastare l’attrazione dei sensi. Quando contemplate questa calma costante attraverso la facoltà della saggezza, la mente fa un passo indietro dalla sensazione. La calma crescente si fonde quindi con il distacco della consapevolezza che conosce in un’equanimità non basata sull’indifferenza, ma sull’unità dello scopo, dell’oggetto e dell’attenzione. Restando con ciò, la mente si libera dalla sua fascinazione per la sensazione e gli stati mentali in generale.

Conclusione: Cosa portare a casa?

Nella particolare serie di riflessioni in questo libro, il ritornello costante è quello di entrare in contatto con le correnti sotterranee e i pregiudizi che inondano la mente, e di usare le pāramī per attraversarli. Le pāramī sono insegnamenti che si possono usare nella vita quotidiana, ma che renderanno più profonda anche la meditazione. Tramite la pratica delle perfezioni, possiamo riesaminare qualsiasi esperienza che abbiamo vissuto – sia che ci muova o che ci mantenga fermi – con questa domanda: “Ciò che trema o incalza è davvero il mio sé? Ciò che si sente solido, che vuole mantenere la presa, sono davvero io?”. Con una riflessione saggia e profonda probabilmente riconosceremo che “Io non sono sempre così. Dipende da… un contatto piacevole / dall’essere minacciato / dal sentirmi in buona salute / dai commenti degli altri… ecc. ecc.”. Così, tenendolo a mente, e contemplando con un’equanimità consapevole, possiamo realizzare: “Oh, questa è solo presunzione, quest’altra è solo identificazione, quello è solo dubbio, quell’altro è solo stress”. Per quanto possa essere momentanea questa realizzazione, possiamo sperimentare un terreno che non si manifesta come uno stato o una sensazione. È un luogo che non è uno stato mentale, ma una pace interiore che gli stati mentali non possono influenzare.

Però, quando proviamo a trattenerlo, rivendicarlo o capirlo, i flutti dei punti di vista, del divenire e dell’ignoranza prendono il sopravvento. Riconoscerlo ci rende personalmente più modesti e rispettosi della Via. Chiunque sembriamo essere, e in qualsiasi modo lo sembriamo, un Sentiero si evolve con la saggezza, influenzata dalla consapevolezza, fortificata dal raccoglimento e mantenuta costante dall’equanimità. Perciò, ogni volta che sorge una vecchia abitudine, o quando un programma di “Cosa veramente sono e cosa dovrei essere” si rimette in moto, dobbiamo prestare attenzione, incontrare ciò che emerge e includerlo nella nostra pratica.

Questo “lavoro interiore” può anche essere il nostro contributo al bene del mondo. Da questa chiarezza e apertura, l’impegno e la compassione sorgeranno e guideranno le nostre vite. Si può reagire all’ignoranza, all’avidità e alla distruzione disperandosi di tutto – ma questo spegne la consapevolezza e limita una risposta più saggia. Potremmo anche adottare una posizione colpevolizzante o punitiva; oppure sentirci inadeguati; o ancora potremmo congetturare che tutto sia parte di un piano divino. La responsabilità personale consiste invece nel sintonizzarsi sulle pāramī e manifestarle nel modo in cui viviamo le nostre vite.

Così ciò che la Via del Buddha presenta è una cultura – non una tecnica, un’ideologia o un’affermazione metafisica su noi stessi, il mondo o il significato del tutto. Essenzialmente, è una Via che deve essere vissuta – indubbiamente con molte linee guida utili – ma vissuta nell’incertezza e nell’unicità della vita di ogni persona. Accompagnando noi stessi totalmente e con compassione nella lente della nostra consapevolezza troviamo la Via, e le pāramī ci forniscono gli esercizi per farlo.

Allora, anche in un mondo dominato dall’avidità, dall’odio e dall’illusione, noi possiamo vedere il bene in noi stessi e negli altri, sintonizzarci su di esso e farlo crescere. Qui non c’è spazio per il compiacimento, la disperazione o il rimpianto. Questo Sentiero è già una liberazione tramite la virtù, il discernimento, la pazienza e l’equanimità. Non possiamo prevedere i dettagli di quello che ci farà sperimentare. Ma ogni intuizione dello spessore e della chiarezza del Sentiero ci mostra che non c’è nient’altro che valga la pena di fare e ci indica ogni strumento per rimanerci.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – Impegno (cap. 8)

L’ottava fra le dieci pāramī è l’impegno (risolutezza). Quando è congiunto alle altre perfezioni, l’impegno serve a sottolinearle e a rafforzarle. Perciò ci si impegna a essere generosi, ad astenersi dal recare danno, a lasciare andare ciò che deve essere abbandonato, a discernere e indagare, e a portare energia, pazienza e sincerità nella propria pratica.

Questa pāramī è pertanto una base: le intenzioni sono piuttosto fiacche se non ci si impegna a realizzarle. Dobbiamo prenderci l’impegno di praticare se vogliamo percorrere un qualsiasi sentiero spirituale. Ma questo impegno richiede la saggezza sia di sentire che certe azioni sono degne di essere eseguite che di guidare l’impegno stesso. Così qui, come in tutte le altre perfezioni, è coinvolta la saggezza: quella che è in contatto con il processo di causa ed effetto e quella che arriva a capire cosa perseguire e cosa non perseguire. È opportuno fare una verifica: ciò in cui siamo coinvolti giova al nostro benessere e a quello degli altri? Se non è di giovamento, perché coinvolgerci? Qualsiasi indagine di questo tipo, eseguita per dieci minuti, un giorno o un anno, va contro la passività, l’indifferenza o la cieca forza di volontà che ci consegna ai flutti.

La necessità dell’impegno

Un impegno non è cosa da poco: se siamo alla ricerca di profondi cambiamenti, è necessario sapere che molto probabilmente ciò significherà vincere una certa resistenza. E richiederà la fiducia di poter almeno tentare.

Naturalmente, possiamo sviluppare livelli più forti e più vasti di impegno seguendo una valutazione saggia di quanto ci è necessario o utile. Per esempio, quando leggiamo un libro, non lo cominciamo pensando di leggere tutto il giorno e tutta la notte, ma lo sfogliamo per dieci minuti; poi, se ne vale la pena, continuiamo. Perciò l’impegno saggio sostiene il rafforzarsi secondo il feedback, l’interesse e la capacità. Non è cieca ostinazione.

Questo tuttavia significa che accantoniamo le alternative e rimaniamo con il nostro obiettivo principale da raggiungere e per il quale ci vuole anche molto tempo, sforzo e pazienza. Spesso ci offriamo molte opzioni, in modo che sia più probabile ottenere esattamente quello che vogliamo. Sembra positivo, ma lo scenario multi-opzionale può portare alla paralisi della capacità di scegliere: non dedichiamo il tempo e lo sforzo necessario al cambiamento dentro di noi, e abbiamo la sensazione furtiva che, se soltanto avessimo fatto una certa cosa, sarebbe stato meglio.

Al principio della nostra pratica buddhista, possiamo sentire che ha a che fare con la libertà dall’impegno: la liberazione riguarda l’apertura, la spontaneità e lo stare nel momento presente. L’idea di essere privi di legami e liberi è attraente, e noi possiamo presupporre che questo avvenga grazie al non avere alcun impegno od obiettivo, ma non è così. Alcuni pensano: ‘Non imponetemi legami, sono buddhista. Secondo loro, siamo imprigionati nelle nostre regole “asfissianti”, come per esempio: “Per favore non puntate i piedi verso un’immagine del Buddha; è irriverente”. E’ difficile tramandare alcuni di questi insegnamenti in una società che ha trasformato le preziose qualità dell’impegno in obiettivi materiali e in credenze prive di valore.

L’impegno è importante all’inizio del percorso, dobbiamo metterci in testa che senza sforzo e il tempo necessario i risultati non arrivano. Per esempio quando ero ancora giovane, ero sommerso dagli stimoli, dalle pulsioni, dall’avidità, dalla paura e dall’illusione. Non avevo una sufficiente chiarezza di intenti e di intuizione per potere iniziare la pratica spirituale che porta alla liberazione dalle sofferenze, dopo avere iniziato ad assorbire la teoria. Essa si limitava a rimanere nella mia testa e io non ero in grado di viverle, fondamentalmente perché non sapevo a livello meramente pratico che cosa fare.

Sviluppare la determinazione

Così, solo con una vaga sensazione di una direzione interiore, eppure rendendomi conto che doveva essercene una, cominciai a viaggiare e finii in Thailandia. Incappai per caso in un corso di meditazione e mi ritrovai in un monastero come ospite per sviluppare questa pratica. Nel monastero alcune cose erano molto chiare. Mi dissero: “Ecco cosa devi fare. Siediti lì e osserva il tuo respiro. E, mentre sei qui, niente alcol, niente sesso, niente droghe, niente musica; inoltre non puoi mangiare dopo mezzogiorno. Continua a notare il respiro e, quando la tua mente divaga, riportala al re- spiro”. Naturalmente sorsero resistenze. Io pensai: ‘Non so se posso gestire tutto questo. Non so se ce la farò. È dura, tutta questa disciplina’. Ma potevo sentire l’irrequietezza, il dubbio e la confusione, e riconoscere che, se li avessi seguiti, sarei tornato a girare in tondo come avevo fatto per gran parte degli ultimi dieci anni. Potei anche riconoscere che, un momento per volta, riuscivo a seguire quelle istruzioni. E che con ciò uscivo dal flutto in cui mi ero dibattuto. La mia mente continuava a dire: ‘Non posso farlo’, ma, un momento per volta, lo stavo facendo! Nessuno mi aveva chiesto di continuare così per tutta la vita. Solo per un giorno; e, se avessi deciso di an- darmene, non avrei incontrato difficoltà. Allora pensai: ‘Lo farò per un pochino’. Poi, il giorno dopo: ‘E se continuassi ancora per un giorno?’. Be’, trascorse la mattina, poi il pomeriggio, e un altro giorno finì. Due giorni, mica male! Poi ci riuscii per una settimana, ottimo! Quindici minuti di meditazione seduta, quindici di camminata – c’ero quasi. ‘Sicuramente il Nibbāna non è lontano’.

Si tratta semplicemente di prendere la pratica un po’ alla volta, con l’atteggiamento di “Perché no?”, piuttosto che essere compulsivi. L’approccio era: “Guarda, puoi farlo. Puoi rimanere per tutto il tempo che vuoi e limitarti a costruire”. Questo approccio era gentile e presentava un percorso tangibile per tirarsi fuori gradualmente dai flutti, un istante per volta, come meglio si poteva – e poi apprezzare quanto si era fatto. Già soltanto con questo si gestiva abilmente la propria motivazione e si stabiliva una base salda e paziente. Queste cause naturalmente avevano degli effetti: all’inizio la mente era piuttosto caotica e preda di ogni tipo di resistenza, di desideri e di irrequietezza. Ma tale aspetto mi rese ancora più consapevole che quella roba confusa e ossessiva era ciò in cui non volevo affatto rimanere immerso. Potevo impegnarmi a cercare di emergerne.

La meditazione non era fonte di estasi: c’era solo l’impegno a mantenere il tema meditativo mentre nella mente scorreva un torrente di stati d’animo e sensazioni, e la determinazione a lasciare che questi torrenti passassero. Dovetti soprattutto cercare di non forzare troppo o arrabbiarmi con me stesso. Ma, gradualmente, la mia prospettiva si spostò dal “diventare Illuminato” a quella di essere consapevole della mente un momento per volta e di esserne contento. Con questo atteggiamento gli impeti si attenuarono e cominciai a riconoscere che c’era una qualche consapevolezza che emergeva e che non sembrava essere dentro i flutti. E capii che essa era sempre stata presente, c’era fin dall’inizio, è emersa con la pratica. Le parole “Rimani qui ora” cominciarono ad avere un senso! Qualcosa era sempre qui, e il mio impegno mi aveva permesso di resistere ai flutti abbastanza a lungo per acquisire il senso di questo “qualcosa”. Non riuscivo proprio a capirlo, ma pareva una forma di consapevolezza che non era un pensiero, una sensazione o una emozione. E io sentii: ‘Ecco, è questo; è ciò con cui voglio stare’.

Tutto questo mise in evidenza il caos emozionale, i desideri insaziabili e l’insicurezza della mente. Tutte le scuse e le giustificazioni plausibili vennero a galla. Voci convincenti mi sussurravano: “Puoi fare questo molto più facilmente in un posto più comodo, piuttosto che stare qui a sudare giorno dopo giorno da solo in una capanna spoglia, in questo strano paese con queste regole bizzarre”. Ma, in un certo senso, questo rafforzò il mio impegno – fece sì che mi chiedessi nel profondo: “Desidero ancora incoraggiare tutta questa irrequietezza o avere una mente che può acquietarsi?”. Dopo anni trascorsi a seguire i miei impulsi, mi sentii fin troppo stufo. Volevo andare verso l’interno e riconoscevo che avrei potuto beneficiare della disciplina che il soggiorno in un monastero poteva fornire. Dopo altro tempo vidi che c’era ancora molta roba che non volevo accettare, ma mi accorsi anche che questi stati mentali perdevano sempre di più la loro intensità, mi sentii un po’ più spazioso, più saldo e più libero. Un istante per volta, cominciai a rendermi conto: ‘Si sta bene in questa dimora di consapevolezza e di contemplazione’. Perciò il mio impegno mi condusse a vivere come un monaco buddhista. Ecco come un impegno iniziale può avere un seguito e creare un percorso.

Piccole Illuminazioni

L’enfasi buddhista sulla conoscenza mediante la propria esperienza diretta mi è sempre sembrata molto logica. Il Dhamma del Buddha non viene presentato con parole come “Questa è la Verità, questa è la Realtà Ultima e la Legge Segreta del Cosmo”, ma “Questo è quanto facciamo per attraversare il caos”. Ed esso offre un’opportunità, una via per esplorare la mente, per fare un passo indietro dal saṃsāra della sua agitazione con il semplice espediente di scegliere un’intenzione ragionevole – come focalizzarsi sul respiro – e osservare come la mente giri a vuoto e traballi intorno a questa intenzione, con le sue preferenze e avversioni cangianti.

Avevo sempre associato la libertà con la possibilità di andare in giro. Ora invece pareva che la libertà fosse nella quieta attenzione. Sembrava che essa fosse lì, non riuscivo a localizzarla, ma era come se dipendesse dal prendersi un impegno.

Per questa ragione ero molto propenso a formulare diversi impegni: dapprima, riguardo al sedere in meditazione per un’ora, poi per un tempo più lungo, in seguito per meditare tutta la notte. Ovviamente, ogni giorno la mente vaga; ci si perde o si è catturati in ossessioni, il che potrebbe significare che si fallisce quotidianamente. Ma scoprii che, se la mente poteva muoversi attraverso un’onda di agitazione, sarebbe potuta anche entrare in un luogo di pace, e anche quando essa non raggiungeva quel luogo, la quiete poteva ancora arrivare. E pensai: “Be’, questo è il mio limite; ci ho provato, e ora è così”, e che dovevo essere più paziente o gentile in seguito agli impegni che mi ero preso. Ci fu un cambio di prospettiva: il successo e il fallimento, se messi in atto con buone intenzioni, conducevano entrambi alla saggezza, alla pace e alla gentilezza. A mio modo di vedere, questa è una piccola Illuminazione.

Un’altro impegno fu dedicato alla rinuncia a mangiare più del necessario. L’attenzione si spostava alle persone che non hanno cibo a sufficienza o agli animali macellati o alla terra devastata dalle colture intensive e allo spreco di acqua per l’industria alimentare. che serve a controllare l’istinto della mente che dice: “Voglio questo. È un mio diritto averlo e lo desidero subito”. In fin dei conti, in un mondo condiviso, dove ci porterà questo atteggiamento?

Un altro impegno che presi fu quello di indossare l’abito monacale anche quando tornavo in occidente, è l’assunzione di una linea d’azione e la suo promozione nel mondo. Era una bella sensazione considerare una vita per il bene degli altri, piuttosto che pensare sempre: ‘Perché indossare l’abito del monaco? Perché dobbiamo cantare? Cosa c’è di sbagliato nei capelli lunghi?’. Capii che la scelta dei dettagli era una focalizzazione troppo ristretta. Era meglio guardare alla vita in un modo più ampio, come se indossare le semplici vesti era un messaggio del mio partecipare a uno scenario che offriva calma, attenzione e una grazia quieta a chiunque potesse trarne beneficio. Gli impegni pertanto corrispondono al modo in cui ci si propone il bene degli altri: la vita di un rinunciante ha grande valore, perché esprime tenerezza, forza e fiducia. E partecipare a questo tipo di vita è sia un onore sia un modo per uscire dalle ossessioni personali. È una altra piccola Illuminazione, un alleggerimento del fardello che è l’importanza data al sé, non un’affermazione personale su “Quanto io sono grande e saggio”.

Applicare la saggezza all’impegno

La vita da mendicante, non sapendo di quante risorse materiali saranno disponibili, fornisce automaticamente l’opportunità di affrontare le difficoltà con l’impegno. Per esempio, al mio ritorno in Inghilterra, avevo solo abiti leggeri tropicali e un paio di sandali aperti. Presto giunse l’inverno, e per me fu positivo portare alla mente la sensazione di mancanza (di abiti invernali) e osservarla, quando vedevo altre persone avere oggetti utili. ‘Ha gli stivali. Perché io non li ho? Dovremmo essere trattati allo stesso modo. Come possono dare gli stivali a lui e non a me?’. Ma poi mi limitai a decidere che non era affar mio; il dare riguardava loro; io dovevo ricevere ciò che era offerto e abbandonare la gelosia e la lamentela. Così stabilii che la mia pratica era quella di accontentarmi di ciò che mi veniva offerto, con il seguente impegno: “Se non è offerto, non è necessario”.

Si potrebbe sostenere che, per camminare tre miglia facendo la questua nella neve, si ha “bisogno” di stivali. Ma io non ne avevo, e quindi… potevo usare quella opportunità per essere presente a tutto ciò, osservare cosa sorgeva e lasciare che passasse. E così l’impegno mi conduceva attraverso il vortice delle sensazioni fino allo svuotarsi del desiderio, dove c’erano quiete e pace. Sentivo qualcosa di positivo e degno. In realtà era più utile che avere gli stivali, perché ciò cui mi ero dedicato era trovare la via al punto di quiete, non l’avere piedi caldi e asciutti. Inoltre, apprendere l’accontentarsi rendeva la vita più facile e più ricca, qualsiasi posto dove vivere e qualsiasi cibo andavano bene. Mi resi conto che il corpo e la mente sono adattabili, e che noi possiamo adeguarci. E questo donò ricchezza alla vita ordinaria. Tutto questo incoraggia a ricercare opportunità per l’impegno.

Si può coltivare l’impegno anche con pratiche “estreme”, per esempio durante il mio primo Ritiro presi alcuni impegni “estremi”: decisi di non leggere nulla, perché ero consapevole di quanto tempo passassi a leggere pagine a caso solo per riempire i tempi morti della giornata, mi impegnai a non conversare e nella “pratica di stare seduto”, in cui si decide di non sdraiarsi mai nel corso dei tre mesi. Poiché trattenersi dal giacere diminuisce la quantità di sonno, che rende la mente ottusa e sognante, spesso dovetti limitarmi a stare seduto e a rimanere con vagabondaggi illogici del pensiero e abbandonare l’attaccamento a stati mentali chiari. Dovetti imparare a sopportare la mente inconcludente, debole e malinconica, lavorandoci senza rifuggirla. Ciò significava starci insieme e occuparsene come se fosse degna di attenzione. Questa pratica fu ottima per sviluppare la compassione. La compassione è un’idea meravigliosa, ma incontrare la propria mente triste e brontolona è più arduo che sperimentare compassione per chi è affamato nel mondo. Ma quando togliamo via una causa degna, vediamo che la natura della mente è aver bisogno di qualcosa di cui occuparsi, altrimenti diventerebbe instabile, annoiata e senza vita. Quindi non dobbiamo impegnarci in attività una dietro l’altra per accontentarla: se vogliamo curarla dobbiamo apprendere a sorreggerla semplicemente, come faremmo con una bambina in braccio, cullandola, sopportandola e ascoltandola. La compassione, accresce la pazienza e lascia andare la presunzione.

Naturalmente si può anche coltivare l’impegno con motivazioni errate, come per esempio pensare: ‘Non sarebbe bello se tutti fossero puri, armoniosi e si sforzassero al massimo?’. Dobbiamo invece coltivare l’impegno di stare con la ruvidezza, il caos e il disordine del saṃsāra senza presunzione o irritazione. Aprirsi al convivere con i diversi comportamenti, con le ferite e le bizzarrie delle altre persone per arrivare a sviluppare e sperimentare la compassione piuttosto che giudicare è un’opportunità per praticare.

L’impegno deve essere coltivato con saggezza. Dapprima rafforza la volontà e l’integrità dell’individuo; poi, se lo si mantiene nella relazione con gli altri, apre la mente a un ampio campo di saggezza e compassione. Non è possibile restare impassibili e non volere essere coinvolti, è un comportamento gretto che ci isola. Colui che osserva può essere influenzato dal desiderio di non essere lì, il quale fornisce la base per il punto di vista del sé e il pregiudizio. Così, sebbene la quiete sia utile, non bisogna attaccarcisi. La quiete della mente deve promuovere il lasciare andare che conduce alla liberazione dai pregiudizi e dalla prospettiva della visuale del sé.

Aprirsi alla compassione

Questa comprensione può realmente rendere la nostra prospettiva più ampia. Noi tutti vogliamo essere felici, eppure normalmente siamo insoddisfatti. Questo perché immaginiamo che la felicità sia un’emozione gratificante e che sia la conseguenza del provare piacere in qualcosa. Ma la felicità che deriva dal piacere non è qualcosa per cui siamo progettati come esseri umani. Forse possiamo sperimentarne piccoli frammenti, ma sporadicamente. Questo tipo di felicità non è così profondamente significativa e stabile come ciò che si prova con la compassione. Questa è qualcosa che possiamo condividere tutti, in qualsiasi momento, non importa se ci sentiamo di buon umore o meno. Possiamo tutti parteciparvi. L’atteggiamento elevato della compassione è l’unico modo con cui reggere il mondo.

Nota personale: la felicità non può essere solo un fatto personale, è strettamente correlata anche alle atre persone. Se noi siamo felici in un contesto di persone sofferenti e andiamo in giro in mezzo a loro col sorriso stampato in faccia, credete che ciò li faccia sentire meglio? Forse il contrario! E credete che il nostro stato di felicità sia durevole se notiamo tutta quella sofferenza? No, soffriremo anche noi. Come abbiamo detto prima non serve essere distaccati e impassibili, al contrario dobbiamo essere “com-passibili”.

La compassione è l’intenzione di sostituire con un’apertura del cuore (e della mente) la contrazione e l’agitazione che sperimentiamo intorno al dolore. Talvolta ci sono cose che possiamo fare, talaltra no. Ma quando ci identifichiamo con l’azione e la responsabilità, nel cuore c’è stress e la sensazione di dover fare in modo che le cose funzionino. Quando agiamo in modo olistico (verso noi stessi e gli altri, e verso il Nibbāna) possiamo evitare la trappola di rimanere bloccati nel tentativo di essere buoni e ligi al dovere.

Ora parliamo dell’impegno negli atti di devozione. Possiamo fare diversi riti, omaggi e preghiere davanti a statue o immagini, ma quante volte mentre compiamo questi atti, la vocina nella mente salta fuori e dice: “cosa stai facendo? non serve a niente! Povero illuso pensi che offrendo l’incenso la tua giornata sia migliore? che il tuo esame abbia esito positivo? Ah, ah, ah!”. L’impegno in questo caso è rivolto ad un atteggiamento mentale che prevede di continuare lo stesso l’atto di devozione focalizzandoci sull’intenzione di farlo fino in fondo e dicendo: “Mi inchino a te, ti rendo omaggio”. In questo modo si sviluppa un senso di apertura e di sostegno alla mente, piuttosto che farle avere bei pensieri. E quando ogni tanto essa si ripresenta insistente continuiamo a rendere omaggio. Si arriva al punto in cui arriviamo a vedere al di là della natura compulsiva e insaziabile di aver bisogno di fare solo cose importanti. È qui che, quando il dovere ci rende stantii, la devozione saggia può aiutarci. La devozione non è una questione di superstizione o di cieco rituale. Sperimentata direttamente, ha un’energia leggera, edificante. Distrae la mente dal suo bisogno di essere indaffarata dalla sua richiesta di risultati, e in questo auto-svuotamento, la mente tende al Nibbāna, che è la base per la serena compassione del Buddha.

In confronto a pratiche più estreme, una tale determinazione agisce come una base per l’azione esteriore, l’indagine e l’intuizione. Questo impegno non costruisce un sé con l’intenzione o i risultati; semplicemente vive l’esperienza con attenzione e lascia che essa passi e si dissolva. Ciò è bello, e privo di un sé: non è il sé ad attuarlo, ma la pāramī, accompagnata dalla compassione e dalla saggezza nell’abbandono del sé.

Suggerimenti sull’impegno

La questione della forza personale è in primo piano quando si prende in considerazione l’impegno. Tuttavia è anche una pratica di discernimento saggio: quali impegni sono appropriati e utili a voi? E naturalmente ciò coinvolge il vostro senso di empatia. Qualsiasi impegno deve essere riferito all’effetto che ha sulla vostra mente, e all’intenzione e alla motivazione che lo genera. L’impegno saggio è una capacità che può rendere efficace la riflessione saggia inducendola all’azione e sostenendola. Sotto questo aspetto, è un servitore di tutte le pāramī.

Riflessione

Per collegare la riflessione saggia all’impegno, potreste porvi queste domande:

  • Con una mente che cerca il bene, come oriento la mia vita e come mantengo la direzione scelta?
  • Come vengo meno alle mie aspettative?
  • Dove sono i miei punti deboli?
  • Quale buona qualità o capacità posso sviluppare?
  • Quale di questi ostacoli o capacità segnalerei a qualcuno il cui bene mi sta a cuore?
  • Ce ne sono alcuni che le vostre vicende, il lavoro, le cose da fare o l’età renderanno difficili da mantenere?
  • Quali di questi, d’altronde, vi aiuteranno nel vostro stile di vita o situazione?

I risultati di queste domande vi daranno gli spunti migliori per capire dov’è più probabile che l’impegno attecchisca e fruttifichi.

Azione

Come formulare un impegno: prendete un impegno riflettendoci lentamente e attentamente, notando le sensazioni e le reazioni mentali mentre lo fate. Ogni volta che la mente risponde in modo poco convinto con pensieri come ‘Be’, ci provo…’ o si perde nel dubbio, fate una pausa e riportate indietro il pensiero dell’impegno, facendolo passare lentamente attraverso la mente. Fatelo finché la reazione della mente è calma e ha verso di esso un senso di rafforzamento. Potreste gradire di completare l’impegno con un movimento fisico, come incrociare le braccia o alzarvi in piedi, rimanendo di nuovo qualche momento in silenzio. Infine, menzionare il vostro impegno a un amico fidato può accrescerne la forza.

Come mantenere un impegno.

Ripetete il processo suddetto. Se in qualsiasi momento la vostra decisione si affievolisce, notatelo e riflettete su come lo sentite, senza entrare nell’autoanalisi. Potreste sentirvi confusi, umiliati o arrabbiati, ma sentite queste emozioni e lasciatele passare. Poi prendete in considerazione cosa potrebbe chiudere la falla nell’impegno.

Meditazione

L’impegno in meditazione serve per mantenere nella mente il tema e lo scopo della pratica meditativa e a capire se un particolare contenuto meditativo è appropriato o meno: se conduce a maggior chiarezza e aiuta a lasciare andare, allora anche un tema molto semplice come la consapevolezza del corpo sedendo quieti è una risorsa preziosa. Inoltre vi aiuterà a vedere l’irrequietezza, il desiderio o la pi- grizia, e venirne fuori. Se vi limitate a stare con il vostro tema e non fate alcun commento sul chiacchiericcio della mente, ciò vi fornirà un saldo terreno di consapevolezza su cui, con il tempo, la vostra mente si centrerà. A mano a mano che la mente si calma, l’impegno consiste nel godere di tale calma, in modo che la felicità approfondisca la stabilità della mente. Poi cercate qualsiasi punto dove quella quiete sia sperimentata e dedicategli la vostra attenzione. In questa circostanza, l’impegno alla rinuncia può operare in modo da abbandonare il senso del tempo e mantenere questa consapevolezza.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – L’energia (cap.5)

Gestire le risorse

Stiamo parlando di risorse energetiche. Quando la forza è vigorosa e stabile agiamo in modo efficace e quando è scarsa ci muoviamo disordinatamente. Noi tutti riconosceremo probabilmente che qualsiasi progresso dipende dall’energia costante con cui ci applichiamo; essa non è semplicemente uno sforzo intenso, ma è una risorsa che deve essere applicata con saggezza in modo tale da potere resistere alla spinta delle abitudini psicologiche. Alcune di queste abitudini si strutturano come programmi (per esempio il perfezionismo, la soggezione agli altri, l’autocritica ossessiva e le dipendenze; essi storpiano le nostre azioni, danneggiano il benessere e ci privano delle nostre risorse infiltrandosi nella nostra consapevolezza mentale fingendosi aspetti reali e necessari della nostra identità. Noi addirittura li difendiamo: per gli stacanovisti il lavoro è l’unica cosa che conta nella vita e per gli alcolisti, la bevanda alcolica diventa un modo di adattarsi al mondo. Così, quando l’ondata dell’insicurezza, della solitudine o della passione colpisce la consapevolezza, essa non affronta il rischio e il disagio di mettere in dubbio il punto di vista del sé e del mondo che questi programmi ci presentano. Al contrario, la consapevolezza salta a bordo dell’abitudine e indirizza l’energia verso il tentativo di negarla o lasciarsi andare alla distrazione che essa offre. Cavalcarne l’onda sembra una scelta migliore che restare fermi nella marea.

Il punto è che la consapevolezza deve estendersi oltre le onde e i programmi. Il suo default è di essere condizionata dall’attenzione presente in un dato momento. Quando un programma sgorga a fiotti, inonda l’attenzione, e le nostre intenzioni tendono a seguire la spinta del flutto. Perciò occorre energia per resistere a quel flutto e dirigere la consapevolezza verso la terra ferma. Piuttosto che una forza bruta, l’energia dovrebbe fungere da sostegno, deve essere un apporto energetico “saggio”. La sua funzione principale è il mantenere la consapevolezza sveglia ogni volta che inseriamo il pilota automatico in presenza di un abitudine comportamentale non sana.

Il contenuto dell’energia può tuttavia far sorgere un senso di ansia: “Quando sono già stanco e stressato, ho la capacità o l’interesse di sforzarmi ulteriormente?”. Una risposta saggia al preoccuparsi sarebbe dire che la priorità è imparare come conservare l’energia e non dissiparla. Inoltre, l’energia ha bisogno di essere regolata: le irregolarità ci sono perché la naturale inclinazione della mente è quella di girare intorno a ciò che accade nel suo dominio esterno e interno, la sua attenzione è quindi catturata dall’attrazione, dall’avversione o dalla confusione. Queste forze possono catturare l’energia e sopraffare la mente. Pertanto il grado di sforzo dovrebbe corrispondere a quanto incontriamo. Quando siamo stremati, è più utile applicare l’energia alla gentilezza, e lasciare andare la necessità di mettere a posto le cose. Allora usciamo dalla morsa di priorità confuse. E in ogni caso, la consapevolezza, il riconoscere lo stato attuale della mente, è essenziale. Quindi la risposta alla domanda In sintesi, la risposta è che l’energia deve essere volta al contenimento saggio e alla calma.

Qual è il modo migliore e più urgente per utilizzare l’energia? Usiamo la nostra energia per indagare dentro di noi con l’investigazione e la perseveranza al fine di mettere da parte le cause che scatenano programmi dannosi.

Stabilire confini saggi

Regolare e dirigere l’energia ha a che fare con lo stabilire certi “confini”. Quali confini? Essi sono i limiti entro i quali abbiamo deciso di muoverci, a seconda di ciò che riteniamo sia salutare e di ciò che non lo è. Dobbiamo considerare che cosa è non salutare, porta a risultati dannosi e deve essere accantonato. E dobbiamo considerare che cosa è salutare e incanala la nostra energia verso ciò che ci è di sostegno e ci nutre. Possiamo tenere a mente la seguente riflessione: “È per il mio bene, per il bene degli altri, e conduce fuori dallo stress e verso la pace?”. Invece di stabilire un confine tra sé e l’altro, questa riflessione mira a tracciare un confine tra le intenzioni e l’azione. Perciò, prima di attraversare quel confine, possiamo controllare. I confini intorno alle azioni sono necessari e spetta a noi stabilirli. Non possiamo limitarci a essere passivi; alcune cose devono essere deliberatamente lasciate fuori: “No, questo non mi fa bene”. Oppure: “Ora non mi interessa; non c’è bisogno che lo faccia”. C’è un preciso “no” in quel confine. Rendiamolo saldo, diamogli un po’ di energia e si prenderà cura di noi. Non possiamo stabilire un confine vago “Be’, suppongo che dovrei rinunciare a questo, un giorno…” oppure “Forse…”. D’altra parte, deve esserci anche un “sì”. Per esempio: “Me ne occuperò a fondo. Mi sono preso un impegno; lo porterò a termine”. Poi definiamolo con cura e diamogli un po’ di energia. E anche se ogni tanto falliamo, ritorniamo a quei confini. Esaminiamo in che modo sono crollati o dov’erano troppo stretti, e impratichiamoci.

Imparare a stabilire un confine del “no” significa praticare in una certa misura il contenimento. Significa seguire la comprensione che la mente funziona meglio se non la carichiamo con cose che è superfluo guardare, comprare, possedere oppure per le quali non ci dobbiamo preoccupare. Se non stabiliamo quel confine, la mente può essere inondata da stimoli inutili. Perciò il Buddha ci consiglia di capire cosa fa crescere sia gli stati mentali non salutari sia quelli salutari, e stabilire i nostri confini di conseguenza. Ciò può richiedere risolutezza: le dipendenze come quelle dal fumo, dall’alcol o persino dal lavoro richiedono spesso molti “no” attenti e ripetuti.

Ci sono modi alternativi per incanalare l’energia. I più importanti fra questi modi alternativi saranno le azioni di generosità, la gentilezza e la meditazione di calma concentrata, per fare guarire il cuore che è stato maltrattato da queste attività.

Abbiamo anche bisogno di stabilire un confine intorno alla nostra attività intellettuale, perché essa può diventare una vasta dimensione che inonda la mente con energia irrequieta. Dobbiamo decidere se sono rilevanti per noi o sono solo distrazioni da questioni più importanti della nostra vita. Il Buddha stesso disse che la conoscenza da lui insegnata era come una manciata di foglie, in confronto alle foglie degli alberi nella foresta. Ma, ai fini della liberazione dalla sofferenza, quella manciata era sufficiente.

Per riassumere, l’energia ha una quadruplice applicazione: in primo luogo per accantonare ciò che riteniamo inutile, e in secondo luogo per continuare a proteggere la mente da tali influenze non salutari; in terzo luogo, per stabilire che quanto sentiamo è benefico, e infine per sostenere e incoraggiare queste influenze salutari. Per questo occorre il discernimento saggio.

Conoscere i nostri veri interessi

La saggezza è una risorsa per la guarigione e per l’applicazione dell’energia, perché ci aiuta a capire da soli dove la nostra mente è catturata o confusa. Riguardo a questo, la saggezza opera per mezzo della consapevolezza, la funzione che mantiene nella mente un particolare contenuto, un impulso, uno stato d’animo o una sensazione in modo che possa ricevere una piena attenzione. Con la consapevolezza possiamo zumare su ciò che ci influenza o ci guida. Così possiamo ottenere una comprensione più sintonizzata di noi stessi, piuttosto che attraverso le opinioni di altre persone, o anche tramite i nostri atteggiamenti che ci colpevolizzano. Questo ci aiuta a capire e conoscere quale è la nostra attitudine e la nostra indole, in maniera da indirizzare l’energia verso ciò che è di nostro interesse e ciò che ci preme realizzare, tralasciando ciò che è fuorviante, non salutare, inutile per il nostro l’obbiettivo o che altri si aspettano che noi facessimo ma che non è di nostro interesse.

Guardare sotto il pensiero

Nel processo di rimanere in contatto con le intenzioni, la mente pensante non è di grande aiuto. Di fatto essa può spesso essere d’intralcio, aggiungendo un commento ininterrotto sui nostri stati d’animo, insieme a critiche e idee su come risolvere un problema. Tuttavia con la sua energia ossessiva, non costituisce il vero problema. Ciò a cui dobbiamo stare attenti è sotto il pensiero della mente pensante. E’ il dominio delle impressioni emozionali (percezioni mentali), delle sensazioni e delle immagini di sé che quelle fanno sorgere. Pertanto dobbiamo cogliere il tema emozionale dominante dei pensieri – potrebbe essere l’eccitazione, la preoccupazione o il dubbio – e ascoltarlo attentamente, rimanendo presenti a ciò che emerge. A questo riguardo, la consapevolezza è di aiuto per avere la piena comprensione dello stato d’animo. Poi rimaniamo con il tema emozionale, allargando e calmando la nostra attenzione in modo che l’energia dell’applicazione incontri l’energia dell’emozione. Quando si incontrano, quando non lottiamo per padroneggiare le nostre sensazioni o non ci distraiamo per qualcosa di più interessante, le cose diventano più chiare. La nostra consapevolezza esce dal programma poiché è più vasta, e così anche noi ci liberiamo dagli schemi di comportamento non salutari. Probabilmente qualcosa di molto ovvio ci colpirà, qualcosa di così ovvio che ci chiederemo come mai non lo abbiamo notato prima: “Tutto il turbamento non è che pensieri e stati d’animo. Stai bene. Non accettare ciecamente ciò che dicono gli altri”.

Tendiamo a giudicare noi stessi sulla base di presupposti o del modo in cui gli altri si mettono in relazione con noi. Spesso questo accade perché i nostri confini intorno a ciò che facciamo e a quanto non vogliamo fare non sono stati sviluppati con consapevolezza. Ci siamo più o meno attenuti alle presupposizioni, piuttosto che controllare le cose e decidere consapevolmente “sì” o “no”.

Se non abbiamo chiarezza su queste impressioni, dobbiamo indagare. Se questo ci porta alla sofferenza e allo stress, faremmo meglio ad andare fino in fondo. Se ha una base vera, allora vediamo cosa dobbiamo sviluppare o accantonare. Forse abbiamo perso il contatto con tutto questo. Forse i nostri con-
fini sono stati infranti da abusi sessuali, fisici o verbali. Ci diciamo che non eravamo abbastanza forti, e così il senso del nostro valore personale è stato danneggiato. Il risultato di ciò è che spesso continuiamo a contare
sugli altri per dirci che siamo o.k. E, anche quando quelli lo fanno, se il confine è danneggiato, noi non ne siamo ancora profondamente consci. Con quella perdita di conoscenza profonda, i programmi predominano. I programmi del sé sorgono a un livello più profondo di quello razionale. Ciò che occorre è l’intuizione basata sulla consapevolezza riguardo a quanto ci fa palpitare.

Il confine del “sì”

Quando vogliamo determinare a cosa applicare l’energia, stabiliamo il confine del “sì” attorno a ciò che vogliamo veramente perseguire con l’aspirazione, e manteniamolo con l’investigazione e il raccoglimento. Porre l’energia appropriata in ciò che consideriamo degno farà sorgere la contentezza. E i risultati di portata più vasta giungono quando noi sosteniamo le nostre aspirazioni e azioni con un’indagine consapevole, in modo da eliminare dalle nostre imprese ogni orgoglio o egoismo. In questo modo l’intenzione e l’energia discendono semplicemente dall’amore per il bene, anziché dal perseguimento del prestigio o del successo.

Questa energia è connessa all’aspirazione intima del cuore. Quando ci rendiamo conto di tutto questo,
non lo perdiamo più, ma lo custodiamo come un rifugio. L’elemento che dà l’avvio a questo processo è la fede, che non è una credenza, ma la sensazione intuitiva che esiste un significato: ci sono obiettivi ed energie che valgono di più del mero tirare avanti. La fede è generata dalla buona volontà Quando ci doniamo liberamente e non per ciò che qualcun altro desidera, dice o fa, nella mente c’è bellezza.

L’aspirazione, la sana disponibilità a fare, è chiamata “Il bello all’inizio”. Se aspettiamo fino a quando pensiamo di essere pronti, è probabile che aspetteremo per sempre. Dobbiamo fare un atto di fede basato sulle intenzioni, piuttosto che sulle percezioni di noi stessi e degli altri. Quindi facciamolo e basta. Diciamo “sì” alla fede e “no” alla speculazione esitante. Più dubitiamo, meno la nostra concentrazione sarà stabile; minore sarà la concentrazione, più saremo agitati; più ci agiteremo, più dubiteremo. Dobbiamo liberarci dal programma del dubbio con un atto di fede, con un “sì” alle buone intenzioni. Sicuramente faremo errori, ma, se rimaniamo entro i confini dell’etica e della consapevolezza, riusciremo a imparare. Con la fede, l’energia è un’apertura del cuore, laddove la credenza chiude la mente bloccandola su un’idea o una teoria. La credenza usa l’energia per difendere o attaccare, non per investigare. Per contro la fede trae sempre beneficio dall’investigazione. Quando nutriamo fede in qualcuno o qualcosa, significa che gli prestiamo una chiara attenzione e prendiamo sul serio ciò che esprime. Ma il Buddha sottolinea che una tale fede deve essere accompagnata dall’investigare la verità, e dal lavorare con essa dentro di noi. Questa è “Il bello nel mezzo”. Poi matura nel “Il bello alla fine”: la fiducia e la realizzazione.

Se vogliamo coltivare al massimo il nostro potenziale, ciò deve avvenire in un processo che comprenda sia le nostre sensazioni e aspirazioni, sia i nostri obiettivi e azioni. Allora possiamo verificare dove risiedono le presupposizioni sbagliate o gli impulsi sconsiderati. Siamo in grado di proteggerci dall’ignoranza e dalla sofferenza senza aumentarle. E possiamo gradualmente eliminarle. Siamo capaci di smantellare le fondamenta del biasimo, della diffidenza, del rimpianto, dell’ansia e dell’avversione. Di conseguenza, c’è un sentiero da coltivare. Più possiamo apprezzare e vivere la via della chiarezza nel pensiero, nella parola e nell’azione, più sfuggiamo ai giudizi dei valori mondani. Incominciamo a capire come indagare il nostro pensiero, non per vedere quanto siamo intelligenti, ma per comprendere se il nostro pensiero discerne la crudeltà e la evita, e se riconosce la compassione e la gentilezza e le coltiva.

Indirizzare l’energia al conoscere

L’aspirazione è una buona energia con cui iniziare la meditazione. Uno dei modi tradizionali di entrare in contatto con questa energia è chiamato pūjā, l’atto di venerare. Generalmente essa è associata all’offerta di simboli come luci, incenso e fiori a un’immagine sacra, qualcosa che evoca il senso del bene, del vero e del bello. Si costruisce un altare, si fanno le offerte suddette e si canta oppure si porta in altri modi il proprio cuore nella fede. Queste pratiche di devozione possono essere fonte di un’energia appagante.

Guardando dall’esterno, si potrebbe pensare: “Che diamine succede qui? Pensi davvero che questa immagine farà qualcosa per te?”. Questo perché la gente non si rende conto che l’immagine è lì per rappresentare qualcosa di profondo nelle nostre aspirazioni. Non adoriamo una statua o un dio. Un’immagine non può compiere azioni buone o cattive. Ma non le chiediamo di fare qualcosa; la utilizziamo soltanto come sostegno per generare la nostra energia. Quindi la pūjā è eseguita con un genuino senso di fiducia, di amore e di apprezzamento per quanto l’immagine (a cui si fa l’offerta) rappresenta per esempio la purezza, la compassione, la gioia, la saggezza.

Il Buddha stesso disse che onorare ciò che è degno di onore è una grande benedizione, a causa della concentrazione e dell’energia che questo evoca. Quando onoriamo ciò che è da onorare, ne assumiamo gli obiettivi, i valori e l’energia.

L’energia del fare le cose – l’energia di svegliarsi e rallegrarsi, da un lato, e disciplinarsi, contenersi ed esaminarsi, dall’altro – è anche rivolta a un risultato finale. Lo sforzo è una funzione dell’energia molto utile; tuttavia, lo sforzo non può mai essere un obiettivo. Il fine non è continuare a sforzarsi sempre più, ma pervenire alla stabilità emozionale e alla pienezza del cuore.

Qual è la base per conoscere qualcosa? E’ la consapevolezza di ciò che emerge, della sensazione. Facciamo un esempio riguardante una sensazione fisica come il dolore: poco tempo fa presi un raffreddore. Come sintomi avevo l’impressione che la mia testa fosse compressa, con forti sensazioni attorno al cervello e agli occhi, mentre la gola mi doleva. L’inclinazione istintiva della mente era quella di vincere il malessere e curarlo: “Come posso eliminarlo? Quando andrà via? Come posso raggiungere un punto dove il dolore non c’è? Perché deve essere qui?”. Poi mi venne in mente questo pensiero: “Perché porti qui il dolore (nella testa, nel cuore) ? Perché non lo lasci lì? Perché non dici che il dolore c’è, ed è lì?”. Dunque qui c’è la conoscenza del disagio e delle reazioni mentali, e lì c’è l’oggetto della conoscenza, la sensazione sgradevole. Con la consapevolezza, rimanendo pienamente presenti e consapevoli della spiacevolezza, possiamo cominciare ad avere la sensazione che essa sia lì e lasciarvela. Abbiamo quindi un’area in cui dimorare serenamente, senza bloccare la sensazione né farne un gran che. Se invece ci attacchiamo sempre a una sensazione pensando che è “qui”, che è “mia” e che è “ciò che io sono”, allora sopraggiunge la battaglia emozionale, il turbamento, i tentativi di bloccarlo, l’indignazione e così via. Così tutta la nostra energia si logora in un’attività inutile.

Gli aspetti fisici sono molto più facili da gestire rispetto a quelli mentali; di conseguenza, si impara dapprima a praticare con i disagi fisici, dopo di che è più agevole distinguere gli stati mentali – come per esempio la sensazione di non progredire o di non essere in grado di meditare – e non rimanervi intrappolati. Diventa più semplice tirarsi indietro dai pensieri, e ritrovare un equilibrio essendone consapevoli. E, con il tempo, grazie alla fede, alla consapevolezza e all’energia, possiamo fare lo stesso con i nostri programmi mentali. Anche se seguiamo una tecnica meditativa in modo maniacale e meticoloso, possiamo prestare attenzione a come lo troviamo stressante. Quella consapevolezza è la chiave. Quando la contattiamo e le diciamo “sì”, essa ci conduce all’equilibrio senza ulteriori sforzi. Più siamo presenti al conoscere, più energia lo raggiunge; l’energia si allontana dallo schema mentale, dalla sensazione fisica, dalla sensazione mentale o emozione ed entra in una salda consapevolezza di questi stati. Rimanendo chiara in presenza del dolore, del dubbio o di un’immagine del sé, questa consapevolezza libera l’intensità emozionale e la proliferazione che questi veicolano. La lotta e l’agitazione cessano e il processo di essere totalmente assorbiti dalle illusioni si inverte. Cominciamo a riempirci di pace.

A volte la pratica consiste semplicemente nel rimanere su un luogo, su un punto del nostro corpo o della nostra mente, senza avere l’obiettivo di migliorarlo, ma solo di starci attentamente con distacco. Semplicemente lasciamo che l’attenzione e l’energia entrino in quel luogo, in modo che il corpo sia tenuto nell’energia della consapevolezza, e la mente vi si assesti. Questo può lavare via le afflizioni e il torpore, e ripulire i luoghi feriti. C’è una facoltà guaritrice dell’energia che compare quando smettiamo di
“fare”, e permettiamo invece all’energia di accumularsi e di arricchirci. Questo è il campo del samādhi – la concentrazione o l’unificazione – che è uno stato di energia stabile, in cui il corpo, il cuore e le energie intellettuali si fondono e sono in riposo. Ha l’energia di un piacere che non è fondato sui sensi o sull’intelletto, e che ci permette di riposare nella consapevolezza.

L’energia come fattore del Risveglio

Nessuno di noi ha troppa energia o troppo poca: tutto ciò di cui soffriamo è lo squilibrio e la sua ignoranza. Perciò, se non siamo fisicamente molto forti, facciamo in modo che il nostro confine corrisponda a questa condizione. Rimanendo all’interno di quel limite e dicendo “sì” a un minor numero di attività fisiche e “no” a molte altre, scopriremo che la nostra energia si accumulerà all’interno del confine. La cosa più importante è capire che il confine esiste per aiutarci a raggiungere il Risveglio, piuttosto che per permetterci di acquisire una condizione sociale o per farci sentire inadeguati. Pertanto, se diciamo “Io sono solo questo” o “Io sono uno di quelli”, usiamo male il confine, e l’energia va perduta.

In conclusione, possiamo vedere che c’è un’energia associata allo stabilire, al fare e all’essere. Questa energia porta ad attaccarsi all’immagine di sé e al fardello corrispondente. Questo è il motivo per cui l’energia è uno dei fattori fondamentali del Risveglio.

Suggerimenti sull’energia

Coltivare l’energia ha a che fare da un lato con la protezione e la raccolta di risorse, dall’altro con l’applicazione e il sostegno di quell’energia nei confronti di attività meritevoli. La valutazione di ciò che è utile e la messa a punto dei modi in cui raccogliere e sostenere l’energia costituiscono i contributi della saggezza all’energia. Quanto allo sviluppo dell’empatia, una delle principali motivazioni per applicare l’energia è che essa mira al bene degli altri e di se stessi. L’aspirazione, la motivazione per far sorgere la propria energia per una buona causa, è un mezzo fondamentale per allietare il cuore. Combinata con le precedenti perfezioni, l’energia rinsalda la base della consapevolezza, l’atto di mantenere l’attenzione saggia su un certo tema. Questo sposta il processo della riflessione saggia in quello della meditazione sostenuta.

Riflessione

Considerate che l’energia è il combustibile per qualsiasi tipo di sforzo; anche il pensare consuma energia. È anche una risorsa che diminuisce progressivamente con l’età. Dunque chiedetevi frequentemente: “Vale la pena conferire la mia energia a questa azione, a queste parole o a questo modo di pensare?”. La sera, il vostro ultimo pensiero prima di dormire sia che la morte si avvicina e può presentarsi in qualsiasi momento; alla luce di questa considerazione, riesaminate in che cosa è impegnata la vostra energia. Chiedetevi che cosa è sorto, se ha portato calma e felicità oppure no. Poi meditateci sopra, e prendete nota di tutto.

Concedetevi alcuni minuti per verificare le vostre aspirazioni. Esse devono essere formulazioni di valori e risonanze di quello che desiderate realizzare. Per esempio: “Possa esserci pace nella mia comunità”; “Possano i miei parenti o amici trovare una via per superare le difficoltà”; “Possano tutti gli esseri liberarsi dall’oppressione e dalla povertà”. Il loro effetto immediato è spostare il centro dell’attenzione dai dettagli della vita quotidiana personale a prospettive meno grette. Ciò rallegra il cuore ed è una fonte che tonifica l’energia.

Considerate anche cosa vi piacerebbe portare a termine, e come prendere un periodo di riposo, usando la rinuncia e il contenimento per recuperare.

Azione

Impegnatevi in qualcosa di utile che richieda la vostra energia, qualcosa che vi conduca a sforzarvi e forse ad accantonare altre attività. Fare sacrifici personali è qualcosa che raffina e rafforza la mente. Usate l’energia per sostenere altre perfezioni per esempio la gentilezza o la generosità. Invece di aggiungere alle vostre attività altre cose da fare o finire, approfondite la qualità di ciò che mettete nelle vostre azioni. In questo modo l’energia, usata abilmente, provvede il cuore di nuove risorse e lo rigenera.

Meditazione

Praticate la meditazione mantenendo una postura eretta. (Potete trarre beneficio da esercizi fisici per rafforzare la zona lombare, distendere i tendini e la zona intorno alle anche).

Con ogni espirazione raccogliete l’attenzione e impegnatela a seguire il respiro fino alla fine. Nella pausa e nell’inspirazione rilassatevi e lasciatevi riempire dall’energia del respiro. Poi, nell’espirazione successiva, dirigete la mente verso le sensazioni del respiro in qualsiasi punto del corpo le sentiate e mantenetevela.

Se vi sentite intorpiditi, tenete gli occhi aperti e mantenete l’attenzione sul tenere una postura eretta. Inoltre, e in particolare nel caso vi sentiate annoiati, rinvigorite l’energia investigando la natura specifica delle sensazioni corporee che accompagnano un’energia fiacca, oppure esaminate il vostro stato mentale.

Se l’energia è troppo intensa per essere contenuta agevolmente nella quiete, provate ad ampliare il campo della focalizzazione e a percorrere con l’attenzione il vostro corpo verso il basso, uscendo dalla pianta dei piedi (per questa pratica può essere più vantaggioso stare in piedi fermi). In alternativa, meditate sui movimenti del corpo mentre camminate avanti e indietro lungo un percorso che avete scelto.

Se sentite che la vostra energia è stabile, diffondetela attraverso tutto il corpo. Quando è accompagnata dalla gentilezza, il risultato è molto gradevole.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La Saggezza (cap. 4)

La chiarezza innata

Il quarto veicolo che guada il flutto del mondo è la saggezza, paññā. Questa è la facoltà discriminativa che opera attraverso il discernimento o chiarezza, piuttosto che una conoscenza accumulata con lo studio. Si tratta di una facoltà che ognuno di noi già possiede infatti la saggezza è la facoltà che fa distinzioni (tra il dolore e il piacere,tra la sicurezza e l’intimidazione, tra il bianco e il nero). La mente umana è una benedizione dai molti aspetti; possiamo essere presenti ai nostri istinti e alle nostre reazioni, e discernere ciò che è buono, appropriato e salutare da quanto non lo è; ma possiamo anche essere così persi in ciò che pensiamo dovremmo essere, in ciò che temiamo potremmo essere, e nei pensieri di come vorremmo fossero gli altri, da smarrire l’equilibrio della chiarezza. Perciò con una mente umana è imprescindibile sviluppare la facoltà della saggezza in modo corretto: senza un contrappeso diventiamo troppo sbilanciati. E’ essenziale sviluppare la saggezza che sovrintende alla coscienza mentale o la trascende, con i suoi valori e pregiudizi dogmatici, con la compassione e la depressione, con l’amore e la concupiscenza. Questa saggezza trascendente, o profonda chiarezza, è la perfezione che accompagna tutte le altre pāramī, e da esse è condotta al suo pieno sviluppo, utilizzo ed efficacia. Senza di essa, la vita può essere un vero caos.

Tre aspetti della saggezza

La saggezza è sviluppata su tre fronti. Il primo è l’aspetto della saggezza concettuale o teoria, che noi possiamo acquisire da un libro o ascoltando un discorso. Il secondo è la saggezza della pratica, l’applicare direttamente la teoria nella propria vita e praticare allo scopo di dissolvere le cause dello stress, della confusione e della sofferenza. In terzo luogo c’è la saggezza della realizzazione, che è una conoscenza fiduciosa, chiara e serena non inclusa in opinioni, reazioni e pregiudizi. È il tipo di sapere che semplicemente “sa” che qualcosa è così o non è così. È questa purezza della conoscenza che determina la liberazione dalla confusione e dallo stress. Questi tre aspetti della saggezza nel buddhismo sono simboleggiati da
statue che portano un libro, una spada e un loto. Il libro è la saggezza della teoria, la spada è la saggezza dell’applicazione e il loto è la saggezza della realizzazione.

Il processo con il quale i tre tipi di saggezza si susseguono non prevede che avvengano sempre secondo una sequenza precisa, dipende dal contesto e in genere si riavvolge su se stesso. Comincia tracciando una base per indagare la causa e l’effetto. Ci chiediamo: che cosa ci dà un beneficio a lungo termine, piuttosto che un guadagno a breve termine? Che cosa fa bene a noi e agli altri e conduce alla pace? Che tipo di felicità immediata di fatto ci procura alla luce di una futura infelicità – e quali sono le cause o i fattori scatenanti di queste traiettorie? Non sempre applichiamo la saggezza ai nostri impulsi, come la voglia di spendere troppo, l’inclinazione per relazioni incompatibili o per un abuso di sostanze, perché, quando essi si manifestano come idee e tendenze, in quel particolare momento ne percepiamo solo gli aspetti positivi! Questa è la saggezza teorica (primo tipo).

Poi possiamo indagare che cosa “cucina” la mente e chiarire qual è il combustibile che alimenta il fuoco. Forse stiamo cercando di controllare una situazione che non possiamo gestire, o di far sì che un partner sia qualcosa che non è. Oppure resistiamo a una sensazione spiacevole, tenendoci sulla difensiva e fingendo che non ci sia (mentre neghiamo di stare sulla difensiva). Quando ce ne rendiamo conto (ricordandoci che possiamo liberarci dallo stress) smettiamo di sprecare tempo ed energia nel trattenere, spingere o resistere inutilmente. Allora si libera l’energia che è intrappolata che si integra nell’energia della mente e c’è una sensazione di completezza, pace e libertà. L’energia si districa e si acquieta, facendo in modo che la mente si senta un poco più luminosa. E’ un percorso fuori dallo stress di una mente ottusa e frenetica, che grazie alla calma ora riesce ad accedere a questa consapevolezza riflessiva. E questa è la saggezza della pratica (secondo tipo).

La saggezza della pratica deve essere sviluppata con esercizi di meditazione, perché i presupposti, le convinzioni, le passioni e le preoccupazioni parlano a voce più alta. Bisogna concedere a se stessi del tempo per creare le occasioni che portano alla luce la nostra saggezza. La pratica della meditazione porta porta alla saggezza della realizzazione (terzo tipo).

Da qui in poi l’agire con più coscienza è un risultato naturale. Così, quando la saggezza emerge in primo piano, si accrescono le altre virtù. La saggezza mostra capacità di valutare gli stati mentali così come vengono direttamente sperimentati nel presente. Una regola semplice è la seguente: “Se non sostiene le altre pāramī, non è vera saggezza; è solo un’opinione”. La vera saggezza percepisce l’equilibrio e l’integrità, discerne la causa e l’effetto e realizza la chiarezza e della felicità.

La saggezza sviluppa un sentiero che fa uscire dalla
sofferenza

La saggezza come pratica cresce particolarmente bene tramite la meditazione. Nel Buddismo la meditazione indica la coltivazione della calma e dell’intuizione, lo sviluppo della consapevolezza (sati) e della concentrazione (samādhi) che ne sono le cause (della calma e dell’intuizione). La consapevolezza è la facoltà che porta nella mente un’emozione, un’idea, un processo o una sensazione. Quando è sostenuta, essa contrasta la dispersione dell’attenzione e l’impulsività. La concentrazione è l’approfondimento dalla consapevolezza che così diventa piacevole. Consapevolezza e concentrazione mantengono la calma. E, quando la mente è calma con più naturalezza riusciremo ad usare la saggezza che andrà a condizionare le nostre azioni mentali.

Il compimento di un’azione dipende dalla mole di attività che la nostra mente svolge. La saggezza si manifesta nella meditazione attraverso la valutazione della nostra esperienza e di come essa influenza la nostra coscienza mentale. L’intuizione verifica se gli oggetti visivi, i suoni, i pensieri o gli atteggiamenti provocano un modo d’essere stressante oppure uno stato aperto e liberato. Quando cogliamo i segni di ciò che è salutare o non salutare nel modo d’essere della nostra mente l’intuizione si sviluppa ulteriormente permettendo alla nostra saggezza di incontrare una
conoscenza calata nel corpo, nel cuore e nei visceri, che è chiara e arriva
al punto. Per esempio: “Pare che il problema non sia il fatto che la gente vuole molto da me, ma piuttosto che io sia un soggetto compulsivo. Chiedo troppo a me stesso”. Per questo “conoscere sentito” (conoscenza calata nel corpo) dobbiamo calmare la mente e indagare con la consapevolezza riflessiva e non pensare più a noi stessi. Poi possiamo vedere: “Questa è la sofferenza; la causa è il desiderio di essere in un certo modo piuttosto che in un altro; si può lasciare andare quel desiderio; ecco come riuscirci”. Otteniamo così una sintesi personale delle Quattro Nobili Verità – la sofferenza, l’origine, la cessazione e il Sentiero.

Il Sentiero operativo fondamentalmente è questo: conoscere il bene e viverlo, conoscere il male e allontanarsene (essendo consapevoli dei risultati). Poi, con l’acquisizione dei risultati e della loro bontà, si comincia sempre più a sentirsi chiari e vedere quando c’è qualcosa di dissonante. Forse vediamo un rancore, una pretesa nei nostri confronti o come ci identifichiamo con un ruolo arrivando a pronunciare un verdetto interiore di successo o fallimento. Tuttavia, quando la nostra mente allenata sempre più ad essere chiara si discerne chiaramente che “Tutto questo è qualcosa che passa attraverso la consapevolezza. Sono stati da cui posso fare un passo indietro”, vediamo lo stress e la possibilità di esserne liberi. Poi, con quella libertà, sentiamo la tranquilla felicità della fiducia; e con ciò la pressione si allenta.

Se lasciamo che questo processo si dispieghi, scopriremo di fare del bene non per identificarci con l’essere buoni, ma solo perché ciò è sentito come positivo. Ciò che è rilevante è arrivare a capire se la nostra mente si trovi in un stato salutare o non salutare. La saggezza, il discernimento a sentire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, in maniera intrinseca piuttosto che attraverso un pregiudizio competitivo: “Io sono migliore di quello che sei tu / questa è l’unica via”. E il risultato è che a governare il cuore è l’intelligenza consapevole, piuttosto che l’immagine di sé.

La saggezza ha bisogno della meditazione

La saggezza si costruisce sulla base della rinuncia. La rinuncia è parte della meditazione: accantoniamo deliberatamente l’uscita dalle porte dei sensi. Questo è il contenimento: è la prima cosa che facciamo perché la nostra saggezza ci dice che il protenderci verso l’esterno ci fa perdere l’equilibrio. Perciò smettiamo di andare all’esterno e ci rivolgiamo verso l’interno, stabilizzando l’attenzione con una pausa, e poi rendiamo salda la consapevolezza su un tema di meditazione adeguato. Questo è il modo di cominciare. La rinuncia sembra implicare l’accantonamento dell’attività
sensoriale ma è solo un principio approssimativo, in effetti la rinuncia saggia consiste nel lavorare con l’impatto dei sensi, in modo da non reagire precipitandoci fuori dai sensi o contraendoci in una ferrea difesa. Abbiamo bisogno di mantenere l’equilibrio perché il discernimento può essere spinto da parte dall’energia cieca degli impulsi ad agire, o al contrario dalla soppressione dell’input sensoriale (sforzarsi a non agire) o anche dalla negazione di uno stato di fatto. La pratica de contenimento consiste quindi nel fare una pausa e tirarsi un po’ indietro dal contatto sensoriale, poi da quella prospettiva più ampia riflettere su ciò che si sente come salutare o non salutare. Allora possiamo impegnarci da una posizione chiara, etica e compassionevole. Senza l’equilibrio offerto dal contenimento, la facoltà della saggezza non ha uno stato quieto da cui dare una lettura degli eventi. Pertanto la consapevolezza, che mantiene nella mente una posizione o un tema, è un elemento fondamentale nello sviluppo della saggezza. Ci dà accesso al “senso” del conoscere, una sensazione di tranquilla sicurezza e di equilibrio.

Nella meditazione questa saggezza del riconoscimento è chiamata “piena comprensione”. Questa facoltà riconosce ciò che succede ogni istante nella mente. All’inizio la nostra attenzione rimane quieta per circa un secondo prima di scattare verso l’elemento successivo, ma la piena comprensione riconosce che “La consapevolezza in questo momento può essere stabilita” ed incoraggia: “cara consapevolezza, cerca di non andare subito via, rimani solo per un altro istante; cerca soltanto di cominciare ad osservare la tua esperienza”. Non esercita la pressione “Devi sempre continuare a farlo”. La consapevolezza potrebbe cadere dalla sua posizione o tema, ma poi la piena comprensione dice: “Fermati. Riprendila solo per questo istante”. La saggezza può operare solo nel momento presente. Non appena ci allontaniamo da questo momento, non siamo più nel dominio della saggezza che sboccia nella realizzazione. La consapevolezza del respiro è un ottimo metodo per stare con il momento presente.

Questo riferirsi a un istante per volta ci dà anche l’opportunità di uscire fuori dagli schemi temporali che il flutto del divenire (bhava) ci rifila con l’inganno. Per esempio la voce che dice: “Devo calmarmi; quando viene la chiara luce?”. Con la saggezza penetrante, nutrita mediante la consapevolezza e la piena comprensione, questi pensieri possono essere trasformati in “Ecco l’impazienza… be’, prendiamoci un secondo e restiamo con un’espirazione”. Poi c’è l’urgenza tenace del fuggire da tutto questo
(vibhava), che dice: “Non voglio mai più occuparmene. Desidero lasciarmi
alle spalle tutti i miei problemi !”. Ma con la saggezza accantoniamo sia l’urgenza di accumulare l’esperienza, sia quella di sbarazzarcene Pratichiamo invece la saggezza, controlliamo la mente e freniamo quei riflessi un momento dopo l’altro. Poi ecco una realizzazione: cominciamo a conoscere la mente e a guardare sotto il miraggio della sua attività.

La consapevolezza che conosce si perde quando ci aggrappiamo agli stati mentali, perché questi sono in movimento e ci chiedono di seguirli, di trovargli una sistemazione, di eliminarli o di preoccuparci. Dobbiamo imparare a demolire questa abitudine di rincorrere, aderire o aggrapparci, il che implica la rinuncia a un’immagine di sé, per lasciar andare la fatica di essere ciò che le nostre menti assillanti pretendono da noi. Perciò la persona saggia è chi può rinunciare allo sbraitare del sé per scoprire una melodia più naturale.

Ogni attaccamento a dati sensoriali o a impulsi psicologici è legato all’ignoranza, Questa perdita di consapevolezza equilibrata incrementa vari tipi di sete (taṇhā): per il contatto sensoriale (kāma-taṇhā), per l’essere qualcosa (bhava-taṇhā) o per il non essere assolutamente nulla (vibhava-taṇhā). Sentire il bisogno di oggetti visivi, suoni e sensazioni non è una buona notizia, perché non tutto ciò che vediamo, udiamo, assapo-
riamo, odoriamo o tocchiamo è piacevole oltre ad essere costantemente soggetto a cambiamento.

Lo stesso si può dire per (bhava-taṇhā) la sete di uno stato mentale, o di una condizione sociale. Essa mira a farci sentire forti e sicuri, ma quante persone “di successo” sono veramente tranquille e serene? Vibhava-taṇhā l’impulso ad allontanarsi da qualcosa che provoca imbarazzo, ansia o per-
dita dell’immagine di sé.

Se incontrollati, questi impulsi ci portano a contrarre abitudini che alla fine ci limitano: il mio attaccamento ad averla vinta in una discussione, la mia necessità di approvazione, la mia auto-denigrazione abituale che cerca di depurarmi da quelli che io penso siano i miei peccati e le mie debolezze, ecc. Questi impulsi sono resi tenaci perché ogni cosa nel mondo tende a nutrirli: la fama, la lode, il guadagno, la condizione sociale, il potere e l’eccitazione condizionano la personalità. La personalità è l’interfaccia psicologica tra il regno della sensazione e degli stati mentali. Quando il punto di vista del sé assume il controllo si arriva a un punto di confusione estrema; la gente diventa attaccata a come appare, a com’è cortese, imperturbabile o potente. La personalità ignora la realtà della morte, non si rende conto di essere solo una costruzione e trascura la saggezza. Così le persone che non riescono a gestire la spinta e l’attrazione delle sensazioni si gettano in un abisso quando perdono il lavoro, o ancora si infuriano per il desiderio di vendetta quando si sentono insultate, ignorate o mortificate. Si lasciano andare perché si sentono falliti come persone o si infuriano perché il loro riflesso sarebbe di reagire vendicandosi o insultando e se non seguono l’istinto soffrono perché pensano di tradire un sé che invece non esiste. Con il punto di vista del sé, la saggezza non è sviluppata e la nostra personalità non è in grado di gestire in modo equilibrato e pacifico quello che la vita offre.

Incontrare le onde

La sete psicologica può essere affrontata saggiamente con la pratica della meditazione. Allorché meditiamo, spegniamo il riflettore del contatto sensoriale e ci sediamo quietamente per creare un ambiente calmo e introspettivo. A causa di questa calma di fondo (samatha), l’impulso che sorge con il contatto sensoriale è tenuto sotto controllo e l’urgenza di scappare via è controllata richiamando l’attenzione a sentire la presenza del corpo, qui e ora. Con la quiete avviamo un processo di valutazione degli impulsi che è l’inizio dello sviluppo dell’intuizione (vipassanā). Mentre meditiamo con l’intuizione, notiamo la caratteristica soggiacente di tutto ciò che cattura la nostra attenzione e che fa sentire irrequieti o intrappolati. Che si tratti di un pensiero preoccupato o di un progetto entusiasmante, è accompagnato da una pressione senza riposo, da un’incapacità di rimanere quieti o stare bene con se stessi. C’è sempre da qualche parte un afferrare, uno spingere, un richiamare o un lusingare. È un’esistenza inquieta e superarla significa incontrare queste onde con le pāramī. Al riguardo, l’intuizione-investigazione si focalizza sulla qualità soggiacente dell’onda, piuttosto che sul contenuto che agita la mente. La saggezza dell’intuizione accantona i tribunali del passato e la prognosi del futuro, non fa alcuna richiesta e non sa come le cose dovrebbero essere. L’intuizione incoraggia invece le capacità a collegarsi con queste correnti sotterranee. Non cerca di appiattire le onde o di spianare il mare; non costruisce muri o si ritira; semplicemente resta sull’autentico terreno della consapevolezza e lascia che le onde passino momento per momento. Ecco perché una persona saggia si diletta nell’incontrare le onde: è in questo modo che la vera forza e la bellezza della mente si manifestano.

La pratica della meditazione camminata

Per illustrare le mie parole farò riferimento alla meditazione camminata in cui il processo che si svolge in ogni istante è molto evidente. C’è la realtà di fare fisicamente un passo alla volta, qualcosa di molto utile per rallentare solo un passo alla volta. Sentiamo il sottile cambiamento delle pressioni e lo sforzo nel muovere il corpo, e impariamo a camminare senza tensione. Facciamo un percorso tra i venti e i trenta passi (non troppo corto né troppo lungo) e ci fermiamo deliberatamente alla fine di ogni tratto. Tuttavia, badiamo a non fermarci solo fisicamente ma anche psicologicamente – per sospendere il flusso della mente ed essere semplicemente presenti. All’interno di questa pratica continuiamo a tornare al punto di riferimento di essere presenti al corpo, e allo spegnersi delle risonanze e degli echi di ciò che si è manifestato per noi in quella ventina di passi. Ci fermiamo e badiamo attentamente a stare in piedi fermi. Questo spostamento dal moto allo stare in piedi fermi è piuttosto significativo e utile, dal momento che in questo tipo di meditazione si è continuamente riportati indietro alla pienezza del corpo senza scopo, e c’è un senso di presenza aperta. Proponiamoci poi deliberatamente di camminare, scegliendolo con un senso di buona volontà e andando fino in fondo.

In ogni processo meditativo uno degli obiettivi è quello di ripulire la mente dagli stati non salutari. È un po’ come lavare una camicia. Si suppone che noi applichiamo un po’ di energia e la strofiniamo in modo che lo sporco venga via – ma senza lacerare il tessuto. Perciò, con la meditazione camminata, il passo è deciso, definito chiaramente, ma un passo alla volta; è uno sforzo delicato ma persistente. Include i momenti di riposo. Quando ci esercitiamo così, abbiamo il tempo di fermarci e riesaminarci, e questo coinvolge la mente pensante, calmandola. Connettere la nostra mente al camminare ci aiuta a vedere, e a sentire, dove cominciamo a farci prendere dal panico o ci indigniamo per un particolare ricordo, persona o attività. Poi possiamo mettere a fuoco questo contenuto con il seguente atteggiamento: “Va bene, ora guardiamo. Cos’è questa animosità, gelosia o desiderio? Su che cosa si fonda?”. Osserviamo quello stato. Possiamo trovarci a percorrere su e giù il sentiero della camminata, pensando: “Ora glielo dirò, lo sistemerò io!”. Ma, stabilizzando l’energia di quell’impulso con la camminata, usciamo dalla sua presa. Non possiamo arrabbiarci con qualcuno con calma e gentilezza: se manteniamo la mente sullo sfondo della camminata (o del respiro), essa non può sostenere uno stato teso e irritato.

La pratica della camminata fornisce un continuum di sforzo ed energia, insieme al continuum di una calma e saldezza. Noi impariamo a lasciare che il pensiero vada e venga, senza infondere in esso energia, e senza combattere con noi stessi. Grazie a questo possiamo cominciare a calmare la mente pensante. Avvalendoci di questo possiamo applicare la saggezza riflessiva all’osservazione della nostra mente o cuore. Abbiamo uno sfondo calmo rispetto al quale possiamo guardare dov’è il ribollire. Allora possiamo vedere dove sono gli impedimenti e gli attaccamenti e trovare il modo di lasciarli andare. Cominciamo a scorgere i ritmi e gli spazi tra i pensieri, dove questi possono essere fermati e dissolti. E vediamo: “Ah, questo è il punto del lasciar andare”; oppure: “Ecco dove mi aggrappo”. Poi c’è un lampo di realizzazione delle Quattro Nobili Verità. Questo è il modo in cui la calma e l’intuizione lavorano insieme.

Realizzazione: il fiorire della saggezza

Ciò che vediamo con l’intuizione è che tutta la nostra avversione, avidità,
preoccupazione si raccoglie intorno alle percezioni o alle impressioni
. Non sono innate, e non sono il sé. Per esempio, quando non ci piace una persona, la persona nella nostra mente è in realtà un accumulo di varie impressioni che ci irritano. Non ci ricordiamo le sofferenze, la virtù o la nobiltà di quella persona; ricordiamo invece la sua mancanza di puntualità, l’avidità o l’atteggiamento non collaborativo. In questo modo costruiamo un’immagine di una persona sulla base di alcune percezioni. Ci chiediamo: “In che modo la mia mente ha tracciato questa particolare immagine?”. Poi cominciamo a capire che quelle percezioni sono impressioni selettive fondate sulla sofferenza e sul non essere in contatto con l’onda del dolore, o non essere in grado di gestirla. Perciò essa resta bloccata dentro di noi e non può defluire. Non ci piacciono le cose irritanti; ma se non siamo abbastanza saggi da riconoscerlo e lasciare andare, se per l’ignoranza cerchiamo di proteggerci da quella irritazione, questi fastidi si incastrano nell’ansia e nell’avversione. Possiamo superarli solo se li guardiamo all’interno, nel modo in cui sono causati, e li lasciamo passare dentro di noi.

Qui può essere utile narrare un aneddoto. Riguarda l’uomo che, con un enorme atto di generosità, donò al Saṅgha un terreno boschivo e aveva alcune idee su come ciò dovesse avvenire. Ma nessuno ritenne le sue idee fossero utili, e poiché era una persona che teneva molto alle proprie idee, rimase così deluso che non riuscì a venire al monastero per diciotto anni. anni. Trascorse invece quel periodo a starsene seduto in casa, arrovellandosi. Alla fine riuscì a superare la situazione di stallo e venne al monastero. Qualcuno lo portò a fare una passeggiata nel bosco – il vero bosco, non quello immaginato con le sue “idee” – ed egli vide quanto era bello. Disse: “Mi sono arrovellato per diciotto anni, pensando che fosse tutto rovinato – ed è tutto perfetto!”. Non era il metodo voluto da lui, ma egli riuscì a capire che le cose non dovevano andare secondo le sue idee. E sul suo viso spuntò un grande sorriso pieno di gioia. Si poteva vedere un’enorme massa di ansietà e amarezza cadere come un’orribile crosta dalla ferita che gli aveva inflitto l’attaccamento alle sue idee. E al di sotto era fresco e gioioso. Ecco cosa significa la realizzazione.

La mente ignorante affonda i suoi denti in qualcosa e ne è presa all’amo. Poi costruisce una percezione che non vogliamo sia messa in dubbio. Ci aggrappiamo alle nostre impressioni e pensiamo: ‘Non parlerò con loro. A ogni modo non capiscono’. Siamo infatuati del nostro punto di vista perché ci fa sentire forti, anche se induce in noi un senso di infelicità. Ecco quanto è contorta la taṇhā. Ma per sbloccare l’avversione, non dobbiamo avere ragione o torto. Tutto ciò che ci serve è semplicemente stare con l’altra persona o con l’oggetto irritante e riconoscere che hanno anche caratteristiche diverse da quelle che la nostra struttura mentale ci ha mostrato.

Possiamo avviare questo processo nei nostri stessi confronti! Cominciamo così a liberarci dalle nostre percezioni e nozioni, riconoscendo con saggezza che gli schemi e i comportamenti della mente sono selettivi, incompleti e da non afferrare. Essi sono molto utili, perché ci mostrano dove ci aggrappiamo ciecamente a “il mio punto di vista”, “il mio modo di agire”. Questo punto di vista del sé è di sicuro un’abitudine di cui liberarsi. È inevitabile che la vita porti cose non particolarmente desiderate. Io mi manifesto in un modo diverso da come sarebbe quello ideale.

Ma posso lavorarci. Non c’è bisogno che mi aggrovigli in un ammasso contratto di odio verso cose che non sono come io desidero siano.

Con questo approccio, il taglio della spada della saggezza può essere leggero e pulito, una massa di sofferenza si stacca e noi ci sentiamo pervadere dal sollievo. È allora che sperimentiamo la realizzazione della saggezza, la sua fioritura, anche se solo per alcuni momenti. Ci rendiamo conto che, piuttosto di rimanere attaccati al fine di possedere, oppure avere ragione o torto o qualsiasi altra cosa, la nostra mente può dispiegarsi nella chiarezza profonda.

Così, con la saggezza, non è necessario stare fuori dall’esperienza; ne
sosteniamo la consapevolezza e sbocciamo naturalmente attraverso e al di fuori di essa, come il loto spunta fuori dal fango
. Per noi, che siamo i soggetti agenti, riconoscere la capacità di godere della realizzazione, di essere aperti e di riceverla richiede anche saggezza. Perciò prendiamoci il tempo di assaporare e godere della realizzazione; allora essa fornirà un riscontro alla fiducia in una saggezza innata. Questo è un cambiamento di lignaggio: anziché appartenere a un corpo, a una famiglia, a un lavoro, al kamma o a una struttura mentale, apparteniamo alla saggezza.

Suggerimenti sulla saggezza

La saggezza nel buddhismo è più un’esperienza di relazione che una
fonte o un corpus di conoscenza. Si è saggi per quanto riguarda la causa e
l’effetto, e quindi si è attenti a ciò che succede e a come ci tocca. Per questo
motivo, il termine “discernimento” può in molti casi essere estremamente
calzante. In altre parole, la saggezza è più che altro qualcosa che facciamo,
in modo che si possa verificare un’apertura alla chiarezza trascendente. Lo sviluppo più elevato della facoltà della saggezza è la chiarezza riguardo alle Quattro Nobili Verità e verso la natura impersonale e mutevole di quello che presupponiamo sia la nostra realtà.

Riflessione

Quando riconoscete i vostri pensieri/emozioni e vi focalizzate su essi, notate come la mente fa il suo ingresso nell’esperienza di esserne consapevole piuttosto che di identificarsi con essi. Valorizzate questa consapevolezza mettendola in primo piano e svincolandovi dalle attività della mente e del cuore senza negare, censurare o proliferare (attività mentali) sul vostro comportamento mentale. Notate che un insieme di chiara attenzione e di spaziosità emotiva sostiene questo tipo di consapevolezza e che l’effetto che ne deriva è una maggiore calma e saggezza nei confronti della mente. Una volta stabilito questo distacco o non coinvolgimento, si può lavorare sull’applicazione della benevolenza a stati d’animo/pensieri di avversione, oppure a rinunciare a stati d’animo/pensieri di desiderio.

Azione

Impiegate la chiara consapevolezza (piuttosto che un giudizio acquisito)
per seguire le tracce della sensazione, dell’energia e dei conseguenti effetti
secondari di impulsi mentali salutari e non salutari. Potete anche fare una breve pausa e notare la qualità della mente che accompagna piccole rea-
zioni abituali: è offuscata, furtiva o chiara?

Notate la fine di un’esperienza – come per esempio una conversazione
o un compito; o quando finite di leggere un libro, o anche il momento in
cui vi sedete dopo una camminata. Aggiungete una pausa di cinque secondi (o più) prima di passare alla cosa successiva. In quei pochi momenti rivolgete l’investigazione verso l’interno: ‘Cosa è successo? Che effetto ha avuto? Come influenza quello che faccio ora?’. Quando leggete testi spirituali, fatelo lentamente. Siate pronti a fermarvi dopo un paragrafo o due e lasciate che gli effetti e i significati di quella lettura scendano dentro di voi. Quando è saggio fermarsi e prestare attenzione alla propria mente?

Se parlate o ascoltate gli altri, ampliate l’estensione della vostra attenzione per includere la consapevolezza del vostro corpo; notate qualsiasi effetto. Cercate periodicamente di essere consapevoli del vostro respiro e usatelo per calmare o ancorare le vostre emozioni. In alternativa, ampliate la vostra attenzione per includere la consapevolezza dei suoni nel sottofondo.

Meditazione

Notate il vostro atteggiamento quando cominciate la meditazione. Fate una pausa per alcuni minuti e permettete al flusso della mente di manifestarsi, accantonando ogni reazione immediata. Siete in grado di cogliere nell’insieme il movimento di tutte queste onde? E se sono correnti di preoccupazione, di frustrazione o di ambizione, quale atteggiamento antagonistico dovreste sostenere nella mente mentre meditate? Quale sarebbe di fatto un tema meditativo appropriato? Può cambiare ogni giorno, ma potreste trovare utile cominciare la sessione di meditazione riflettendo sui seguenti quattro temi: la benevolenza; la mortalità; il bene che avete fatto o quello che avete ricevuto; essi contribuiranno a condurre la vostra mente a un equilibrio fra la testa e il cuore. Quando sentite questo effetto, scegliete un tema meditativo dal quale ora la vostra mente desidera essere guidata.

Notate il flusso dei pensieri e delle impressioni mentali. Cercate di notare il punto in cui termina un pensiero. Prendete nota anche del momento in cui il pensiero è nella sua piena intensità; sintonizzatevi quindi sul processo cangiante del vostro flusso di pensieri, ritraendovi dall’impegno sui contenuti. La sintonia con la natura mutevole dei fenomeni è una via diretta alla liberazione.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – La rinuncia (il lasciare andare) – cap. 3

Lasciare andare

Esaminare bisogni e desideri

Nel capitolo precedente ho parlato della rinuncia. Ora aggiungerò qualcos’altro perché ciò che comporta può essere frainteso e il suo valore sottovalutato. Lungi dall’essere un percorso che conduce alla penuria, la rinuncia è la via che porta alla realizzazione dell’appagamento. Porta la mente in un luogo più stabile, dove può accedere a grande agio e chiarezza. Così come ogni altra perfezione, la rinuncia sostiene la saggezza (e ne dipende). La rinuncia saggia va contro va contro la corrente del ingannevole presupposto secondo cui la felicità si ottiene con l’accumulazione di qualcosa di materiale o perfino di spirituale. E’ proprio questo presupposto che da un lato ci promette una via per l’uscita dall’insoddisfazione e dall’altro alimenta il concetto secondo cui noi ci sentiamo carenti e quindi abbiamo bisogno di sostenerci a qualcosa (incredibile alimenta se stesso!). Fino a che questo presupposto ci tiene in suo potere non potremo mai trovare l’equilibrio indipendente del Dhamma. Per cui, se si vuole veramente la libertà dalla sofferenza creata dalla mente, bisogna essere pronti a sfidare il presupposto, altrimenti si inseguiranno per sempre i propri miraggi e proiezioni.

Conoscete qualcuno che, ingozzandosi di oggetti visibili, suoni, sapori e così via, abbia realizzato il potenziale umano o sia in pace? Di sicuro non è affatto facile abbandonare tale dipendenza. Ingozzarsi con i sensi sarà per noi un’inclinazione naturale fino a quando non avremo realizzato qualcosa di più soddisfacente e meno soggetto a perdita, a gelosia o dipendenza. È per questo che la vera rinuncia, al contrario della repressione, può svilupparsi solo se si trova un soddisfacimento mediante la coltivazione della mente.

Con questo non si vuole negare il sostegno materiale adeguato in termini di cibo adeguato, abbigliamento, riparo e medicine ma piuttosto riconoscere che il termine “adeguato” può significare una certa quantità per una persona ed una diversa per un’altra. E così, il senso di “adeguato” continua a scivolare via dalla portata della mano che si protende ad afferrare. La ragione di ciò è nello stesso riflesso di afferrare: quando stringiamo la presa ci irrigidiamo, perdiamo la visuale prospettica e limitiamo il potenziale della mente. In questo stato, perdiamo l’equilibrio così ci protendiamo per afferrare qualcos’altro, e poi roviniamo in basso.

Coltivare gradualmente il nostro potenziale spirituale elimina il senso della mancanza e di conseguenza concede soddisfazione e forza interiore a noi stessi. Attenersi se non altro allo spirito di questa coltivazione controlla la marea dell’ignoranza: smettiamo di ignorare l’evidenza della sofferenza nella mano che afferra. Una volta che abbiamo sperimentato la chiarezza, la determinazione e le capacità di gestire il richiamo dei sensi, la rinuncia può andare oltre: possiamo lasciar andare gli attaccamenti alla posizione sociale, alle nostre opinioni e anche a chi e come presupponiamo di essere.

La rinuncia è in due fasi: lasciare andare e abbandonare completamente. Il lasciare andare è la rinuncia a cercare di essere qualcosa, all’attaccamento al divenire e ai punti di vista (questi sono due flutti). Il completo abbandono è il distacco dal senso del sé, dall’essere qualsiasi cosa compiuta e coerente, sottile o grossolana, in termini di stati mentali o di consapevolezza. Questo è l’abbandono dell’ignoranza (altro flutto). Pertanto lo sviluppo di questa perfezione funziona in tandem con lo sviluppo della saggezza. Quando la mente è salda, composta e chiara, può mantenersi libera dai sostegni abituali.

La rinuncia comporta un’indagine introspettiva: esaminare i propri desideri e tradurre saggiamente l’avidità individuando solo bisogni rilevanti. Continuate quindi a chiedervi: “Ho davvero bisogno di questa cosa?”. Quando indaghiamo i bisogni al posto dei desideri, scopriamo che le necessità tendono a semplificare e a portarci attraverso la giungla della fantasia fino a un luogo di valore. Però, se io presto attenzione ai desideri, dopo che si è presentato un desiderio, in breve tempo se ne aggiunge un altro… e poi un altro… finché mi sento inadeguato e deprivato. Ma forse la smania di uscire dalla noia o da un senso di vuoto potrebbe essere placata – invece che da un altro spuntino – da un atto di generosità o di gentilezza verso qualcun altro. E forse il gran bisogno di divertimento potrebbe essere affrontato rendendo salde e brillanti le energie della mente attraverso la meditazione.

Le necessità possono variare a seconda del momento della vita o di una particolare situazione; per cui, al fine di valutare i bisogni del momento occorre una continua coltivazione della saggezza. Perciò, se osserviamo le impressioni e gli obiettivi che si presentano nella vita, è bene ricordare: ‘Sembra che ora le cose siano in questo modo, e questa sembra la direzione da prendere. Che cosa mi serve e quanto vorrei  mpegnarmi?’. Allora si ha realmente l’opportunità di mettere in pratica la saggezza nella propria vita. Questo processo per cui i bisogni relativi sono esaminati a fondo, piuttosto che negati, è una delle caratteristiche dell’approccio del Buddha alla rinuncia. È una pratica delicata e riflessiva, non un ideale ascetico.

Restare fermi di fronte ai flutti

Questi flutti – il divenire, i punti di vista e l’ignoranza – diventano più evidenti mano a mano che coltiviamo la meditazione introspettiva. Il divenire è l’avidità che riunisce la condizione sociale, il ruolo della personalità e i nostri successi, perché questi ci esaltano e ci valorizzano.

Quando la mente prende posizione sul divenire, abbiamo la tendenza a farci trascinare via dal desiderio di essere qualcosa (bhava) che sentiamo di non essere. Essere in pace con il modo in cui siamo proprio nel momento presente richiede chiarezza nei confronti della mente, delle sue energie e dei suoi stati d’animo. Perciò essere in pace non significa che manchi spazio per la crescita, ma che l’interesse per la coltivazione può venire da un desiderio salutare per la verità e l’accettazione di sé piuttosto che da una necessità impossibile da soddisfare – la gratificazione di essere qualcosa.

Il divenire opera anche controcorrente in quanto urgenza di essere nulla, di separarsi da ciò che presumiamo di essere (vibhava). Così, se pensiamo di non essere diventati importanti, possiamo sentirci dei falliti. A causa di questa urgenza di spingere via ciò che pensa di essere, la gente cerca l’oblio nel bere e nelle droghe. Questo flutto del divenire è quindi una causa che fa perdere autostima, soddisfazione e saggezza. Quando si è dentro questo flutto, si fugge da una presupposizione falsa e si va verso un miraggio.

Quando questo flutto ci rende insensibili al nostro potenziale, una delle certezze illusorie che offre è quella di diventare devoti, costruendosi un’identità con punti di vista religiosi, credenze o inclinazioni politiche. Questa lente identitaria è chiamata “punto di vista del sé”. “Questo è vero, questo è giusto, tutti coloro che non condividono i miei punti di vista sono degli illusi, dei maledetti” e si diventa fondamentalisti. Il fondamentalismo dà alle persone un forte senso di appartenenza alla tribù del giusto e del vero, il che deriva dall’incapacità di gestire la fluidità dell’essere aperti. Di solita capita che possiamo sentire l’energia salirci alla testa e uno scudo formarsi sopra il cuore per tenerci chiusi; possiamo indurirci per difenderci da chi ha un punto di vista diverso. Perciò quanto dobbiamo notare non è il punto di vista o l’altra persona, ma lo spostamento di energia che ci fa pulsare forte il cuore e ronzare i pensieri trasformandoli in postazioni di combattimento. Questo è il fuoco dell’ignoranza. Per placarlo occorre ritornare al corpo e rendere il cuore saldo per mezzo del respiro. Per spegnere le fiamme bisogna interrogarsi: “L’attaccamento a tutto questo provoca sofferenza a me stesso e agli altri? Da quale urgenza, flutto o riflesso inconscio proviene? Può essere lasciato andare? E come?”. Questa è l’indagine all’interno delle Quattro Nobili Verità, il cuore dell’insegnamento del Buddha.

Incontare i flutti

L’uscita dalla situazione di stallo dei flutti comincia con l’abilità di riconoscerli piuttosto che reprimerli: con l’essere testimoni di quello che ci fanno. Notiamo per esempio il richiamo dei sensi o l’attrazione del successo in termini di tensioni e di spinta che ci possono dare, come pure lo sbandamento che si verifica con la perdita e il fallimento. Poi c’è il “Io non sono così, dovrei essere un altra cosa” del dubbio assillante e della presunzione. Riconoscerli per ciò che sono, piuttosto che seguirli o far finta che non stiano accadendo, è l’inizio della rinuncia.

Così la rinuncia è la via d’accesso alla meditazione, non è negazione o repressione. Reprimere l’istinto sensuale semplicemente condannandolo non porta molto lontano. Piuttosto che focalizzarci sugli oggetti proposti dal desiderio, possiamo sviluppare l’abilità di guardare direttamente dentro l’energia del desiderio e attraverso di esso. Possiamo accedere all’energia che conduce i pensieri e le immagini, e notare  quell’energia nell’irrequietezza, nel blocco e nella passione della mente. Tramite la coltivazione della mente, possiamo dirigere quell’energia lungo canali di benevolenza o di calma corporea che ci danno un benessere più duraturo rispetto alla rapida soluzione della sensualità.

Una mente sintonizzata sulla rinuncia conosce l’atteggiamento della “non-opzione”: “Ecco com’è ora”. Il chiaro riconoscimento e l’accettazione emotiva contribuiscono inoltre a spostare l’attenzione verso un luogo più profondo sotto i flutti. Dato che questi flutti si manifestano in termini di pensieri, emozioni ed energie, il modo di capovolgerli è triplice: intellettuale, emotivo e energetico. Avere una comprensione intellettuale della natura illusoria dell’attaccamento e dei benefici del lasciar andare è un buon inizio, ma abbiamo bisogno di accettare emotivamente la loro presenza. Questa sincerità raccoglie e focalizza la mente, rendendola capace di invertire l’energia dei flutti. Non possiamo attraversarli solo con le buone idee.

Quando incontriamo un flutto sentiamo direttamente le onde dell’esperienza, sentiamo la loro energia. Questo primo contatto si manifesta come un disturbo, un’increspatura nel flusso di momenti consci. Qualcosa si sente toccato, e rabbrividisce. Poi giunge il secondo contatto, che noi interpretiamo come “Sto per essere colpito/toccato”, “Quello mi ha colpito/toccato”. Questa seconda impressione, prodotta dal cuore, è ciò che creiamo sulla base del contatto. È dove le nostre psicologie di essere offesi, richiesti o apprezzati si manifestano. E, nel bene o nel male, ci caschiamo completamente; è dove l’“io” sorge come soggetto attivo. La sensazione è quella di essere spostati o addirittura scagliati attorno in una serie di reazioni abitudinarie e da lì sorgeranno tutte le voci del dubbio, e le storie di “cosa io sono”, dove si possono sentire tutte le voci assillanti che sorgono. Probabilmente le abbiamo sentite. Una sussurra: “Ma chi me lo fa fare?”; un’altra: Perché non dovrei avere quello che ha lei? È un mio diritto!”; un’altra ancora: “Non riuscirò mai a farlo, mi manca la forza di volontà”. “ma si, domani smetto”. Qui è dove il Buddha ha vinto Māra. Dobbiamo riconoscere tutto ciò come una semplice attività che può essere abbandonata. Abbiamo la possibilità di non agire come il sé creato da questa attività e sommerso dal flutto. Non è forse un’opportunità? Possiamo smettere di creare qualcosa dalle increspature e dalle onde del contatto. Così l’agitazione e il movimento si attenuano, finché, anche quando le orecchie, gli occhi ecc. ricevono impressioni, il cuore rimane saldo.

Accettare il flusso dell’esperienza

Al fine della purezza dobbiamo trascendere il flutto piuttosto che reprimerlo; dobbiamo conoscere il richiamo del piacere, sentirlo e rilassarlo. Ci occorre acquisire una sensibilità per come funziona l’attrazione e per come si libera quell’energia affidandola alla consapevolezza. Questa è un’inclinazione del cuore piuttosto che una tecnica, e la consapevolezza viene portata in primo piano attraverso la pazienza e la gentilezza. Rinunciamo quindi alle idee su chi siamo e su come le cose dovrebbero essere, e  respiriamo invece pazienza e gentilezza nell’attaccamento e nell’agitazione. Allora possiamo stare con l’attaccamento in un modo chiaro ma non giudicante.

Quando l’energia sembra cercare di gettarci all’esterno, limitiamoci ad aprire la consapevolezza, ampliamo e ammorbidiamo. Questo può richiedere di manifestare tutte le nostre pāramī; può esigere di essere più completi e reali che nelle nostre attività quotidiane. A volte sembra di trovare solo un punto di appoggio momentaneo. Ma un momento per volta è tutto ciò che ci serve, e in realtà è tutto ciò che abbiamo. Abbandoniamo quindi la personalità storica legata al tempo e lasciamo che l’onda ci passi attraverso. È come stare nel mare e lasciare che le onde sorgano, si infrangano su di noi e poi si abbassino. Se continuiamo a ritrarci dall’onda, quella ci insegue. Se restiamo fermi e lasciamo che l’onda scorra su di noi, manteniamo la nostra postazione nei confronti del dukkha. Vediamo che la sua natura è sorgere e cessare. Sappiamo che noi non siamo quell’onda, né siamo qualcuno che ha esperienza delle onde, oppure chi non dovrebbe averne alcuna esperienza. Non siamo presi all’amo dai suoni, dagli oggetti visivi, dai punti di vista o dalla loro assenza, o dall’essere o non essere qualcuno che li sperimenta. Se facciamo di questo processo una persona, siamo travolti dal flutto. Ecco il fine ultimo della rinuncia: abbandonare questi attaccamenti, la sensazione del bisogno inconscio di essere qualcosa e della propria insufficienza nel momento presente. Noi rinunciamo e abbandoniamo l’attaccamento a tutto questo, in modo che, invece di perderci e logorarci, ci riempiamo con la ricca essenza della consapevolezza.

L’illuminazione giunge attraverso la rinuncia

L’Illuminazione implica il far deragliare il senso di mancanza e decostruirlo. È lo sbarazzarsi di quella parte psicologica che in ogni momento dice: “C’è qualcos’altro che dovrei avere in questo momento. C’è qualcos’altro che adesso dovrei essere. C’è un altro luogo dove ora potrei andare. C’è qualcun altro che al momento sta meglio di me. Adesso non sono completo. Ora devo essere qualcosa”. Inseguendo tutto questo, la fame non se ne va. Può assumere forme più interessanti, può diventare più mirata, ma non se ne va con il riempirsi. Si dissolve attraverso la rinuncia. Dobbiamo lasciar andare il buco nero del “non basta”.

Anche se sembra un buco o la mancanza di qualcosa, è in realtà un blocco. È la pressione accumulata dei flutti. Ciò che è necessario allora non è riempire, ma liberare. A livello psicologico questo significa lavorare contro le correnti del bhava-vibhava. Cos’è che sembra sbagliato in questo momento? Cos’è che ora non dovrebbe essere qui?  Qualunque cosa sia, accettiamola. Più la rifiutiamo, più cresce. Come vogliamo che siano le cose in questo preciso istante? Abbandoniamole. Più le vogliamo, più lontano le cacciamo. La pratica della vita quotidiana consiste nel continuare a lavorare contro il bhava-vibhava, specialmente il vibhava che dice: “Sono stufo. Ne ho abbastanza. Non voglio essere in questa situazione. Non riesco a sopportarla neppure per un altro minuto!”. Accettiamolo; schiviamo il contenuto e diamo il benvenuto all’energia che sta sorgendo. Io lo trovo molto utile quando la mente si fa prendere dal panico.

La liberazione richiede una realizzazione relativa. In termini di Dhamma, questa realizzazione è la fioritura dei sette fattori di Illuminazione: 1) consapevolezza, 2) indagine introspettiva, 3) energia, 4) gioia, 5) felicità, 6) concentrazione 7) equanimità. Questi sono i fattori che cominciano a formarsi quando incontriamo il nostro mondo personale. Perciò, quando vogliamo conoscere noi stessi, piuttosto che affermarci, negarci, compiacerci o annullarci, quell’interesse sostiene la consapevolezza e l’indagine introspettiva.

Siamo saldamente i testimoni del nostro contenuto mentale, lo teniamo a mente e lo esaminiamo: “È utile? Conduce al mio bene o a quello di qualcun altro? Quanto è stabile e affidabile questo pensiero o questa emozione?”. Ciò sostiene le pāramī: vediamo come certe intenzioni, quali la generosità e la chiarezza etica, siano benefiche, e così via. Le pāramī allora sostengono i fattori di Illuminazione, perché ci danno intenzioni meritevoli che continuano a infonderci energia, mentre ci ritiriamo da quelle non salutari. E ciò dà alla mente chiarezza e contentezza. Nella meditazione, quando ci focalizziamo su questa contentezza, essa diviene gioia – un’energia elevata, pervasiva – e felicità, una sensazione di appagamento. Il focalizzarsi su di esse dà origine alla concentrazione, e questa sostiene l’equanimità – un equilibrio dell’energia con un senso di spaziosità.

il Sentiero richiede l’integrazione di tutti i livelli e in ciò le pāramī svolgono un ruolo importante. L’aspetto della rinuncia in questo veicolo è qui per addestrarci: non ci si deve attaccare a qualsiasi cosa si manifesti a qualsivoglia livello né a se stessi né a un sé cosmico. Quando questa lezione è appresa fino alle ultime propaggini del proprio sistema nervoso e psicologico, allora si può andare Oltre.

Suggerimenti sulla rinuncia / lasciare andare

La rinuncia porta chiarezza nei confronti dei bisogni e dei desideri. Ha un effetto corroborante in quanto ci offre la possibilità di dimorare liberi dalla pressione del consumismo e della posizione sociale. È anche un tonico per il cuore e un requisito per la meditazione, perché rivolge la nostra attenzione al confortevole qui e ora – non ci richiede di avere qualcosa o di essere qualcuno di speciale. Il presente sorge senza il nostro consenso. Lasciare che le idee e gli stati d’animo sorgano e passino nel presente, nello spirito di una gentile accettazione, porta all’insight e a una stabilità serena.

Riflessione

Immaginate di portare con voi, sulla schiena, ciò di cui avete veramente bisogno. Che cosa prendereste? Fra tutto quello che è rimasto, per che cosa fareste un secondo viaggio? Pensate che tra pochi anni saranno venduti articoli che sembreranno irresistibili – eppure oggi viviamo benissimo senza di essi. Dov’è la pressione consumistica? Ogni volta che avete la sensazione di “Non basta”, chiedetevi: “Quand’è che «bastava»? E quando «basterà»?”. “Tutto ciò che è mio, che io amo e considero gradevole, cambierà, si separerà da me”. Vero o falso? Considerate che quando moriamo non c’è niente che possiamo portare con noi – tranne la nostra struttura mentale. A cosa volete attaccarvi? Come sarà quando non ci sarà più? Potete adoperarvi fin d’ora per diminuire il vostro attaccamento?

Azione

Notate un oggetto che avete tenuto per anni su una mensola, o un libro su uno scaffale che avete letto molto tempo fa. Portatelo in un’altra stanza o mettetelo in un cassetto. Cosa manca? Come vi sentite? Interrompete un lavoro prima che l’energia si esaurisca, o quando si è esaurita. Considerate il senso di “non finito”. Quando mai sarà finito? Allenatevi a lavorare nell’ambito di queste linee guida; preparatevi fin d’ora a lasciare progetti incompiuti e, piuttosto che cercare di completarli, trascorrete qualche minuto a riordinare e a rendere più facile la ripresa del lavoro il giorno dopo o in un periodo successivo.

Meditazione

State in piedi con le gambe dritte. Rilassate la zona intorno alle ginocchia
in modo che le gambe non siano bloccate e il peso del corpo sia distribuito uniformemente sulle suole dei piedi. Lasciate pendere le braccia leggermente discostate dai fianchi e rilassate le spalle e il viso. State in piedi per cinque minuti, riconoscendo la spinta a fare, a sapere o a sentire qualcosa, ma rilassandola. Accettatevi così come siete adesso. Se avete più tempo, potete portare questo rilassamento nella posizione seduta. Un modo di coltivare la concentrazione e l’assorbimento meditativo è continuare semplicemente a rivedere ciò che fate mentalmente senza averne bisogno – preoccuparvi, pianificare, ambire a risultati – e smetterla. Nel contempo, riguardo alle vostre azioni salutari – sedere eretti, contemplare l’inspirazione e l’espirazione – “fatelo” accuratamente (si tratta di ritornarvi e rimanervi più che in ogni altra attività) e traetene diletto.

Ajahn Sucitto – Le perfezioni – Attraversare i flutti (cap. 1)

In questo libro il Maestro tratta l’argomento delle 10 paramì o dieci perfezioni, che verranno trattate in capitoli separati. Da qui l’idea di proporre un egual numero di post che sono il frutto di questo studio. Di seguito il link al testo originale tratto dal sito forestshanga.org

Attraversare i flutti

Un modo di definire la liberazione o un percorso spirituale è usare la metafora di “attraversare i flutti”. L’interesse per un profondo cambiamento è innescato dalla sensazione di essere spazzati via dagli eventi, di essere sopraffatti, o sommersi da una marea di preoccupazioni, doveri e pressioni. Questi sono i “flutti”. E attraversarli significa trovare la terra ferma. Questo libro offre alcune linee guida e temi per la pratica che ci metteranno in condizione di svolgere tale compito.

La nostra esperienza del mondo è fondersi attraverso l’incontro con eventi esterni ed interni. La fusione è consapevolezza di qualcosa che accade intorno o dentro di noi e che va ad attivare: 1- un momento di riconoscimento di ciò che la cosa è; 2- un insieme di livelli di interesse. Ad esempio incontriamo una persona che ci vuole parlare. I livelli di interesse sono: attrazione e disponibilità, repulsione e rifiuto, ma anche neutralità, allarme, ecc… Sulla base di queste sensazioni compiamo azioni: avvicinarsi e cominciare a parlare perché abbiamo lo giudichiamo una brava persona, oppure stare sul “chi va là” e cercare nella memoria per avere ulteriori informazioni su quella persona o su quello che dice, se gli possiamo credere o se ci vuole ingannare, in ultimo evitarla perché magari ha un odore sgradevole. Questa esperienza occupa totalmente la nostra attenzione, talvolta esasperandola e portandola fino al punto di congestione. Il bello (o il brutto) è che mentre pensiamo a tutto questo la nostra mente continua ad aggiungere continuamente dati e ad elaborarli sommandoli a quelli che ha già. Nota personale: Mi viene il fiato corto a pensarci, perfino adesso che lo sto scrivendo!

Questo sovraccarico si sviluppa in spossatezza, o in una tensione nella nostra vita che diminuisce la pace e può predisporre la mente a un oblio temporaneo concesso da bevande, droghe o intrattenimento al fine di reperire alcuni sistemi di gestire la routine quotidiana. Questa è la perdita di equilibrio che si intende essere sommersi dai flutti.

D’altro canto, possiamo aver avuto l’esperienza di una calma consapevole in cui le preoccupazioni del giorno e tutte le attività interne abituali si sono fermate o acquietate. Un’inquietudine e una tensione sottostanti che a stento notavamo, perché erano abitualmente normali, sono cessate e noi e il mondo siamo cambiati in meglio. Questo “aprirsi” a un senso più ampio e più profondo è quanto chiamiamo “trascendenza”. Noi cambiamo, e il nostro mondo illusorio cambia. Nei termini della precedente metafora, è un emergere dai flutti.

Dhamma: un sentiero più che una tecnica

Le più utili metodologie che conducono alla trascendenza, sono quelle che possono essere integrate nella vita quotidiana con la minima quantità di dipendenza da circostanze o agenti esterni. Questo è ciò che il Buddha ha chiamato “Dhamma”, e che ha descritto come “Direttamente accessibile; Il Dhamma sostiene pratiche come l’attento pensiero riflessivo, la coltivazione della gentilezza e della compassione verso se stessi e gli altri, il calmare la mente nella meditazione e l’acquisire una comprensione trascendente dei fenomeni i quali strutturano e generano le nostre attività mentali. Se la mente viene guarita, rafforzata e calmata, se noi non siamo più trascinati via dalle nostra mente allora possiamo attraversare i flutti fino a raggiungere e rimanere saldi “sull’altra sponda”.

La sintesi del Dhamma del Buddha è quella formulata nelle Quattro Nobili Verità sulla sofferenza: 1) esiste la sofferenza come esperienza inevitabilmente connessa alla condizione umana; 2) le sofferenze hanno una causa; 3) la causa può essere eliminata; 4) esiste un Sentiero di pratiche che condurrà all’eliminazione dello stress e quindi alla cessazione della sofferenza stessa.

Come per ogni trasformazione, eliminare lo stress richiede azione e dedizione. A tal fine il Buddha espose argomenti e istruzioni che culminano nelle pratiche meditative per sostenere un’indagine approfondita della mente. L’insieme di istruzioni sono chiamate pāramī o pāramitā sono diventate di capitale importanza per la loro utilità e per la loro applicabilità nella vita quotidiana. I termini pāramī e pāramitā veicolano significati come “progressi” o “perfezioni”, e si riferiscono al coltivare intenzioni e azioni salutari per tutto il giorno.

Le perfezioni quotidiane

Le dieci pāramī sono:

  • la generosità (dāna)
  • la moralità (sīla)
  • la rinuncia (nekkhamma)
  • il discernimento o la saggezza (paññā)
  • l’energia (viriya)
  • la pazienza (khanti)
  • la verità (sacca)
  • l’impegno o la determinazione (adhiṭṭhāna)
  • la gentilezza (mettā)
  • l’equanimità (upekkhā)

Queste forniscono un modello per le energie e le attività della mente; include il nostro parlare e lavorare, i rapporti e le interazioni con gli altri, i momenti di introspezione privata, il prendere decisioni e il dare forma alle nostre direzioni di vita. Le pāramī portano la pratica spirituale in aree della nostra vita dove ci confondiamo, siamo soggetti a pressioni sociali e spesso siamo fortemente influenzati dallo stress. Esse possono deviare le attività interne che sono di intralcio e lasciare la mente in uno stato di chiarezza.

I quattro flutti

Il “flutto” è una sensazione che ci travolge quando sperimentiamo la sofferenza fisica (il dolore), la sofferenza mentale (esistenziale), oppure la sofferenza dovuta a certi tipi di “atteggiamenti” anche noti come i 5 impedimenti principali: il desiderio sensoriale, la malevolenza, la sonnolenza e il torpore, la preoccupazione irrequieta e il dubbio.

La sensazione che costituisce il flutto può essere di quattro tipi diversi: della sensualità, del divenire, dei punti di vista e dell’ignoranza. Essi danno luogo a quattro tipi di “correnti” (flutti) che scorrono sotto il gorgogliante fluire dell’attività mentale, dove rimangono invisibili finché non emergono. Nota personale: Ma quando emergono? Quando in alcuni momenti della nostra giornata assumiamo uno dei cinque atteggiamenti che sono impedimenti (che abbiamo menzionato poco sopra). Oppure sorgono quando sediamo immobili in silenzio per un po’, come per esempio quando siamo in meditazione. Se tenti di “spegnere” la mente, o di calmarla, lei si ribella ed ecco che arrivano i flutti! La mente inizia a vagare… verso questo e quello… verso le cose che progettiamo o dobbiamo fare, verso i ricordi (azioni positive o negative), verso quanto ci hanno fatto o detto, verso le idee o le cose che ci piacerebbe avere. Giungono anche giudizi, opinioni su quello che avremmo dovuto fare o riguardo agli altri. Questo è il flusso dell’attività mentale che assorbe la nostra attenzione, che sorge non invitato, spontaneo e che sembra inarrestabile. Abbiamo poco o nessun controllo su di esso, e il flusso è così abituale che è difficile immaginare come ci sentiremmo se ne fossimo privi. Questo girovagare incontrollabile tra passato e nel futuro, fra i desideri e i problemi, gioia e sofferenza è ciò che siamo, è la nostra esistenza nel Samsara.

Il flutto della sensualità origina sulla base delle sensazioni che fluiscono attraverso i nostri organi sensoriali (più la mente). Gli oggetti dei sensi offrono sensazioni visive, uditive, gustative, olfattive e tattili che possono essere spiacevoli o piacevoli (Nota personale: è corretto applicare una scala di valori nella misura delle sensazioni, in questo caso scala di piacevolezza da 0 a 100, dove 0 è spiacevole, 100 è piacevole e 50 è neutro. Se ci pensate bene il 50,00 è un valore estremamente raro, quindi anche infinitesimale, un oggetto è sempre o poco piacevole o piacevolissimo), ma nessun oggetto produce effettivamente il tipo di sensazione che tale corrente promette, se non nel modo più fugace; tuttavia li consideriamo irresistibili, attraenti e fonti di una reale soddisfazione. Talvolta è piacevole per un breve periodo e talaltra è spiacevole; ma il piacevole, una volta instauratosi, diventa normale… e poi noioso, dopo di che si manifesta il desiderio di nuove fonti di piacere. E’ necessario che noi prestiamo attenzione al mondo dei sensi con saggezza e sincerità. Occorre notare che è in un flutto, e che le sensazioni e gli stati mentali evocati dal flutto stesso cambiano. Allora l’illusione della sensualità non sorge; possiamo essere nel mondo sensoriale senza essere di quel mondo. L’input sensoriale, con il suo piacere e dispiacere, passa. Questo è quanto. È tutto quello che c’è.

Il flutto del divenire è inerente al tempo e l’identità. E’ quando la mente crea l’identità di un oggetto di esperienza: ciò che l’oggetto era, ciò che è adesso e come sarà, o meglio come noi crediamo sia giusto che dovrebbe essere in futuro. Ad esempio “Essendo stato questo, merito sicuramente di diventare quello”; oppure: “Non sono mai stato questo, quindi non diventerò mai uno di quelli”. In questi due esempi manca il tempo presente. Spesso capita che quando tentiamo di fare più attenzione al presente, l’unico tempo che effettivamente dovrebbe darci l’impressione più chiara di chi siamo, scopriamo che le immagini si frantumano perché tendiamo a credere che dal momento che le nostre azioni hanno effetti, noi “diventiamo” i risultati delle nostre azioni precedenti. Ma ciò che cambia è solo lo stato mentale che è passato da un momento precedente ad un altro seguente, quello attuale. Questa è la personificazione del flutto del divenire, creiamo un identità a partire da un pensiero e ce ne appropriamo. In realtà non c’è nessuno diventa qualcosa, possiamo notare che ciò che diventato è solo stato mentale del presente, solo quello.

È uno stato mentale salutare o nocivo, ma non è un’identità, è quello che è. Se fosse un’identità, saremmo in quello stato dalla nascita fino alla morte; non ci sarebbe possibilità di cambiamento, sviluppo o declino. Invece, proprio in ogni momento del presente possiamo fare un passo indietro dalla corrente di chi sembriamo essere e la visione del mondo che proietta. Per esempio: ieri sera hai bevuto troppo, non ti rendevi nemmeno conto di quello che facevi, hai litigato con il tuo vicino di casa che ti ha fatto un occhio nero. Adesso che ti sei appena svegliato, dolorante all’occhio gonfio pensi: “sono diventato un pessimo soggetto!”. Qui, il passo indietro di cui sopra, consisteva nel comprendere che conseguenze su di te potrebbe fare il bere troppo alcool e rinunciarvi. Solo con una mente chiara (e sobria!) possiamo riflettere, meditare e lasciare andare le cause della nostra sofferenza, al posto di evitarle e rifugiarsi nel bicchiere. Riflettendo su dove ci sta conducendo il flutto e chi sembriamo di essere dentro di esso, possiamo uscirne fuori abbastanza a lungo da scegliere una direzione diversa. In breve, il divenire non può essere evitato, ma possiamo riflettere su di esso, gestirlo e dirigerlo.

Per flusso del punto di vista si intende la nostra tendenza ad afferrare credenze, opinioni e dogmi per raggiungere una posizione, pensiero o conclusione ben definita e definitiva. Potrebbe essere ad esempio un’idea qualsiasi, da “Il buddhismo è la religione migliore” a “Le donne sono pessime guidatrici”. Tali generalizzazioni sommarie costituiscono una comoda base per prendere decisioni, per schierarsi e avere una certa visione del mondo. Il flutto dei punti di vista ha la caratteristica di riunire le persone in gruppi. Da questa prospettiva la mente può creare divisioni nette: tra il proprio partito e gli altri. Perciò il flutto dei punti di vista crea isolamento; e, in modo ancor più significativo, traccia un confine divisivo che non può essere attraversato da trattative. Un’altra caratteristica del flutto dei punti di vista è che a volte travalica la ragione così quando si sostengono le proprie credenze, bisogna notare lo scorrere dell’energia, il suo flutto che dilaga attraverso il cuore e sale alla testa, dove blocca modi alternativi di vedere le cose. Si può aspettare la prossima discussione in famiglia e osservare quanto si diventi offesi, convinti di avere ragione e categorici. Il flutto dei punti di vista gonfia l’ego ed inoltre sostiene l’identità del flutto del divenire. E’ proprio l’adesione al punto di vista, non il punto di vista stesso che è il fattore cruciale del problema. E’ questa azione mentale continua che taglia fuori chi crede in un punto di vista diverso dal nostro “creando problemi”.

Un rimedio è quello di notare il punto di vista e assumerlo come base di partenza da indagare introspettivamente e/o per entrare in dialogo con gli altri. La soggettività può portare al riconoscimento che la “mia” posizione non è realmente mia, ma è condizionata dalle informazioni ricevute o da un’esperienza che ho avuto, ed è quindi in grado di essere riesaminata e moderata. Per esempio il tuo vicino di casa nel fare manovra con l’auto è andato a sbattere contro il cancello e lo ha rotto. Esci di casa e gli urli contro: “Non sei capace di guidare vai a piedi che è meglio! Ti ho visto sbattere contro il cancello mentre facevi marcia indietro, e ho sentito che non metti mai la freccia quando svolti; inoltre Susan ha detto che era terrorizzata dalla tua velocità quando l’hai portata in città”. Se fai un passo indietro senza farti travolgere dal flutto puoi riconoscere almeno che la maggior parte delle tue informazioni sono di seconda mano, e che eri arrabbiato per dover riparare il cancello. Ti saresti rivolto all’incauto privo di aggressività, avresti chiesto che cosa è successo (ha avuto una fitta improvvisa al ginocchio), avresti pensato che quello che è successo a lui poteva succedere anche a te. Così avresti superato il flutto del punto di vista e stabilito una relazione gentile.

I flutti della sensualità, del divenire e dei punti di vista sono trascinati da un torrente più profondo, quello dell’ignoranza. Il flusso dell’ignoranza è la forza che mina la nostra indagine diretta sull’esperienza. Sotto la sua influenza (dell’ignoranza) possiamo assumere che i problemi siano attribuibili a insufficienze nella cultura, nella religione o nella natura umana assumendo un atteggiamento passivo facendo spallucce in segno di rassegnazione. L’approccio che il Buddha incoraggiava era quello di vedere questi flutti così come sono, come fenomeni, senza attribuire loro un sé o un’altra identità, culturale o religiosa, e non era favorevole a una loro accettazione passiva. Espose invece il modello delle Quattro Nobili Verità, che possiamo applicare alla nostra esperienza sotto forma di domande:

  • “La mia sofferenza e il mio stress o quelli degli altri sono collegati a questa esperienza?”
  • “Quali fattori mentali la causano?”
  • “C’è un cambiamento psicologico immediato che arresta quella causa?”
  • “Quale processo mi darà tutto il necessario per manifestare e mantenere quel cambiamento di prospettiva?”

Mettere in pratica le Quattro Nobili Verità è quindi la via d’uscita dall’ignoranza, il percorso verso la trascendenza. Ma per usare simili strumenti, dobbiamo costantemente incanalare le intenzioni della mente in questo percorso. Ecco perché coltiviamo le perfezioni: esse costruiscono un tempio che è una posizione vantaggiosa da cui indagare i flutti.

Fasi e realizzazioni delle perfezioni

Le pāramī sono dunque le inclinazioni che coltiviamo finché non diventano chiare intenzioni. La loro coltivazione avviene in tre fasi: quella iniziale (dell’azione), il raccoglimento (riflessione) e il completamento (meditazione). Esse verranno trattate di seguito prima dal punto di vista della mera successione (inizio-raccoglimento-completamento) poi in modo complementare entrando nel merito ai contenuti di ciascuna di esse (azione-riflessione-meditazione).

Nella fase iniziale si porta l’argomento alla mente: cosa accade? Bisogna individuare qual’è la sensazione predominante in una situazione sulla quale vogliamo agire; possiamo sperimentare divertimento, stiamo agendo per convenienza, abbiamo raggiunto il successo, ecc. ecc. tutte emozioni che possono assumere il controllo della mente. La fase di raccoglimento si ha quando si applica la perfezione di fronte all’opposizione, che si instaura quando pensiamo o ci accorgiamo che qualcosa in noi non vuole occuparsene, perché magari non è divertente, non è conveniente, è impopolare, ecc. ecc. La terza fase, quella di completamento, è quando sappiamo che la nostra pienezza in quella perfezione ci farà superare qualsiasi ostacolo. E’ quando pensiamo: “Perché no? perché non stabilire la mente in una posizione di forza mentre c’è tempo?”

La fase di raccoglimento, in cui c’è spesso una turbolenza emotiva ed energetica nella mente che fa emergere i dubbi e gli squilibri, si ha quando stabiliamo le nostre menti su una di queste perfezioni e riusciamo a capire meglio l’intenzione della nostra mente; così saremo in grado di affrontare la situazione in cui ci troveremo una volta che saremo davanti alla resistenza derivante dall’andare contro la corrente del flutto. Qui si deve usare l’impegno, la pazienza, la saggezza, la gentilezza al fine di rimanere saldi. Inoltre (sempre durante questa fase di raccoglimento) le perfezioni si stabiliscono e scalzano l’impazienza, l’intolleranza e le altre contaminazioni che bloccano il nostro potenziale.

La fase del completamento si ha mentre siamo intenti a controllare la corrente del flutto e cerchiamo equilibrio all’interno dei mutamenti della nostra mente, indagando secondo quanto ha detto il Buddha: “Questo comportamento causa a lungo termine a me e/o agli altri danni, sofferenza, mortificazione o stress? Conduce al mio bene, al bene degli altri e alla pace?”. Come risultato di questo lavoro, le nostre inclinazioni e intenzioni si stabiliscono e siamo in grado di vedere quanto è sofferente. Ora abbiamo una mente che è in contatto con la verità, ma non completamente assorbita in essa; adesso la mente si è aperta in un luogo di saggezza e compassione, invece di riferire le nostre azioni a quello del sé abituale. Qui sorge la grande intenzione: per il mio benessere, per il benessere degli altri. Così si scioglie il nodo distorto (dell’ignoranza) nel circuito dell’intelligenza, il nodo del punto di vista del sé. La mente si distende senza impedimenti e in quel distendersi, non si perde nulla, tranne una propensione a una sofferenza inutile. Non si crede più di essere perfetti, ma si raggiunge un perfetto equilibrio. È un cambiamento di vita.

Suggerimenti sull’attenzione

Prima di esaminare le diverse perfezioni, c’è un fattore che si può dire sia il fondamento di ciascuna di esse e la madre di tutti i Buddha. Questo è la vigilanza, l’atto di prestare un’attenzione imparziale. Essere vigili significa aprire la mente con un’attenzione piena; e questo abbandono delle tendenze abituali, negligenti o compulsive, è la preparazione per la semina delle pāramī. Vale a dire: quando la nostra mente, nell’atto di aprirsi, lascia andare le sue preoccupazioni, possiamo riflettere su ciò che essa fa in modo tale da permetterci di mettere in campo un’intenzione importante come la “pazienza”, la “gentilezza” e così via. La vigilanza è sostenuta dal contenimento, una pausa priva di giudizi e un raccogliere dentro di sé l’energia mentale. Il contenimento può essere usato per creare una sospensione di pochi secondi in cui si presta un’attenzione imparziale a ciò che ci accade.

L’azione

L’azione concreta da fare consiste nel fare una pausa ogni tanto, anche prima o dopo la prima colazione, aspettare dieci secondi quando entrate nell’auto prima di partire. Siamo abituati a non prenderci alcuna pausa, perché dedichiamo i momenti liberi a sognare a occhi aperti o a sentirci frustrati, impazienti o a rivisitare antiche ossessioni. Tuttavia, le pause offrono la possibilità di cambiare marcia, di riesaminare una emozione e di lasciare che le energie trainanti si allentino.

Riflessione

Per utilizzare bene la pausa serve la riflessione. Porsi elle domande, ma piuttosto che fornire una risposta, siate presenti alla sensazione e notate cosa tocca la domanda. Le domande che funzioneranno in questa pratica non vi dicono cosa dovreste fare o come qualcuno (o voi stessi) dovrebbe essere. La prima è: “Dove sono?”. Questa domanda manderà la sfera al senso corporeo spezzando il flusso del tempo e la storia della giornata, il che vi permette di vedere almeno in parte ciò di cui la mente è carica (l’ansia, la depressione o qualsiasi altra cosa). Questo può essere tutto ciò che potete fare in una pausa da cinque a dieci secondi, ma già conoscerete la corrente in cui vi trovate. Questo vi procurerà calma e una visuale in prospettiva. La visuale prospettica offerta dalla pausa può disporvi a fermarvi un po’ più a lungo per riesaminare il vostro territorio mentale/emotivo. In tal caso, la seconda domanda è: “Come sto?” o “Che sensazioni sorgono rispetto a ciò che succede?”. Questo vi darà una visione d’insieme sulle emozioni che dirigono o sono sul punto di dirigere le vostre azioni e parole. Interrogandovi, non cercate di cambiare quello stato, ma portate la compulsione all’esterno di esso in modo naturale. Vi date una scelta: seguire quello stato d’animo o affrontarlo. Questa domanda può mostrarvi, nel bene o nel male, un certo stato mentale che vi permette di essere consci di qualsiasi reazione sorga da quello stato. In questo modo mettete un freno al potere del flutto e rimanete equilibrati nel presente. Il tema principale dell’attenzione saggia è verificare se la vostra esperienza è in linea con le Quattro Nobili Verità: “La mia mente crea stress o lo indaga e lo allevia?”. A questo proposito, l’affrontare lo stato mentale include il notare come si sente il vostro corpo – in termini di energia nervosa o di quali parti del vostro corpo si sentono caricate o compresse dalla sensazione. Ad esempio potreste sentire delle tensioni, essere eccitati o avere una mente ronzante quasi priva di contatti con il corpo. Per affrontare meglio lo stato mentale, allargate la vostra consapevolezza per includere il vostro corpo il più possibile. E respirate lentamente, tranquillamente e profondamente. Addestrare la propria capacità di riflettere è imparare a pensare intenzionalmente in modo da badare anche alla “sensazione” dell’idea e a qualsiasi effetto essa abbia sul cuore e sulla mente.

Meditazione

  • Sedetevi in modo da mantenervi vigili, ma non stressati ed entrate in contatto con due serie di sensazioni: la prima, la pressione del corpo sul cuscino; la seconda, il senso di essere dritti e in equilibrio.
  • Prestate attenzione alla consistenza e al tono del vostro corpo, avvertendo le sensazioni nelle vostre mani, intorno agli occhi, alla fronte e alla bocca. Restateci insieme per qualche minuto.
  • Sentite le sensazioni ritmiche mentre state inspirando e espirando.
  • Notate i pensieri e le impressioni mentali come un flusso, piuttosto che coinvolgervi nei loro temi.
  • Provate a notare quando un pensiero finisce senza perdere la sintonia con la consapevolezza corporea e indagate anche come e quando un altro pensiero inizia. Quando potrete osservare un pensiero, vi capiterà di scoprire che esso si dissolve piuttosto che terminare e che si cristallizza piuttosto che iniziare. Se il pensiero sembra troppo intenso controllate cosa accade nel vostro corpo, riacquistate l’equilibrio e seguite alcune espirazioni per calmare l’energia. Ancora più importante è sentire la mente prima del pensiero, e notare come, facendo una pausa e rimanendo saldi in quel punto, il processo del pensiero si calma e si placa. Se vi eccitate, avete aspettative o siete agitati, avvolgete la vostra consapevolezza intorno a quelle sensazioni mentali/emotive.
  • Evitate di censurare i vostri pensieri; spargete invece l’attenzione sul corpo, lasciando la mente giocare nello sfondo. Ampliate l’attenzione in modo da non lasciarla assorbire nelle parole che la mente emette.
  • Continuate a fare riferimento alla consapevolezza finemente sintonizzata sul corpo come si è detto in precedenza.
  • Aggiungete altra attenzione saggia. Dov’è lo stress? nel corpo? nella mente? nelle vostre aspettative? nei desideri? nelle resistenze? È possibile lasciar andare alcune di queste cose? Datevi da cinque a dieci minuti per capirlo.